Immagine concettuale che rappresenta il marketing inclusivo che fallisce: una freccia colorata che simboleggia un'iniziativa di marketing inclusiva che, invece di colpire il bersaglio dell'inclusione, si piega all'indietro come un boomerang. Sfondo neutro per enfatizzare il concetto. Prime lens 24mm, profondità di campo, illuminazione drammatica per sottolineare il 'backfire'.

Marketing Inclusivo: Quando le Buone Intenzioni Fanno Cilecca (e Come Rimediare!)

Ok, parliamoci chiaro. Il marketing inclusivo è sulla bocca di tutti, ed è sacrosanto! Le aziende sono sotto pressione, sia per motivi etici che economici, per mostrare al mondo quanto tengono alla diversità, all’equità e all’inclusione (DEI). E i consumatori? Beh, tre quarti di noi dicono che le iniziative DEI di un brand influenzano le nostre decisioni d’acquisto. Addirittura, una pubblicità che valorizza la diversità ci rende più disposti a pagare di più. Sembra un win-win, no?

Molti brand, quindi, si sono buttati a capofitto nelle cosiddette Customer Diversity Initiatives (CDI), cercando di riflettere e integrare le diverse identità dei consumatori nelle loro strategie. L’obiettivo è nobile: dare rappresentanza e partecipazione equa, specialmente a gruppi storicamente sottorappresentati per genere, età, tipo di corpo, classe sociale, religione e così via. Pensate a ModiBodi che mostra la paralimpica queer non-binaria Robyn Lambird, o ai brand di moda che finalmente sdoganano modelle più mature. Tutto bellissimo, in teoria.

Ma, c’è un “ma”. A volte, queste iniziative, invece di avvicinare i clienti, li fanno scappare. E non parlo solo di chi ha pregiudizi ideologici o vede del “tokenismo” (cioè, un’inclusività di facciata). Il problema può essere molto più sottile e radicato nella nostra stessa identità.

Quando il “Noi” Diventa un “Loro (che non voglio essere)”

Vi è mai capitato di amare un brand e poi, all’improvviso, vederlo associare a un gruppo di persone con cui non vi identificate per nulla? Anzi, un gruppo da cui, magari inconsciamente, volete prendere le distanze? Ecco, questo è il nocciolo della questione. Gli studiosi chiamano questo fenomeno “effetto del gruppo dissociativo”.

Io, come consumatore, uso i brand anche per esprimere chi sono, per mandare segnali sulla mia identità. Se un brand che considero “mio” inizia a strizzare l’occhio a un segmento di clientela che per me è un “gruppo dissociativo”, scatta qualcosa. Non è per cattiveria, è che temo che, continuando a usare quel brand, gli altri possano associarmi a un’identità che non mi appartiene o che addirittura rifiuto. Questa è la minaccia alla segnalazione dell’identità, un concetto nuovo che spiega perché a volte le CDI ci fanno storcere il naso, anche se magari siamo a favore dell’inclusività in generale.

Pensateci: se il vostro brand di moda super giovanile inizia a fare campagne martellanti rivolte a un pubblico molto più maturo, potreste iniziare a sentirvi “vecchi” indossando quei capi. E questo, ammettiamolo, può dare fastidio.

Questione di Tempo e di Legame: L’Importanza della Durata e del Tipo di Relazione

La ricerca ha fatto un passo avanti, cercando di capire quando e perché queste reazioni negative si scatenano. E sapete cosa hanno scoperto? Che la durata dell’iniziativa conta, eccome!

  • Un’iniziativa episodica (temporanea, magari legata a un evento specifico come il Pride Month) verso un gruppo dissociativo può creare meno problemi.
  • Ma un’iniziativa continua (ongoing), che segnala un impegno a lungo termine del brand verso quel gruppo, rischia di amplificare la minaccia alla nostra identità e farci allontanare di più dal brand. Questo perché l’associazione tra il brand e il gruppo dissociativo diventa più forte e permanente nella nostra mente.

E non è tutto. La nostra reazione cambia anche in base al tipo di relazione che abbiamo con il brand, specialmente se si tratta di un brand percepito come “sincero” (affidabile, onesto):

  • Se ho una relazione comunitaria con il brand (lo sento quasi come un amico, c’è un legame emotivo basato sulla cura reciproca), un’iniziativa continua verso un gruppo dissociativo potrebbe essere vista in modo più positivo. Potrei interpretarla come un impegno genuino del brand verso valori più ampi di inclusione, e questo potrebbe attenuare la mia “minaccia identitaria”. Al contrario, un’iniziativa episodica potrebbe sembrarmi opportunistica e farmi sentire tradito.
  • Se invece ho una relazione di scambio (più pragmatica, basata sul “do ut des”: io ti do i miei soldi, tu mi dai un buon prodotto/servizio), un’iniziativa continua verso un gruppo dissociativo potrebbe infastidirmi di più. L’associazione prolungata con quel gruppo aumenta la mia percezione di minaccia. Un’iniziativa episodica, invece, sarebbe meno problematica.

Curiosamente, se il brand ha una personalità “eccitante” (innovativa, audace, sempre in cambiamento), queste dinamiche legate alla durata e al tipo di relazione sembrano contare meno. Forse perché da un brand “eccitante” ci aspettiamo un po’ di tutto, anche cambiamenti repentini che non intaccano più di tanto la nostra percezione identitaria legata ad esso.

Fotografia di un gruppo eterogeneo di persone che interagiscono positivamente con un prodotto di un brand, mentre una persona in disparte osserva con espressione dubbiosa. Prime lens 35mm, profondità di campo, luce naturale soffusa per un effetto realistico e pensieroso.

La sensazione di non poter più usare il brand per esprimere chi siamo può portare a sentirsi traditi. E il tradimento, si sa, porta a comportamenti di distanziamento: smetto di comprare, non seguo più sui social, parlo male del brand. Un vero e proprio autogol per l’azienda!

Strategie per Non Alienarsi i Clienti (Quelli Già Acquisiti)

Ma allora, i brand devono rinunciare a essere inclusivi per paura di perdere i clienti affezionati? Assolutamente no! La ricerca suggerisce alcune strategie intelligenti per mitigare questi effetti boomerang, soprattutto per i brand “sinceri”:

1. La Strategia del Sotto-Brand

Se un brand vuole aprirsi a un gruppo che potrebbe essere “dissociativo” per la sua clientela attuale, può farlo creando un sotto-brand distinto. In questo modo, si aumenta la distanza psicologica. I clienti storici possono continuare a identificarsi con il brand principale, sentendo che il nuovo target è gestito “a parte”. Questo riduce la minaccia alla segnalazione dell’identità.

2. Il Potere della Personalizzazione

Offrire opzioni di personalizzazione del prodotto è un’altra mossa astuta. Se posso rendere un prodotto “mio”, infondendogli significati personali, magari con simboli o slogan che mi rappresentano, allora l’identità che il brand sta cercando di comunicare attraverso la sua CDI passa in secondo piano. Il prodotto diventa un’estensione di me, non del nuovo gruppo target. Questo attenua la minaccia.

3. Evidenziare gli Obiettivi Pro-Sociali (Strategia dell’Inclusività)

Comunicare chiaramente che l’iniziativa è motivata da obiettivi pro-sociali di inclusività, piuttosto che focalizzarsi solo sul nuovo gruppo target, può aiutare. Se i clienti percepiscono che il brand sta agendo per contribuire a una società migliore, potrebbero essere più indulgenti. Questo sposta l’attenzione su valori più astratti e universali, riducendo la percezione di minaccia diretta alla propria identità. Questa strategia sembra funzionare particolarmente bene per i clienti con relazione di scambio di fronte a iniziative continue, ma potrebbe essere meno efficace per i clienti comunitari con iniziative episodiche, che potrebbero comunque percepirle come poco sincere.

In definitiva, il messaggio per i brand è: l’inclusività è una maratona, non uno sprint, e va corsa con intelligenza. Non basta sventolare la bandiera della diversità; bisogna capire profondamente i propri clienti, la relazione che hanno con il brand e come le iniziative di inclusività potrebbero interferire con il loro bisogno, del tutto legittimo, di esprimere la propria identità. Un’attenta pianificazione, che consideri la durata dell’iniziativa, il tipo di clientela e la personalità del brand, insieme a strategie di mitigazione mirate, può davvero fare la differenza tra un’iniziativa di successo che allarga la base clienti e un costoso passo falso che allontana quelli più fedeli.

Dopotutto, l’obiettivo è far sentire tutti i benvenuti, senza far sentire nessuno “non più a casa propria”.

Fonte: Springer

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