Klebsiella negli Allevamenti di Suini: Un Superbatterio Nascosto Minaccia la Nostra Salute?
Amici appassionati di scienza e curiosi del mondo microscopico, oggi voglio parlarvi di una questione che mi ha fatto riflettere parecchio, e che tocca da vicino sia la salute animale che, potenzialmente, la nostra. Immaginate un nemico invisibile, un batterio che, zitto zitto, sta diventando sempre più forte e resistente, nascondendosi in luoghi che non sospetteremmo mai, come gli allevamenti di suini. Sto parlando di Klebsiella pneumoniae, un nome che forse non dice molto ai più, ma che nel mondo della microbiologia è sinonimo di allerta crescente.
Recentemente, mi sono imbattuto in uno studio affascinante condotto in Cina, precisamente nella regione dello Xinjiang, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento proprio questo batterio, isolato da allevamenti di maiali. E i risultati, ve lo dico subito, sono di quelli che fanno drizzare le antenne.
Ma cos’è esattamente questa Klebsiella pneumoniae?
Prima di addentrarci nello studio, facciamo un piccolo identikit del nostro “protagonista”. La Klebsiella pneumoniae è un batterio che fa parte della normale flora intestinale di uomini e animali, ma non fatevi ingannare dalla sua apparente innocuità. È un cosiddetto patogeno opportunista. Questo significa che, se trova le condizioni giuste – come un sistema immunitario indebolito o l’uso prolungato di antibiotici – può scatenare infezioni anche gravi: polmoniti, meningiti, setticemie, bronchiti. Negli allevamenti suini, può causare polmoniti fibrino-suppurative, mastiti e setticemie, con perdite economiche non da poco. Pensate che tra il 2011 e il 2014, focolai in 13 allevamenti britannici hanno portato a setticemia e mortalità rapida nei suinetti. Un disastro!
Il problema, come spesso accade con i batteri, è che la Klebsiella pneumoniae sta diventando sempre più resistente agli antibiotici. L’uso massiccio di questi farmaci negli allevamenti, pratiche di gestione non sempre ottimali e la diffusione di malattie immunosoppressive hanno contribuito all’emergere di ceppi multi-resistenti (MDR), rendendo le cure sempre più difficili.
La sua “cattiveria”, o meglio, la sua patogenicità, è dovuta a diversi fattori di virulenza:
- Capsula polisaccaridica: una sorta di scudo che la protegge dalle difese dell’ospite. Esistono ben 78 sierotipi capsulari, e i K1 e K2 sono considerati i più virulenti.
- Pili e adesine: delle “braccia” che le permettono di attaccarsi alle cellule e formare biofilm, comunità batteriche super resistenti.
- Lipopolisaccaridi (LPS): componenti della sua parete cellulare che attivano la risposta immunitaria e la aiutano a evadere le difese.
- Siderofori: molecole che le consentono di “rubare” il ferro all’ospite, essenziale per la sua sopravvivenza.
A questi si aggiungono emolisine ed enterotossine, che ne aumentano ulteriormente il potenziale dannoso.
L’indagine nello Xinjiang: cosa abbiamo scoperto?
Torniamo allo studio cinese. I ricercatori hanno raccolto tamponi nasali da suinetti in un grande allevamento dello Xinjiang. Da 50 campioni, sono riusciti a isolare ben 21 ceppi di Klebsiella pneumoniae. Un tasso di isolamento del 42%, mica poco! Questi ceppi sono stati poi analizzati da cima a fondo.
Dal punto di vista della “carta d’identità” batterica, sono stati identificati due sierotipi principali basati sul gene wzi: wzi 19 (il più rappresentato, 57.14%) e wzi 81 (42.86%). Attraverso la tecnica del Multilocus Sequence Typing (MLST), che è un po’ come fare il test del DNA ai batteri, sono emersi due tipi di sequenza (ST): ST37 e ST967. Curiosamente, i ceppi wzi81 appartenevano a ST37 e quelli wzi19 a ST967, mostrando una bella coerenza tra i metodi di tipizzazione.
Un dato interessante è che ST37 è diffuso principalmente in Europa, Asia e Nord America, spesso di origine umana. ST967, invece, si trova in Asia ed Europa, con ceppi sia umani che suini. Questo ci dice che c’è un potenziale viavai di questi batteri tra specie diverse, un aspetto cruciale per la salute pubblica.
Lo studio ha anche valutato la capacità di questi batteri di formare biofilm. Immaginate il biofilm come una sorta di fortezza in cui i batteri si rintanano, diventando più resistenti agli antibiotici e alle difese dell’ospite. Ebbene, 10 dei ceppi isolati hanno mostrato una forte capacità di formare biofilm, mentre gli altri 11 una capacità moderata. Nessuno era “scarso” in questo, il che è preoccupante perché il biofilm è un meccanismo chiave di resistenza.
La corazza di Klebsiella: l’antibiotico-resistenza
E qui, amici, la faccenda si fa seria. I test di sensibilità agli antibiotici hanno dipinto un quadro allarmante. I 21 ceppi isolati hanno mostrato una resistenza spaventosa a un’ampia gamma di antibiotici comunemente usati:
- Beta-lattamici (penicillina, amoxicillina, cefazolina, ampicillina, cefotaxime, ceftriaxone): resistenza al 100% per molti di questi!
- Aminoglicosidi (gentamicina): resistenza al 100%. Kanamicina: 71.43%.
- Chinoloni (enrofloxacina, ciprofloxacina): resistenza rispettivamente del 57.14% e 95.24%.
- Tetracicline (doxiciclina, tetraciclina): resistenza al 100%.
- Sulfonamidi (cotrimoxazolo): resistenza al 100%.
- Aminoalcoli (florfenicolo): resistenza al 100%.
- Glicopeptidi (vancomicina): resistenza al 100%.
In pratica, ogni ceppo di Klebsiella pneumoniae isolato era resistente ad almeno 12 antibiotici! Questo significa che tutti i ceppi erano MDR (Multi-Drug Resistant). Gli unici antibiotici a cui questi batteri si sono dimostrati ancora sensibili (con tassi di resistenza bassi) sono stati l’imipenem (un carbapenemico) e le polimixine (come la polimixina B). Questi sono spesso considerati antibiotici “di ultima spiaggia”. Vedere che anche verso l’imipenem c’era un 19.05% di resistenza fa venire i brividi.
L’analisi genetica ha confermato questi dati, rilevando la presenza di ben 10 geni di resistenza diversi, tra cui blaTEM e blaDHA (per i beta-lattamici), aadA (aminoglicosidi), cmlA e floR (cloramfenicolo/florfenicolo), sul2 (sulfonamidi), tet(B) (tetracicline), e parC, gyrA, gyrB (chinoloni). La cosa impressionante è che alcuni geni come aadA, cmlA, floR, sul2 e gyrA erano presenti nel 100% dei ceppi! Questo indica una diffusione massiccia di questi meccanismi di difesa nel “corredo genetico” di queste Klebsielle suine.
I superpoteri di Klebsiella: i geni di virulenza
Oltre alla resistenza, i ricercatori hanno cercato i “superpoteri” di questi batteri, ovvero i geni di virulenza. Ne sono stati trovati otto diversi:
- Geni legati al lipopolisaccaride (LPS): uge, wabG (presenti nel 100% dei ceppi).
- Geni legati alle fimbrie (per l’adesione): fimH, mrkD (presenti nel 100% dei ceppi).
- Geni legati al trasporto del ferro: entB (100%), iroN (42.86%), icuA (57.14%).
- Gene legato all’ureasi: ureA (100%).
È interessante notare che i ceppi ST967 portavano specificamente il gene icuA, mentre la maggior parte dei ceppi ST37 portava iroN. Entrambi sono legati all’acquisizione del ferro, ma potrebbero conferire sfumature diverse alla virulenza. Non sono stati trovati, invece, geni associati alla capsula ipermucoide (rmpA, magA), che sono tipici di ceppi di Klebsiella particolarmente invasivi nell’uomo (hvKP). Infatti, il “test del filamento”, che verifica la produzione di muco abbondante, è risultato negativo per tutti i ceppi.
Ogni ceppo isolato portava almeno 6 geni di virulenza, e la combinazione più comune (52.38% dei ceppi) ne includeva sette: fimH + mrkD + uge + wabG + entB + iucA + ureA. Questo dimostra che queste Klebsielle suine sono ben equipaggiate per causare problemi.
La prova del nove: i test di patogenicità sui topi
Per capire quanto fossero realmente “cattivi” questi batteri, i ricercatori hanno selezionato un ceppo particolarmente “dotato”, il KP-20 (un ST967 con 8 geni di virulenza e 7 di resistenza), e lo hanno usato per infettare dei topi da laboratorio. I risultati sono stati chiari: i topi infettati hanno mostrato sintomi come letargia, respiro affannoso, pelo arruffato. Con dosi elevate di batteri, i topi hanno iniziato a morire dopo sole 6 ore, mostrando convulsioni e difficoltà respiratorie prima del decesso.
La dose letale mediana (LD50), cioè la quantità di batteri necessaria per uccidere il 50% dei topi, è stata calcolata in 4.0 × 10⁶ CFU/mL. Questo indica una virulenza moderata. Non estremamente alta, ma nemmeno trascurabile. L’esame post-mortem dei topi deceduti ha rivelato emorragie polmonari diffuse, ingrossamento e congestione di fegato e milza, e lesioni all’intestino tenue. L’esame istopatologico ha confermato danni significativi a questi organi, con infiltrazione di globuli rossi, perdita di linfociti e distruzione dei villi intestinali.
Un nemico invisibile con un potenziale zoonotico
Cosa ci dice tutto questo? Che negli allevamenti di suini dello Xinjiang circola Klebsiella pneumoniae con caratteristiche preoccupanti:
- Elevata capacità di formare biofilm, che la rende più difficile da eradicare.
- Fenomeno di multi-resistenza agli antibiotici estremamente diffuso, limitando drasticamente le opzioni terapeutiche.
- Presenza di numerosi geni di resistenza e di virulenza, che le conferiscono un arsenale formidabile.
- Patogenicità moderata ma significativa, come dimostrato nei topi.
La cosa che più mi preoccupa è il potenziale rischio zoonotico. I ceppi ST37 e ST967, come abbiamo visto, sono stati trovati sia negli animali che nell’uomo. Questo significa che c’è la possibilità concreta che questi superbatteri possano passare dagli animali all’uomo, magari attraverso la catena alimentare o il contatto diretto con animali infetti o ambienti contaminati. E se un batterio così resistente e mediamente virulento dovesse infettare una persona, soprattutto se immunodepressa, le conseguenze potrebbero essere serie.
Lo studio sottolinea che, sebbene questi ceppi siano stati isolati da suinetti sani (probabilmente grazie a rigorose misure di biosicurezza nell’allevamento), rappresentano una minaccia potenziale per i suinetti più giovani, per quelli con basse difese immunitarie e per i riproduttori. E, per estensione, per la salute pubblica.
Cosa ci insegna tutto questo?
Questo studio è un campanello d’allarme. Ci ricorda che l’uso eccessivo e non controllato di antibiotici negli allevamenti è una pratica pericolosa che alimenta il mostro dell’antibiotico-resistenza. È fondamentale implementare strategie di controllo più efficaci contro le infezioni da Klebsiella pneumoniae negli allevamenti suini, non solo per proteggere la salute degli animali e l’economia del settore, ma anche per salvaguardare la salute pubblica.
La ricerca suggerisce che antibiotici come le polimixine e l’imipenem potrebbero ancora avere un certo effetto, ma è cruciale limitare drasticamente l’uso dei beta-lattamici e di altri antibiotici a cui si è già sviluppata ampia resistenza, per evitare di peggiorare ulteriormente la situazione. Forse è il momento di guardare anche a nuove strategie, come i biologici antibatterici, per una prevenzione e un controllo più mirati.
Insomma, la Klebsiella pneumoniae suina è un avversario da non sottovalutare. Conoscerla meglio, come hanno fatto i ricercatori di questo studio, è il primo passo per combatterla efficacemente e proteggere il delicato equilibrio tra salute animale, umana e ambientale, secondo l’approccio “One Health” che tanto mi sta a cuore.
Fonte: Springer