Illustrazione concettuale fotorealistica che fonde elementi umani frammentati (come parti di un volto o mani) con reti digitali luminose e strutture organiche simili a radici o micelio, simboleggiando il superamento dell'antropocentrismo nelle medical humanities verso un approccio postumano interconnesso. Luce soffusa e drammatica, stile surreale ma con dettagli nitidi.

Josef K. va in Clinica: Perché le Medical Humanities Chiedono il Postumano

Allora, parliamoci chiaro: cosa sono esattamente le “medical humanities”? Sembra un termine un po’ altisonante, quasi accademico, ma in realtà tocca corde profondissime del nostro essere pazienti, medici, esseri umani di fronte alla malattia e alla cura. È un campo vasto, diciamocelo, un po’ nomade, che si trova a casa sua sia in facoltà di medicina che in dipartimenti di lettere. Un incrocio affascinante, a volte un po’ caotico, tra discipline diverse – storia, letteratura, filosofia, arte – che cercano di capire l’esperienza umana della salute e della malattia.

Una cosa però sembra mettere tutti d’accordo: la superstar indiscussa delle medical humanities è la narrazione. Le storie. Raccontare, ascoltare, interpretare le storie dei pazienti, dei medici, le storie che costruiamo attorno alla malattia. Sembra bellissimo, no? E in parte lo è. Pensate alla “medicina narrativa” di Rita Charon, che ci insegna la “competenza narrativa”: la capacità di accogliere, assorbire, interpretare e agire in base alle storie degli altri. Fondamentale.

Il Copione della “Medical Romance”

Ma c’è un “ma”. Siamo sicuri che il modo in cui usiamo le storie sia sempre… liberatorio? Ho la sensazione, e non sono il solo, che spesso ci infiliamo in un copione un po’ troppo rigido, quello che potremmo chiamare il “medical romance“. Avete presente? La malattia arriva, scombussola l’identità del protagonista (paziente o medico che sia), lui o lei si mette lì, racconta, riflette, interpreta, e alla fine… voilà! L’identità è ricomposta, magari trasformata, ma in qualche modo “restaurata”, più forte, più “umana”. Anche quando la storia finisce male, con la morte, c’è sempre la consolazione della “buona morte”, dell’aver trovato un senso, dell’aver riaffermato la propria umanità contro il caos della malattia.

È una narrazione potente, rassicurante. Ma non è che, a forza di cercare questa coerenza, questa chiusura del cerchio, ci perdiamo qualcosa per strada? Non è che questa enfasi sull’interpretazione profonda, sulla ricerca del significato nascosto che “salva l’umano”, finisca per mettere tra parentesi tutta la confusione, la frammentarietà, l’esperienza corporea cruda e disordinata che spesso accompagna la malattia? Questo modello rischia di rendere tutte le altre narrazioni – quelle di fallimento, di dolore irrisolto, di pura sensazione fisica – sinonimo di “insuccesso”.

E se Provassimo a Stare in Superficie? L’insegnamento di Kafka

E se, invece di scavare ossessivamente alla ricerca di un significato profondo e redentore, provassimo a restare più in superficie? È un’idea che arriva dagli studi letterari, la cosiddetta “surface reading“. Non significa essere superficiali, anzi. Significa prestare attenzione a ciò che c’è lì, davanti ai nostri occhi (e sotto la nostra pelle): le texture, le sensazioni, le ambiguità, le connessioni e disconnessioni immediate, senza correre subito a “interpretare” tutto per forza.

Prendiamo un esempio letterario potente: Il Processo di Franz Kafka. Chi è Josef K.? È l’emblema dell’uomo che cerca disperatamente una narrazione coerente per dare un senso a un’accusa assurda e incomprensibile. Vorrebbe scrivere la sua difesa, spiegare tutto, trovare una logica. Ma non ci riesce. Il romanzo non è una caccia al tesoro per trovare il significato nascosto della sua colpa (che non conosceremo mai). È piuttosto un’immersione in un labirinto burocratico soffocante, un groviglio di incontri strani, di corpi che si toccano, si afferrano (quel verbo tedesco, fassen, che torna ossessivamente), si respingono in modi che sfuggono a una spiegazione psicologica o simbolica profonda.

Fotografia in bianco e nero, stile film noir, di corridoi labirintici e sovrapposti che ricordano sia un tribunale che un vecchio ospedale, con una figura solitaria e confusa al centro che guarda verso una luce incerta in fondo, obiettivo 35mm, profondità di campo ridotta, atmosfera opprimente.

Kafka ci mostra la brutalità di un sistema impersonale, ma anche la potenza di questi momenti quasi animali, corporei, che accadono “in superficie” e resistono all’interpretazione. K. è come il topo di cui parla il poeta Billy Collins, gettato in una poesia-labirinto da cui cerca disperatamente di uscire, brancolando nel buio. Vuole legare la sua situazione a una sedia e torturarla finché non confessa il suo significato, ma non ci riesce. La sua storia è frammentata, corporea, piena di zone d’ombra. E forse è proprio lì, in quella resistenza all’interpretazione facile, che si annida un’esperienza più autentica.

Zone d’Interesse e Zone d’Indifferenza: Il Caso del Suicidio Assistito

Questo modo di guardare alle storie ci aiuta a capire un concetto chiave: la distinzione tra “zona d’interesse” e “zona d’indifferenza“. Quando raccontiamo o analizziamo qualcosa, scegliamo (spesso inconsciamente) su cosa concentrarci (la zona d’interesse) e cosa lasciare fuori, sullo sfondo (la zona d’indifferenza). Il “medical romance”, con la sua ossessione per l’individuo e la sua interiorità, tende a mettere nella zona d’interesse solo la psiche del paziente, la sua lotta per trovare un senso, la sua autonomia. Tutto il resto – il contesto sociale, le strutture economiche, le dinamiche di potere, l’ambiente fisico – finisce spesso nella zona d’indifferenza.

Vediamo come questo funziona in un ambito delicatissimo: il suicidio assistito (PAS) richiesto da persone con disabilità. La narrazione dominante, quella che potremmo definire “romantica” alla Hedda Gabler (che voleva che il suo amante si suicidasse “splendidamente”), si concentra sulla dignità, sull’autonomia, sulla “buona morte” come scelta coraggiosa dell’individuo che afferma la propria volontà di fronte a una sofferenza intollerabile. Si parla del “coraggio” di chi sceglie questa strada, della razionalità della sua decisione.

Ma siamo sicuri che questa sia tutta la storia? Studiosi e attivisti nell’ambito della disabilità ci mettono in guardia. Esiste un doppio standard pericoloso: di fronte a una persona non disabile che esprime desideri suicidi, la medicina interviene per prevenire; di fronte a una persona disabile, la stessa richiesta viene talvolta vista come “comprensibile”, “razionale”, quasi “doverosa”.

Prendiamo i casi, analizzati da Longmore, di David Rivlin e Larry McAfee, due uomini tetraplegici dipendenti da ventilazione meccanica che ottennero il permesso legale per il PAS. Il dibattito pubblico si focalizzò sulla loro sofferenza, sulla “crudele parvenza di vita”, sul loro diritto a scegliere. Sembrava una classica storia di affermazione dell’autonomia individuale. Ma Longmore ci invita a spostare lo sguardo, ad allargare la nostra “zona d’interesse”. McAfee, alla fine, cambiò idea e volle vivere. Perché? Perché le sue condizioni di vita migliorarono drasticamente quando, grazie a un cambiamento nelle politiche di assistenza, poté ricevere cure a casa invece di essere confinato in una struttura dove passava le giornate a “guardare l’orologio e la TV”, senza nulla da attendere.

Fotografia a colori tenui, duotone blu e grigio, di una mano con pelle segnata dal tempo che tiene una piuma delicata sospesa sopra un complesso ingranaggio meccanico arrugginito e parzialmente visibile, simbolo delle strutture impersonali e sanitarie. Obiettivo macro 85mm, messa a fuoco precisa sulla mano e la piuma, sfondo sfocato che suggerisce un ambiente clinico o istituzionale.

Il problema, quindi, non era solo la sua condizione fisica “intollerabile” in sé, ma anche (e forse soprattutto) il modo in cui il sistema sanitario e assistenziale lo costringeva a vivere. Fattori come le politiche di rimborso, la disponibilità di assistenza domiciliare, i pregiudizi sociali sulla “qualità della vita” delle persone disabili – tutti elementi che la narrazione focalizzata sull’individuo tende a lasciare nella “zona d’indifferenza” – diventano cruciali. Come nota Braswell, persino la paura di essere un peso per i familiari, citata come motivazione per il PAS, è un prodotto del modo in cui è organizzato il nostro sistema di cura.

Verso le Medical Posthumanities: Abbracciare il Disordine

Ecco perché credo che le medical humanities, per compiere davvero il loro lavoro, debbano evolvere verso quelle che potremmo chiamare le “medical posthumanities“. Non si tratta di eliminare l'”umano”, ma di decentrarlo. Di smetterla di considerarlo l’unico attore autonomo, coerente, al centro dell’universo narrativo.

Un approccio postumano alla medicina significa:

  • Abbracciare narrazioni frammentate, incarnate, provvisorie, che non cercano a tutti i costi una conclusione ordinata.
  • Prestare attenzione alle reti, alle interconnessioni tra corpi, tecnologie, ambienti, strutture sociali ed economiche.
  • Riconoscere l’importanza della materialità, del corpo non solo come sede della coscienza, ma come groviglio di processi biologici, affettivi, sociali.
  • Stare nel casino” (to stay with the trouble, direbbe Donna Haraway), accettare l’ambivalenza, la frustrazione, l’incertezza, senza correre a risolverle con interpretazioni rassicuranti.
  • Spostare la nostra “zona d’interesse” per includere quei fattori strutturali e ambientali che spesso lasciamo fuori dalla storia.

Non è un invito al relativismo (“tutto va bene”), ma un invito a essere più onesti sulla complessità del reale. È un modo per avvicinarci di più all’esperienza vissuta della malattia e della cura, che raramente assomiglia a un romanzo ben costruito. È un modo per riconoscere che siamo esseri profondamente interconnessi, plasmati da forze che vanno ben oltre la nostra coscienza individuale. È un approccio che, credo, può rendere la medicina più attenta, più critica e, in definitiva, più umana – proprio perché riconosce tutto ciò che umano non è, ma che ci costituisce profondamente.

Fonte: Springer

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