Un gruppo eterogeneo di operatori sanitari e sociali (infermiere, assistente sociale, medico) in una riunione informale ma intensa, discutono attorno a un tavolo con documenti sparsi, espressioni concentrate ma collaborative, luce naturale da una finestra laterale, stile fotorealistico, obiettivo 35mm, profondità di campo per mettere a fuoco il gruppo.

Missione (Im)possibile? Le Sfide Quotidiane di Chi Lavora con Adulti dai Bisogni Complessi

Avete mai pensato a cosa significhi davvero stare in prima linea, ogni giorno, accanto a persone che affrontano un groviglio di problemi? Parliamo di adulti con bisogni complessi: un mix spesso esplosivo di disturbi fisici, mentali, cognitivi, magari condito da dipendenze, problemi economici o l’ombra del senza fissa dimora. La loro vita è una corsa a ostacoli e chi li aiuta, il personale sanitario e sociale, si trova a navigare in acque a dir poco agitate.

Recentemente mi sono imbattuto in uno studio affascinante, basato su interviste a chi questo lavoro lo fa davvero, in Svezia per la precisione. Volevano capire le loro esperienze, cosa funziona e cosa invece inceppa il meccanismo quando si cerca di aiutare queste persone, mettendo a fuoco la collaborazione tra i vari enti e la partecipazione dell’individuo stesso. E credetemi, ne è uscito un quadro ricco di spunti, a tratti frustrante, ma anche pieno di umanità.

Un Labirinto Chiamato Collaborazione

Immaginatevi la scena: da una parte c’è il sistema sanitario regionale, dall’altra i servizi sociali del comune. Entrambi devono prendersi cura della stessa persona, ma spesso parlano lingue diverse, seguono regole differenti, hanno budget separati e priorità non sempre allineate. Un bel pasticcio, no? Lo studio lo conferma: la collaborazione tra queste autorità è descritta come complessa.

Le difficoltà nascono da leggi diverse che regolano i vari interventi, da sistemi finanziari che non comunicano e da strutture organizzative rigide. Pensate a quanto possa essere frustrante per un operatore vedere una persona pronta a iniziare un percorso di disintossicazione, ma dover aspettare i tempi biblici della burocrazia o scontrarsi con procedure di invio complicate tra specialisti e servizi territoriali. Spesso, ci raccontano, le persone “cadono tra le crepe” del sistema: la psichiatria non interviene perché c’è un problema di dipendenza, i servizi per le dipendenze non possono iniziare perché la persona sta male mentalmente. E così, si resta fermi.

Un altro punto dolente sono i passaggi di consegne, ad esempio quando una persona viene dimessa da una struttura specialistica. La responsabilità passa al comune, ma magari mancano le risorse, il personale o le competenze specifiche (come quelle psichiatriche) per garantire una vera continuità. Il rischio? Che tutto il lavoro fatto vada perso e la persona si ritrovi di nuovo al punto di partenza.

Ma Qualcosa Funziona: Ponti tra Professionisti

Non è tutto nero, per fortuna. Gli operatori raccontano che quando si conoscono tra loro, quando capiscono meglio i compiti e i limiti di ciascuna organizzazione, le cose migliorano. Il rispetto reciproco e la conoscenza delle competenze altrui sono fondamentali. Forum interprofessionali, riunioni di coordinamento (come il Piano Individuale Coordinato – CIP, uno strumento pensato proprio per questo), ma anche incontri informali (con il consenso della persona assistita) diventano spazi preziosi per confrontarsi, pianificare insieme e sentirsi meno soli.

Il CIP, in particolare, viene visto come uno strumento utile per mettere nero su bianco i bisogni della persona, definire gli interventi e chiarire chi fa cosa. Certo, a volte può essere rigido o percepito come un’arena dove difendere il proprio ruolo, ma quando funziona, quando c’è fiducia e tempo per riflettere, può fare la differenza. Anche gli incontri informali, senza la presenza diretta dell’assistito, sono ritenuti importanti per preparare il terreno, allinearsi e evitare che le riunioni ufficiali diventino un “rimpallo di responsabilità”.

Fotografia realistica di un gruppo eterogeneo di 4-5 professionisti sanitari e sociali (infermiere, assistente sociale, medico, educatore) seduti attorno a un tavolo rotondo in una sala riunioni luminosa. Stanno discutendo animatamente ma in modo collaborativo, con documenti e tablet sparsi sul tavolo. L'atmosfera è seria ma costruttiva. Obiettivo prime 35mm, luce naturale laterale, profondità di campo che mette a fuoco il gruppo lasciando lo sfondo leggermente sfocato.

Lavorare sui Bisogni Reali: Una Sfida Continua

Al centro di tutto, ovviamente, c’è la persona. E lavorare davvero secondo i suoi bisogni è un’altra grande sfida. Prima di tutto, bisogna costruire un rapporto di fiducia. Queste persone spesso hanno alle spalle storie di fallimenti e diffidenza verso le istituzioni. Sentirsi al sicuro, poter esprimere desideri e paure, è il primo passo.

Questo significa anche essere flessibili nella comunicazione: adattare orari, luoghi (magari incontrarsi a casa della persona o in un luogo neutro, non per forza in un ufficio), e metodi (SMS, email, visite a domicilio, soprattutto se la persona non ha telefono o casa). Bisogna calibrare le informazioni, assicurarsi che siano comprensibili e pertinenti.

Poi c’è il lavoro sulla motivazione. È un processo lungo, fatto di piccoli passi, di perseveranza. Gli operatori parlano di “finestre di opportunità”: momenti brevi e preziosi in cui la persona mostra una spinta al cambiamento. Bisogna essere pronti a coglierle al volo, perché possono richiudersi in fretta. Ma qui torna il problema del sistema: anche se l’operatore è pronto, magari l’intervento necessario richiede tempi lunghi o il coinvolgimento di altri attori che non sono altrettanto rapidi. È fondamentale riconoscere e valorizzare anche i più piccoli progressi per non perdere la speranza, sia da parte dell’operatore che della persona.

Emerge forte il bisogno di una figura di coordinamento, un case manager, qualcuno che abbia una visione d’insieme, che conosca le leggi e le risorse disponibili sia a livello regionale che comunale, e che possa davvero “guidare” la persona attraverso il labirinto dei servizi. Attualmente, figure simili esistono (come i referenti per la cura o gli amministratori di sostegno), ma spesso i loro compiti non sono chiari o sufficientemente ampi.

Partecipazione: Quando la Strada è in Salita

Il diritto alla partecipazione è sacrosanto: ogni persona dovrebbe poter decidere sulla propria cura. Ma cosa succede quando questa capacità è limitata? Molti adulti con bisogni complessi faticano a gestire la vita quotidiana, a comunicare, a comprendere appieno i propri problemi (quella che gli addetti ai lavori chiamano insight o consapevolezza). Rifiutano gli aiuti proposti, non si presentano agli appuntamenti. Questo genera frustrazione negli operatori, che si chiedono se i loro sforzi siano utili.

Si cammina costantemente su un filo sottile: da un lato rispettare l’autonomia della persona, non forzarla, dall’altro agire nel suo “miglior interesse”, magari andando contro la sua volontà espressa in quel momento, per sbloccare una situazione di stallo o prevenire danni maggiori. È un dilemma etico e pratico enorme. A volte sono i familiari a farsi portavoce, ma anche qui la situazione è delicata.

Primo piano macro di due mani: una mano, curata e rassicurante (simbolo dell'operatore), si avvicina con delicatezza a un'altra mano, leggermente chiusa e tesa (simbolo della persona con bisogni complessi), senza toccarla ma offrendo supporto. L'illuminazione è morbida e calda, focalizzata sulle mani. Obiettivo macro 90mm, alta definizione dei dettagli della pelle, sfondo molto sfocato.

La mancanza di fiducia nelle autorità, le esperienze negative passate, rendono la speranza di un cambiamento molto fragile. È fondamentale, dicono gli operatori, mantenere il contatto anche quando la persona rifiuta l’aiuto, continuare a offrire supporto, essere onesti su cosa ci si aspetta da lei ma anche consapevoli dei suoi limiti reali.

Ostacoli nel Sistema: Burocrazia e Instabilità

Infine, lo studio evidenzia problemi più strutturali. Percorsi decisionali lunghissimi, mandati poco chiari (chi decide cosa?), processi complicati. Spesso le decisioni devono passare per troppi livelli gerarchici, rallentando interventi che sarebbero urgenti. Negli anni, raccontano, i poteri decisionali si sono spostati sempre più in alto, lontano da chi lavora sul campo.

A questo si aggiunge l’alto turnover del personale: si perde continuità, si ricomincia sempre da capo, le relazioni faticosamente costruite si interrompono. C’è chi auspica una riorganizzazione che metta la responsabilità principale su un’unica autorità, per evitare questo continuo “ping pong” tra regione e comune.

Cosa Portiamo a Casa?

Questo spaccato del lavoro quotidiano del personale socio-sanitario ci dice molto. Ci mostra le enormi difficoltà legate a un sistema frammentato e complesso, ma anche l’importanza cruciale delle relazioni umane: tra colleghi, per fare rete e supportarsi, e con le persone assistite, per costruire quella fiducia senza la quale nessun intervento può davvero funzionare. La flessibilità, la pazienza, la capacità di cogliere i segnali deboli sono qualità indispensabili.

Emerge chiaramente la necessità di strutture di collaborazione più solide e sostenibili, di percorsi più fluidi, di un maggiore coordinamento (magari con figure dedicate come i case manager) e di un sistema che metta davvero al centro la persona, pur con tutte le difficoltà che la sua partecipazione comporta. Servirebbe anche ascoltare di più la voce degli stessi adulti con bisogni complessi, dei loro familiari e dei dirigenti, per avere un quadro ancora più completo e capire come migliorare davvero l’integrazione tra servizi sanitari e sociali.

Un lavoro difficile, a tratti quasi impossibile, ma fondamentale. Un lavoro che merita più supporto, più risorse e, soprattutto, più riconoscimento.

Fonte: Springer

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