Una potente immagine teatrale di Medea, divisa tra rabbia e disperazione, che simboleggia la lotta contro la xenofobia e la misoginia. Primo piano del volto di un'attrice che interpreta Medea, illuminazione drammatica con forti contrasti, obiettivo prime 35mm, effetto film noir per accentuare l'intensità emotiva. Sullo sfondo, elementi scenici che richiamano sia la sua origine straniera sia il rifiuto subito.

Medea la Straniera di Atalaya: Quando il Teatro Grida Contro Xenofobia e Misoginia!

Amici lettori, vi siete mai chiesti come un mito antico, vecchio di millenni, possa ancora parlarci con una forza sconvolgente dei problemi che viviamo oggi? Beh, preparatevi, perché sto per portarvi nel cuore pulsante di una rappresentazione teatrale che fa proprio questo: “Medea, la extranjera” (2004) della compagnia sivigliana Atalaya. Un pugno nello stomaco, una riflessione potente su come la xenofobia e la misoginia si intreccino, avvelenando le nostre società.

Vedete, la tragedia greca classica era maestra nell’usare il “diverso”, lo “straniero” – che fosse un barbaro o una donna, figure spesso ai margini – per far riflettere Atene su se stessa. Un gioco di specchi, insomma. E oggi? Oggi, rimettere in scena questi drammi significa spesso puntare il dito, con coraggio, contro le stesse dinamiche di esclusione che, purtroppo, non sono affatto passate di moda.

Un Palcoscenico Multiculturale per Denunciare

L’allestimento di Atalaya è geniale proprio in questo. Prende il mito di Medea, la straniera per eccellenza, colei che viene da una terra lontana, la Colchide, e la sbatte in faccia alla “civile” Corinto. Ma non si ferma qui. La compagnia utilizza musiche e costumi che evocano un crogiolo di culture, creando un effetto quasi straniante. Questa stessa diversità, però, non è solo estetica: diventa strumento per denunciare quanto sia profondamente problematica la discriminazione che Medea subisce, sia come immigrata che come donna.

L’obiettivo, ve lo dico chiaramente, è farci riflettere su come la xenofobia nelle società occidentali contemporanee si sposi, troppo spesso, con un sessismo subdolo e pervasivo. Immaginate Medea non solo come la maga tradita da Giasone, ma come il simbolo di tutte quelle donne che, arrivate in una nuova terra in cerca di speranza, si scontrano con un muro di diffidenza e disprezzo, doppio perché sono “altre” e perché sono femmine.

Tre Mondi, Quattro Medee: La Frammentazione dell’Identità

La regia di Ricardo Iniesta, con la drammaturgia di Carlos Iniesta, è un vero e proprio viaggio. La scena si muove attraverso tre “mondi” distinti:

  • Un piano atemporale, iniziale e finale, dove gli attori, come un coro moderno, declamano testi potenti di Heiner Müller, usando delle grandi zeppe di legno che diventano menhir, remi, mura.
  • La Colchide, la patria di Medea. Qui tutto è primitivo, tribale. Colori terrosi, canti ancestrali, danze selvagge. Medea appare inizialmente come “Medea Terra”, con un copricapo di corde che le nasconde il volto, quasi un burka, a simboleggiare il suo essere ancora un enigma, avvolta nelle sue radici.
  • Corinto, la città greca. Un contrasto netto: un ambiente urbano, “civilizzato”, ma anche asettico e freddo. I colori cambiano, diventano rosa e blu, i costumi ricordano sari indiani o divise quasi cliniche.

E Medea? Ah, Medea non è una sola. È frammentata in quattro diverse attrici, ognuna a incarnare un aspetto della sua personalità, legato a uno dei quattro elementi:

  • Medea Terra: l’attaccamento viscerale alla sua patria, alle sue origini. Veste di marrone.
  • Medea Acqua: la vulnerabilità, il dolore per il rifiuto e l’abbandono a Corinto. Veste di azzurro chiaro.
  • Medea Fuoco: la passione ardente per Giasone, l’amore che la consuma. Veste di rosso.
  • Medea Vento: la furia, la vendetta, la distruzione che si scatena. Veste di grigio argenteo.

Queste quattro Medee dialogano, lottano tra loro, rappresentando il conflitto interiore di una donna lacerata. È un’idea potentissima, che umanizza il personaggio pur mostrandone la complessità e, diciamocelo, la terribilità.

Una scena teatrale che evoca la Colchide. Elementi tribali, colori terrosi (marrone, ocra). Al centro, una figura femminile (Medea Terra) con un costume fatto di pelli e corde, un copricapo che le nasconde parzialmente il volto. Reti da pesca o strutture in legno grezzo sullo sfondo. Illuminazione calda e drammatica. Obiettivo prime, 35mm, profondità di campo per mettere a fuoco la figura centrale ma lasciare intravedere lo sfondo.

La fusione di testi è un altro colpo da maestro. Non solo Euripide e Seneca, i “classici” per eccellenza quando si parla di Medea, ma anche autori come Apollonio Rodio, Heiner Müller (con i suoi testi poetici e taglienti come “Paesaggio con argonauti” e “Medeamaterial”), Franz Grillparzer, Pier Paolo Pasolini, e persino frammenti da Shakespeare. Questa intertestualità crea un ponte tra l’antichità e il nostro presente, rendendo il messaggio ancora più universale e urgente.

Lo Spettro della Xenofobia: Dalle “Pateras” a Corinto

L’opera di Atalaya è stata concepita in un periodo, i primi anni 2000, in cui la Spagna viveva drammaticamente il fenomeno dell’immigrazione via mare, le famigerate “pateras”. Migliaia di persone che cercavano “l’eldorado” occidentale e trovavano spesso disprezzo, muri e, purtroppo, la morte. La compagnia stessa dichiara di aver voluto sottotitolare la sua Medea “la straniera” proprio in riferimento a questo dramma contemporaneo.

E come si manifesta questa xenofobia in scena? A Corinto, Medea è costantemente etichettata. Il coro dei Corinzi, con i volti coperti quasi a non voler vedere l’estranea, la definisce “quella torva straniera”. Creonte, il re, è esplicito: “Mai qui si integrerà!”. Persino Giasone, l’uomo per cui ha tradito la sua famiglia e la sua terra, le rinfaccia la sua origine barbara, esaltando la “giustizia” e le “leggi” greche, come se la Colchide fosse un luogo insignificante ai confini del mondo.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare: Medea era una principessa, non una migrante disperata su un barcone. È vero. Ma lo spettacolo gioca proprio su questa universalità del sentimento di sradicamento, sulla brutalità del rifiuto che può trasformare chiunque in un “altro” da temere e disprezzare. La musica, che attinge da tradizioni tibetane, nepalesi, arabe, balcaniche, greche, contribuisce a creare questa sensazione di un dramma che potrebbe svolgersi ovunque, ieri come oggi.

Le parole declamate all’inizio sono emblematiche: “Io, una bandiera. Uno straccio insanguinato appeso alla finestra… Io, scarto d’uomo. Io, scarto di donna… Io, inferno di sogni che porta casualmente il mio nome”. Chi, sentendosi straniero in terra ostile, non ha provato qualcosa di simile?

E la Misoginia? Un Filo Rosso Sangue

Se la xenofobia è urlata, la misoginia serpeggia, più subdola ma non meno letale. Inizia quasi con le parole di Medea Fuoco stessa, quando, parlando della sua passione per Giasone, paragona il suo trasporto a come “l’oro relucente abbaglia la prostituta”. Un’autodenigrazione che già la colloca in una posizione di inferiorità morale autoimposta, o forse imposta dal contesto.

Ma è Giasone a incarnare il sessismo più becero. Non solo la abbandona per un matrimonio più vantaggioso con Creusa, la figlia del re, ma sminuisce i sacrifici di Medea, attribuendo le sue azioni non a un amore sincero, ma alla “lussuria femminile”, a un Eros che l’avrebbe “forzata” a salvarlo. Le sue parole sono macigni: “Sei di intelligenza sottile, ma la tua lingua prova invidia a riconoscere che fu Eros a costringerti a salvare il mio corpo”. Come a dire: sei solo una donna in preda agli istinti, non un essere pensante capace di scelte autonome.

Quando Medea Acqua, distrutta dal dolore, si confronta con lui, gli rinfaccia: “I miei crimini sono tuoi, non miei… Per te ho ucciso e ho partorito. Io, la tua cagna, la tua prostituta, io. Io, gradino della scala della tua gloria”. È la presa di coscienza di una relazione asimmetrica, manipolatoria, in cui lei è stata solo uno strumento.

Una scena teatrale che rappresenta Corinto. Costumi dai colori vivaci (rosa, blu) in contrasto con l'oscurità emotiva. Un coro di figure con volti parzialmente coperti, che esprimono disprezzo o ostilità. Medea (Medea Acqua) in un angolo, isolata, vestita di blu chiaro, che esprime vulnerabilità. Luci fredde, forse bluastre, che accentuano l'alienazione. Obiettivo zoom, 24-70mm per catturare l'interazione tra i personaggi, con un leggero effetto film noir per l'atmosfera.

Questa umiliazione, questo disprezzo per il suo essere donna, si somma al rifiuto come straniera, e la miscela diventa esplosiva. La vendetta di Medea, per quanto terribile (l’assassinio di Creusa e dei propri figli), non è presentata come pura follia, ma come la conseguenza quasi logica di un sistema che la respinge, la giudica e, in fondo, la spinge verso l’abisso. Una sorta di profezia che si autoavvera: la temevano come barbara e maga assassina, e lei finisce per incarnare quella paura.

Un Teatro che Interroga, Non Offre Risposte Semplici

L’allestimento di Atalaya non giustifica Medea, sia chiaro. Ma ci costringe a chiederci: cosa succede quando si spinge un essere umano oltre ogni limite di sopportazione? Quando la dignità viene calpestata sistematicamente? La compagnia, con la sua ricerca teatrale che fugge la letteralità dei classici per creare qualcosa di nuovo e vibrante, usa il mito per parlarci del presente.

Certo, lo spettacolo può risultare a tratti criptico, soprattutto per chi non ha familiarità con i miti o con il teatro di ricerca. La rappresentazione dell’infanticidio, ad esempio, è simbolica: le quattro Medee colpiscono delle pietre. Non interessa il realismo del crimine, ma il suo effetto sulla psiche di Medea, sulla sua identità frammentata.

Nonostante qualche possibile limite nel trasmettere con immediatezza tutte le sue complesse intenzioni – come l’equiparazione diretta tra la Medea reale e i migranti delle pateras, o una certa immagine stereotipata della Colchide come terra “primitiva” – “Medea, la extranjera” resta un’opera di straordinaria potenza. Ci sbatte in faccia la durezza dell’immigrazione, la crudeltà della xenofobia e la persistenza della misoginia.

Il tragico, qui, è che alla fine Medea dà ragione a chi la odia. Ma questa “vittoria” dei suoi detrattori è il frutto amaro di un sistema che l’ha esclusa, giudicata e, in definitiva, annientata prima ancora che lei commettesse i suoi crimini più efferati. E questa, amici miei, è una lezione che risuona terribilmente attuale.

Una scena teatrale intensa e simbolica. Quattro figure femminili (le quattro Medee) compiono un atto ritualistico. Una di esse, Medea Vento, vestita di grigio argenteo, è illuminata da una luce rossa che suggerisce sangue. Le altre Medee tengono in mano pietre o oggetti simbolici. L'atmosfera è carica di tensione e tragedia. Obiettivo prime, 50mm, con un'illuminazione drammatica e contrastata, forse duotone rosso e nero per enfatizzare la violenza e il dramma.

Questo spettacolo è un invito a guardare oltre le apparenze, a interrogarci sui nostri pregiudizi, a riconoscere come l’odio per il “diverso”, che sia per origine o per genere, possa generare mostri. E il teatro, quando è grande come in questo caso, ha il potere di farcelo capire meglio di mille discorsi.

Fonte: Springer

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