Mal di Schiena e Lavoro: Riposo Totale, Parziale o Stringere i Denti? Cosa Dice la Scienza Norvegese
Ah, il mal di schiena! O magari quel fastidioso dolore al collo che non ti lascia in pace. Se come me fai un lavoro che ti impegna fisicamente o anche solo mentalmente, sai bene quanto questi disturbi muscoloscheletrici possano diventare un incubo. E la domanda sorge spontanea: quando il dolore si fa sentire, cosa è meglio fare? Mettersi in malattia totale? Provare a lavorare un po’ sì e un po’ no? O fare finta di niente e continuare come se nulla fosse?
Ecco, mi sono imbattuto in uno studio norvegese molto interessante che ha cercato di rispondere proprio a questa domanda, analizzando le conseguenze sulla salute di diverse modalità di assenza per malattia tra lavoratori con problemi cronici a collo e schiena. E i risultati, ve lo dico subito, non sono così scontati come si potrebbe pensare.
Il Contesto Norvegese: Welfare Generoso e il “Problema” del Mal di Schiena
Prima di tuffarci nei risultati, capiamo un attimo il contesto. La Norvegia, come altri paesi scandinavi, ha un sistema di welfare molto generoso. Se ti ammali, hai diritto a cure, riabilitazione e supporto economico, con una compensazione salariale completa per un anno. Bello, no? Certo, ma questo ha anche un costo economico non indifferente, soprattutto perché i disturbi muscoloscheletrici sono una delle cause principali di assenza dal lavoro lì (e non solo lì, purtroppo). Pensate che rappresentano quasi due terzi del bisogno di riabilitazione per gli adulti che lavorano a livello globale!
In Norvegia, quindi, si è cercato di capire come gestire al meglio queste situazioni, anche perché, in generale, si pensa che continuare a lavorare (magari con qualche accorgimento) possa aiutare nel recupero funzionale e prevenire malattie a lungo termine. Anzi, recenti raccomandazioni suggeriscono proprio la partecipazione lavorativa per migliorare salute e qualità della vita in chi soffre di questi disturbi. L’idea è che un po’ di attività, se ben gestita, possa fare bene.
Malattia Totale, Parziale o Nessuna: Chi Sta Meglio?
Lo studio ha preso in esame oltre 5000 pazienti (età media 44-45 anni, poco più della metà donne) che si sono rivolti a cliniche specializzate per dolore cronico a collo e schiena tra il 2016 e il 2022. Questi pazienti sono stati divisi in tre gruppi, in base alla loro situazione lavorativa nelle due settimane precedenti la prima visita:
- Chi era in malattia totale (100% di assenza).
- Chi era in malattia graduale o parziale (lavorava a orario ridotto, tra il 20% e il 95% di assenza).
- Chi lavorava senza essere in malattia (0% di assenza).
I ricercatori hanno raccolto un sacco di dati: informazioni demografiche, sulla salute fisica e mentale, sul tipo di lavoro, sulla durata del dolore, sull’uso di farmaci, ecc. E poi hanno seguito questi pazienti per sei mesi, per vedere come cambiavano i loro livelli di disabilità legata al dolore (usando questionari specifici come l’Oswestry Disability Index per la schiena e il Neck Disability Index per il collo) e la loro qualità di vita percepita (con il questionario EQ-5D-5L).
Come Stavano all’Inizio? Profili Diversi
Già all’inizio dello studio, le differenze tra i gruppi erano evidenti. Come forse ci si poteva aspettare:
- Il gruppo in malattia totale era quello che stava peggio: riportava i livelli più alti di disabilità legata al dolore (sia alla schiena che al collo), più sintomi di ansia e depressione, e la qualità di vita percepita più bassa.
- Il gruppo che lavorava senza malattia stava decisamente meglio, con i livelli più bassi di dolore, disabilità e problemi psicologici.
- Il gruppo in malattia graduale si posizionava a metà strada: stava peggio di chi lavorava normalmente, ma meglio di chi era in malattia totale. Questo sembra confermare l’idea che la malattia graduale venga prescritta a chi non riesce a lavorare a pieno ritmo, ma è ancora in grado di fare qualcosa.
Un dettaglio interessante: proprio i pazienti in malattia graduale erano quelli che più spesso credevano che il loro datore di lavoro desiderasse il loro ritorno. Forse un buon accordo di lavoro parziale può aiutare a mantenere relazioni positive sul posto di lavoro? Chissà.
E Dopo Sei Mesi? Miglioramenti per Tutti, Ma…
La parte più succosa dello studio riguarda l’evoluzione dei sintomi dopo sei mesi. Cosa è successo?
Beh, la buona notizia è che tutti e tre i gruppi hanno mostrato un miglioramento nei livelli di disabilità legata al dolore e nella qualità della vita percepita. Evviva! Questo potrebbe essere dovuto alle cure specialistiche ricevute, a una naturale tendenza alla remissione dei sintomi nel tempo, o forse anche a un effetto statistico noto come “regressione verso la media” (in pratica, chi sta molto male all’inizio ha più probabilità di migliorare un po’, indipendentemente da tutto).
Però, attenzione: questi miglioramenti, sebbene statisticamente significativi, non erano sempre clinicamente rilevanti. Cosa significa? Che magari i numeri nei questionari cambiavano un po’, ma non abbastanza da fare una differenza davvero percepibile nella vita quotidiana del paziente, specialmente per il dolore al collo.
E le differenze tra i gruppi? Qui le cose si fanno interessanti:
- Il gruppo in malattia totale, pur partendo dalla situazione peggiore, è stato quello che ha mostrato i maggiori miglioramenti (soprattutto per il mal di schiena, dove il cambiamento è stato considerato clinicamente significativo). Tuttavia, nonostante questo miglioramento più marcato, dopo sei mesi rimaneva comunque il gruppo con i livelli più alti di disabilità e la qualità di vita più bassa.
- Il gruppo in malattia graduale ha avuto miglioramenti intermedi, simili a quelli del gruppo senza malattia per quanto riguarda il mal di schiena, ma comunque non clinicamente significativi.
- Il gruppo senza malattia ha mostrato i miglioramenti minori (partiva già da una situazione migliore), ma ha mantenuto i livelli più bassi di disabilità e la qualità di vita più alta per tutto il periodo.
Cosa Ci Portiamo a Casa da Questo Studio?
Allora, qual è il succo della questione? Lo studio sembra dirci alcune cose importanti:
1. Il tipo di assenza per malattia riflette la gravità dei sintomi: Chi sta peggio, più probabilmente riceve una malattia totale. Chi ha problemi moderati, magari opta per quella graduale. Chi ha sintomi più lievi, riesce a continuare a lavorare. Sembra logico, no?
2. La malattia graduale non ha mostrato benefici superiori per la salute: Nonostante sia spesso promossa per favorire il rientro al lavoro, questo studio non ha trovato prove che la malattia graduale porti a un miglioramento della salute (dolore, qualità vita) superiore rispetto alla malattia totale o al continuare a lavorare.
3. Lavorare (anche parzialmente) non sembra peggiorare le cose: Questa forse è la notizia più rassicurante. Lo studio suggerisce che continuare a lavorare, anche se con dolore (il cosiddetto “presenteismo”), non sembra avere effetti dannosi sulla progressione della disabilità o sulla qualità della vita a 6 mesi, almeno in questo gruppo di pazienti. Non ha prolungato lo stato di malessere.
4. Chi è in malattia totale ha problemi più persistenti: Anche se migliorano di più in termini relativi, questi pazienti continuano a stare peggio degli altri dopo sei mesi. Questo suggerisce che si tratti di casi più complessi, forse con una prognosi meno favorevole.
Certo, lo studio ha i suoi limiti. È osservazionale (non si possono trarre conclusioni definitive di causa-effetto), si basa su dati raccolti in modo naturalistico (con possibili dati mancanti), è specifico per il sistema norvegese e per pazienti che arrivano a cliniche specialistiche. Inoltre, non ha considerato come la situazione lavorativa potesse cambiare *durante* i sei mesi di follow-up, né ha analizzato fattori importanti come l’ambiente di lavoro o le condizioni psicosociali.
In Conclusione: Un Equilibrio Delicato
Insomma, la gestione del dolore muscoloscheletrico e del lavoro è complessa. Questo studio norvegese ci dà qualche spunto di riflessione: la scelta del tipo di assenza per malattia sembra legata a quanto stiamo male, ma non c’è una formula magica che garantisca un recupero migliore per tutti solo scegliendo un tipo di assenza piuttosto che un altro. La cosa positiva è che, almeno in questo contesto, continuare a partecipare al mondo del lavoro, anche se in modo ridotto, non sembra ostacolare il recupero a medio termine.
Resta fondamentale, secondo me, un approccio personalizzato, che tenga conto della gravità dei sintomi, del tipo di lavoro, delle condizioni individuali e del supporto disponibile. E forse, come suggeriscono i dati sui pazienti in malattia totale, intervenire precocemente e in modo mirato sui casi più gravi potrebbe fare la differenza. Ma questa è materia per future ricerche!
Fonte: Springer