Una pila di libri antichi su uno sfondo scuro, uno di essi aperto con pagine ingiallite. Luce soffusa laterale che crea un'atmosfera intima e riflessiva, evocando lo studio filosofico e letterario del lutto. Obiettivo macro da 60mm, illuminazione controllata, alto dettaglio sulla texture della carta.

Memorie di Lutto: Testimonianze Autentiche o Raffinate Costruzioni Letterarie?

Amici, parliamoci chiaro: il lutto è un’esperienza che, prima o poi, tocca quasi tutti. È un terremoto emotivo, un buco nero che risucchia certezze e ridefinisce il nostro mondo. E ultimamente, anche la filosofia, quella disciplina che ama sviscerare i grandi perché della vita, ha iniziato a ficcarci il naso più seriamente. Si indaga sulla sua natura, su come ci trasforma, su cosa significhi davvero perdere qualcuno di fondamentale. Ma come fanno i filosofi a “studiare” un’esperienza così intima e personale? Beh, una delle strategie che ho notato prendere piede è quella di attingere a piene mani dalle cosiddette memorie letterarie di lutto.

Quando la filosofia legge il lutto (e i libri che ne parlano)

Avete presente quei libri, spesso struggenti e potentissimi, in cui autori e autrici raccontano il proprio dolore per la perdita di una persona cara? Penso a capolavori come “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion, o “Storia di una vedova” di Joyce Carol Oates, o ancora “Note sul lutto” di Chimamanda Ngozi Adichie. Ecco, mi sono accorto che nella ricerca filosofica sul lutto, questi testi vengono spesso citati come se fossero delle specie di “prove” a sostegno di determinate tesi sulla fenomenologia del dolore. È come se dicessero: “Vedete? Tizio o Caia hanno scritto questo, quindi il lutto funziona proprio così”.

Questa tendenza, che potremmo definire l’interpretazione delle memorie come “prove fenomenologiche”, mi ha fatto riflettere. Da un lato, capisco il fascino: queste opere offrono descrizioni vivide, introspezioni profonde, parole che sembrano catturare l’inafferrabile. Ma dall’altro, mi chiedo: stiamo davvero trattando questi testi per quello che sono? O rischiamo di cadere in un equivoco, trascurando la loro vera natura?

Le memorie di lutto come “prove”: un’abitudine filosofica sotto la lente

Facciamo qualche esempio concreto. C’è chi, come Matthew Ratcliffe, cita Oates per sostenere che il lutto può farci sentire le parole come “sbagliate”, inadeguate. Oppure Michael Cholbi, che usa frasi di Didion per corroborare l’idea che il lutto sia associato a un senso di spaesamento e perdita di significato. E ancora, Dorothea Debus e Louise Richardson, che aprono il loro articolo con una citazione da Adichie per parlare dell’ambiguità dei ricordi nel lutto, a volte dolorosi, a volte confortanti.

Intendiamoci, non sto dicendo che queste citazioni siano inutili. Possono essere illustrative, evocative, possono dare forza retorica a un’argomentazione. Ma il punto cruciale, secondo me, è quando si passa dall’illustrazione alla giustificazione. Quando, cioè, si usano queste memorie come se fossero dati grezzi, testimonianze dirette e incontaminate dell’esperienza vissuta, capaci di confermare o smentire un’ipotesi filosofica.

Il problema è che questa strategia, spesso implicita e non discussa a livello metodologico, rischia di ignorare lo status epistemico e la configurazione artefatta delle memorie di lutto. Non sono semplici resoconti, ma opere letterarie attentamente costruite e curate.

Ma un libro è un libro, non un diario segreto (ecco perché)

E qui veniamo al nocciolo della questione. Una memoria di lutto non è una fotografia istantanea del dolore. È, prima di tutto, un manufatto letterario. C’è un autore, che è anche il narratore (l'”io narrante”), che racconta di sé stesso nel passato (l'”io narrato”). Questa dinamica è complessa. L’autore che scrive oggi non è la stessa persona che ha vissuto quel dolore mesi o anni prima. C’è un lavoro di selezione, di costruzione, di messa in forma narrativa.

Questi testi esplorano e sfidano le possibilità e i limiti del ricordo autobiografico, degli atti di commemorazione, delle “master narratives” (cioè le storie dominanti che la società ci racconta sul lutto) e delle aspettative di genere letterario. Sono prodotti di pratiche di creative writing, che includono tecniche narrative elaborate, l’uso di figure retoriche, il dialogo con altri testi. C’è una sorta di “doppia visione”: da un lato la rappresentazione mimetica delle esperienze legate al lutto, dall’altro il design narrativo e artefatto del testo stesso.

Fotografia di un ritratto di una persona di mezza età, seduta a una scrivania antica ingombra di libri e fogli manoscritti, con una penna in mano e lo sguardo pensieroso rivolto verso una finestra da cui filtra una luce soffusa. Obiettivo prime da 35mm, bianco e nero, profondità di campo accentuata per mettere a fuoco il soggetto e sfocare leggermente lo sfondo.

Come hanno già osservato Jennifer Radden e Somogy Varga a proposito delle memorie sulla depressione, questi testi potrebbero dirci di più sul discorso letterario intorno a un’esperienza che sull’esperienza “cruda” in sé. E credo che lo stesso valga per le memorie di lutto.

Le trappole della memoria e le aspettative sociali

Analizziamo quattro caratteristiche chiave che, a mio avviso, mettono in discussione l’uso delle memorie di lutto come prove fenomenologiche dirette:

  • La natura costruttiva del ricordo autobiografico: La memoria non è una registrazione fedele. È generativa, costruttiva, soggetta a “distorsioni” come la transitorietà (i ricordi sbiadiscono), il bias di coerenza (tendiamo a ricordare in modo coerente con le nostre credenze attuali), il bias auto-accrescitivo (ci ricordiamo in modo positivo). Le memorie letterarie spesso riflettono, o addirittura tematizzano, questa inaffidabilità. Pensate a Didion che confronta i suoi ricordi con i registri ospedalieri per cercare di fissare i tempi della morte del marito.
  • Gli obblighi morali della commemorazione: In molte culture, chi è in lutto ha l’obbligo morale di ricordare e commemorare i defunti, spesso evidenziandone virtù e successi. Le memorie di lutto possono essere viste come manifestazioni artefatte di questi atti di commemorazione. Adichie, per esempio, ricorda suo padre come una persona “veramente amabile” e riporta le parole di altri che lo descrivono come “onesto, calmo, gentile”. Questo non significa che non lo fosse, ma la forma letteraria del ricordo è influenzata da questa istanza morale.
  • Le “master narratives” sul lutto: Ogni società ha delle narrazioni dominanti su come si dovrebbe vivere il lutto, su cosa sia un lutto “normale”. Le memorie letterarie si confrontano con queste narrazioni: a volte le perpetuano, altre volte le sfidano, creando narrazioni alternative. Oates, ad esempio, smonta la figura della “brava Vedova”, quel modello di comportamento che la società si aspetta da una donna che ha perso il marito.
  • Le convenzioni e aspettative di genere letterario: Come ogni testo letterario, le memorie di lutto dialogano con le convenzioni del genere. Possono usare la frammentazione narrativa, il bricolage testuale, strategie che sfidano l’idea di una narrazione coerente della perdita. La stessa Didion, con la sua voce a tratti fredda e refertuale, rifiuta il modo “atteso” di raccontare il lutto. Inoltre, la tendenza contemporanea all’autofiction, che sfuma i confini tra realtà e finzione, complica ulteriormente lo status epistemico di questi testi.

Non “prove”, ma “tecnologie del mondo del lutto”: un cambio di prospettiva

Allora, se le memorie di lutto non sono “prove” dirette dell’esperienza del dolore, cosa sono? Io propongo di vederle come delle specie di “tecnologie del mondo del lutto” (prendendo a prestito e adattando un concetto di Karin Kukkonen). Non ci mostrano il lutto “così com’è”, ma piuttosto come noi esseri umani usiamo le storie, la scrittura, l’arte per navigare in quel mare in tempesta che è la perdita, per abitare quello spazio epistemico volatile e incerto che si apre dopo un lutto.

Questi testi sono strumenti che autori e lettori possono usare per dare un senso, per esplorare, forse persino per trasformare un’esperienza così devastante e, come dice Sofija Markovic, “non scelta”. Sono pratiche creative che permettono di confrontarsi con un mondo vitale che è stato irrevocabilmente alterato. Ci dicono molto sul ruolo delle pratiche auto-narrative letterarie nel gestire e negoziare i processi di lutto, più che sulla fenomenologia del lutto per se.

Verso un approccio interdisciplinare: filosofi, narratologi e scienziati cognitivi a braccetto

Cosa propongo, dunque, per il futuro? Un bell’approccio interdisciplinare! Immaginate filosofi della mente, esperti di fenomenologia, narratologi cognitivi e scienziati cognitivi che studiano insieme questi testi. L’obiettivo non sarebbe più cercare “la verità” del lutto dentro le pagine, ma capire come queste “tecnologie narrative del mondo del lutto” funzionano. Come contribuiscono, se lo fanno, a rinegoziare una connessione con un mondo reso futile e volatile? Quali sono i limiti del narrare esperienze e ricordi legati al lutto? Cosa si può dire, e cosa deve rimanere indicibile, attraverso la creazione di questi artefatti letterari autoreferenziali?

Questo tipo di studio potrebbe analizzare sia la prospettiva di chi scrive (come l’atto di creare e revisionare un memoir aiuta a processare il lutto) sia quella di chi legge (come questi testi risuonano con le aspettative e le esperienze personali dei lettori, come influenzano la loro comprensione del lutto).

Riscoprire il valore delle memorie di lutto (nel modo giusto)

In conclusione, amici, le memorie di lutto sono tesori preziosi. Ma, come tutti i tesori, vanno maneggiati con cura e con la giusta consapevolezza. Non sono finestre trasparenti sull’esperienza del dolore, ma mappe affascinanti di come cerchiamo di orientarci quando quel dolore ci travolge, usando gli strumenti potenti della narrazione e della letteratura.

Trattarle come semplici “prove” rischia di sottovalutare la loro complessità e il loro status di artefatti, portando magari a generalizzazioni indebite sull’esperienza del lutto (spesso basate su un corpus di testi scritti da autori occidentali, affermati e anglofoni). Invece, studiarle come “tecnologie del mondo del lutto” può aprirci nuove prospettive sulla relazione tra narrazione, esperienza e trasformazione personale di fronte a una delle sfide più grandi della vita.

Fonte: Springer

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