Un medico sorridente di mezza età, con camice bianco, assiste un paziente migrante più giovane durante una seduta di emodialisi in un ambiente ospedaliero moderno e luminoso. Il paziente guarda con speranza fuori da una finestra. Fotografia stile reportage, obiettivo 35mm, luce naturale, colori vividi ma realistici, profondità di campo che mantiene entrambi i soggetti a fuoco.

Migranti in Emodialisi: Sfide Nascoste e una Sorprendente Qualità della Vita

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi ha davvero colpito e fatto riflettere parecchio. Immaginatevi di dover affrontare una malattia cronica come l’insufficienza renale terminale, che vi costringe a lunghe e faticose sedute di emodialisi più volte a settimana. Ora, aggiungete a questo quadro il fatto di essere un migrante, magari arrivato da poco in un nuovo Paese, con tutte le difficoltà linguistiche, culturali e sociali che questo comporta. Non è un quadro semplice, vero? Eppure, è la realtà per molti.

Mi sono imbattuto in uno studio italiano, condotto presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena, che ha cercato di fare luce proprio su questa popolazione di pazienti: i migranti in emodialisi. E i risultati, ve lo dico subito, sono un mix di conferme di ciò che potevamo immaginare e di sorprese inaspettate.

Chi sono i migranti in emodialisi nel nostro Paese?

Pensate che, nel centro dialisi di Modena preso in esame, i pazienti migranti rappresentavano ben il 18,2% del totale. Parliamo di 55 persone su 302. Un numero non da poco! Questi pazienti provenivano principalmente dall’Africa (il 61,8%, soprattutto subsahariana), ma anche dall’Europa dell’Est (20%), dall’Asia (16,4%) e, in minima parte, dall’America Latina (1,8%).

Un dato che fa riflettere è che la stragrande maggioranza di loro (il 78,1%) non era consapevole della propria condizione renale al momento dell’arrivo in Italia. E circa un terzo (37,5%) è entrato nel nostro Paese in modo irregolare. Questo ci fa capire quanto sia difficile, per queste persone, accedere a controlli preventivi o a una diagnosi precoce nei loro Paesi d’origine o durante il loro viaggio.

L’impatto sulla diagnosi e l’inizio della terapia

Una delle differenze più nette emerse dallo studio riguarda l’età: i migranti iniziano l’emodialisi significativamente prima rispetto ai pazienti italiani (età mediana di 48,1 anni contro 70,4 anni). Un divario enorme! In particolare, i pazienti provenienti dall’Africa subsahariana erano i più giovani al momento dell’inizio del trattamento.

Questo, unito alla scarsa consapevolezza della malattia, porta a un altro problema cruciale: il “late referral”, ovvero l’invio tardivo allo specialista nefrologo. Ben il 44,4% dei migranti è arrivato dal nefrologo meno di tre mesi prima di dover iniziare la dialisi, contro solo il 7,6% dei pazienti italiani. Immaginate lo shock: arrivare in un Paese nuovo, magari senza conoscere bene la lingua, e ritrovarsi catapultati in una terapia salvavita così invasiva, spesso in condizioni di urgenza.

Infatti, una conseguenza diretta di questa presentazione tardiva è la necessità di iniziare la dialisi con un accesso vascolare temporaneo (come un catetere venoso centrale, CVC) nel 54,9% dei casi, una percentuale molto più alta rispetto ai pazienti italiani (36,5%). L’ideale sarebbe avere una fistola artero-venosa nativa, preparata per tempo, che è più sicura e duratura.

Dal punto di vista delle patologie associate, come ipertensione, diabete e problemi cardiovascolari, lo studio non ha trovato differenze statisticamente significative tra i due gruppi, anche se per le comorbidità cardiovascolari il dato era al limite della significatività. Un po’ più alta, ma non in modo statisticamente rilevante, la prevalenza di infezioni come Epatite B, C e HIV tra i migranti, probabilmente a causa della mancanza di programmi di vaccinazione o screening nei Paesi di origine.

Ritratto fotografico di un gruppo eterogeneo di persone in una sala d'attesa di un ospedale, alcuni con espressioni pensierose, altri che conversano. Luce soffusa, obiettivo da 35mm, profondità di campo per mettere a fuoco alcuni volti e sfocare leggermente lo sfondo, toni seppia e blu duotone per un'atmosfera riflessiva.

Il sogno del trapianto: un percorso a ostacoli

Arriviamo a un punto dolente: il trapianto di rene. Nonostante l’età più giovane, che li renderebbe candidati ideali, solo il 34,7% dei migranti potenzialmente idonei era stato effettivamente valutato per l’inserimento in lista d’attesa. Perché questa disparità? Lo studio suggerisce diverse barriere, non economiche (perché in Italia il trapianto è garantito dal Sistema Sanitario Nazionale), ma piuttosto:

  • Barriere linguistiche: la difficoltà a comprendere informazioni complesse sul percorso del trapianto.
  • Scarsa alfabetizzazione sanitaria: una minore familiarità con il sistema sanitario e le opzioni terapeutiche.
  • Differenze culturali: che possono influenzare la percezione della malattia e del trapianto.
  • Precarietà lavorativa: la paura di perdere il lavoro a causa delle numerose visite necessarie per la valutazione pre-trapianto.
  • Minore “self-advocacy”: una tendenza a esercitare meno pressione sui medici per essere inseriti in lista.
  • Mobilità: frequenti spostamenti tra città o viaggi nel Paese d’origine possono interrompere la continuità assistenziale.

È un peccato, perché sappiamo che il trapianto offre la migliore qualità di vita a lungo termine e che passare troppo tempo in dialisi può peggiorare gli esiti post-trapianto.

Il Sistema Sanitario Italiano: un faro di universalità?

Vale la pena ricordare che il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) si basa su principi di universalità ed equità. L’assistenza sanitaria urgente è garantita a tutti, inclusi i migranti privi di documenti. Per le cure non urgenti, chi non ha documenti può ottenere un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) che dà accesso a molte prestazioni. I migranti regolari, invece, hanno diritto all’iscrizione al SSN come i cittadini italiani.
Nonostante questo impianto normativo lodevole, lo studio evidenzia come, nella pratica, permangano ostacoli che impediscono un accesso realmente equo alle cure più avanzate, come il trapianto, o a una presa in carico nefrologica tempestiva.

La sorprendente qualità della vita

E qui arriva il dato che, personalmente, mi ha lasciato più sorpreso. Nonostante tutte queste difficoltà, i migranti in emodialisi hanno riportato un indice di qualità della vita (EQ-5D-5L) significativamente più alto rispetto ai pazienti italiani. In particolare, hanno segnalato molti meno problemi nella sfera dell’ansia e della depressione (-29,4%).

Come si spiega questo apparente paradosso? Gli autori dello studio avanzano alcune ipotesi:

  • Resilienza sociale e culturale: i migranti potrebbero avere una maggiore capacità di adattamento e meccanismi di coping radicati nella loro cultura.
  • Spiritualità e religiosità: che in alcune culture sono fortemente correlate a un maggior supporto sociale percepito e a una visione meno negativa della malattia.

Tuttavia, bisogna essere cauti. Innanzitutto, c’era una grande differenza di età tra i due gruppi, e i pazienti più anziani (come la maggioranza degli italiani nello studio) tendono ad avere più comorbidità e una qualità di vita percepita inferiore. Inoltre, il questionario sulla qualità della vita è stato compilato solo da un sottogruppo di migranti (32 su 55), quelli senza barriere linguistiche. È possibile che questo sottogruppo rappresenti i migranti meglio integrati e con una migliore capacità di affrontare le avversità, introducendo un potenziale bias di selezione. Chi vive una maggiore emarginazione sociale a causa della lingua potrebbe avere difficoltà maggiori.

Dettaglio macro di una mano che stringe delicatamente quella di un paziente collegato a una macchina per emodialisi. Illuminazione controllata per evidenziare le texture della pelle e i dettagli della macchina. Obiettivo macro da 90mm, messa a fuoco precisa sulle mani, sfondo leggermente sfocato.

Cosa ci insegna questo studio?

Questo studio, seppur con i suoi limiti (campione piccolo, monocentrico, disegno retrospettivo), accende un faro su una realtà complessa e spesso poco conosciuta. Ci dice che i pazienti migranti in emodialisi sono una popolazione vulnerabile, che inizia la terapia in età più giovane, spesso in urgenza e con un accesso vascolare temporaneo a causa di una diagnosi tardiva. L’accesso al trapianto di rene, nonostante l’assenza di barriere economiche o istituzionali dirette, sembra limitato da una serie di fattori socio-culturali e logistici.

La scoperta di una migliore qualità della vita percepita è intrigante e merita ulteriori approfondimenti su campioni più ampi e diversificati, magari cercando di capire meglio il ruolo della resilienza e dei fattori culturali.

Quello che emerge con forza è la necessità di interventi mirati:

  • Potenziare gli screening per le malattie renali nelle popolazioni migranti, sia nei Paesi di arrivo che, idealmente, in quelli di origine.
  • Facilitare percorsi di accesso rapido alla valutazione per il trapianto, superando le barriere linguistiche e culturali con mediatori culturali e materiale informativo dedicato.
  • Migliorare l’educazione terapeutica sulle diverse modalità dialitiche, inclusa la dialisi domiciliare, spesso poco considerata per questi pazienti.

Insomma, c’è ancora molta strada da fare per garantire che i principi di universalità ed equità del nostro sistema sanitario si traducano in risultati di salute e qualità di vita ottimali per tutti, inclusi i nostri concittadini più vulnerabili che arrivano da lontano. È una sfida che, come comunità scientifica e come società, non possiamo ignorare.

Fonte: Springer

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