Isotopi Stabili: La Mia Rivoluzione per Capire e Curare i Disordini del Ciclo dell’Urea!
Amici scienziati e curiosi di scoperte mediche, oggi voglio portarvi con me in un viaggio affascinante nel mondo della biochimica e delle malattie rare. Parleremo di come un’intuizione, basata sull’uso degli isotopi stabili, stia aprendo nuove frontiere nella caratterizzazione e nel monitoraggio dei trattamenti per i disordini del ciclo dell’urea (DCU). Preparatevi, perché quello che sto per raccontarvi potrebbe davvero cambiare le carte in tavola per molti pazienti!
Ma cosa sono esattamente i Disordini del Ciclo dell’Urea?
Immaginate il nostro corpo come una macchina incredibilmente complessa. L’ureagenesi, ovvero il processo di produzione dell’urea attraverso il ciclo dell’urea (CU), è uno dei meccanismi fondamentali per disintossicarci dall’ammoniaca, una sostanza che, se accumulata, può diventare molto pericolosa. Quando questo ciclo si inceppa, l’ammoniaca sale a livelli tossici, portando a una condizione chiamata iperammoniemia. Questa può colpire a qualsiasi età e, nei casi più gravi, causare encefalopatia e danni cerebrali irreversibili.
Le cause possono essere “primarie”, dovute cioè a difetti genetici ereditari in uno dei sei enzimi o due trasportatori del ciclo dell’urea (i famosi DCU, malattie rare che colpiscono circa 1 persona su 35.000), oppure “secondarie”, legate ad altre condizioni metaboliche ereditarie o acquisite, come le acidemie organiche o, più comunemente, l’insufficienza epatica.
I DCU sono un vero rompicapo: si presentano con quadri clinici e biochimici estremamente variabili. E qui sorge il primo grande problema che abbiamo dovuto affrontare: i metodi tradizionali per diagnosticarli e monitorarli, come la misurazione dell’ammoniaca plasmatica, degli aminoacidi o dell’acido orotico urinario, pur essendo utili per la diagnosi, non sono abbastanza affidabili per seguire l’efficacia delle terapie nel tempo. L’ammoniaca, ad esempio, fluttua tantissimo a seconda di mille fattori, incluso cosa e quando si è mangiato. Capite bene che, con nuove terapie all’orizzonte, avevamo un bisogno disperato di un metodo preciso, poco invasivo e affidabile per misurare la reale funzionalità del ciclo dell’urea.
La sfida: trovare un “termometro” affidabile per il Ciclo dell’Urea
Per anni, la comunità scientifica ha cercato questo “Sacro Graal”. Le terapie innovative, come quelle geniche o cellulari, sono in fase di sviluppo preclinico e promettono grandi cose. Ma come testarne l’efficacia reale? Le singole misurazioni dell’ammoniaca non bastano. Ed è qui che entrano in gioco gli isotopi stabili.
Gli isotopi stabili sono come dei “gemelli” delle molecole endogene, ma con una piccola differenza di massa che ci permette di tracciarli. Non emettono radiazioni, sono sicuri e rilevabili anche a concentrazioni bassissime con la spettrometria di massa. Per studiare l’ureagenesi in vivo, si sono usati principalmente due tipi di traccianti: quelli basati sul 13C (come l'[1-13C]-acetato) e quelli basati sul 15N (come il cloruro di ammonio [15N]H4Cl).
Il metodo con 13C, misurato tramite spettrometria di massa isotopica (IRMS), ha il vantaggio di non aggiungere azoto extra ai pazienti, cosa importante per chi è a rischio iperammoniemia. Però, ha degli svantaggi non da poco: l’acetato marcato entra nel ciclo dell’urea solo indirettamente, dopo essere stato metabolizzato ad anidride carbonica marcata. Pensate che oltre il 99% del tracciante viene espirato come 13CO2 e meno dell’1% finisce nell’urea! Inoltre, la preparazione del campione è laboriosa (circa 4 ore!), richiede grandi quantità di plasma (limitante per i neonati) e, per un’interpretazione accurata, bisogna misurare anche la 13CO2 nel respiro.
Il [15N]H4Cl, invece, è stato il primo tracciante usato per i DCU già nel 1996. L’urea marcata veniva analizzata con gascromatografia-spettrometria di massa (GC-MS). Questo metodo richiede meno campione, ma la GC-MS è molto meno sensibile dell’IRMS e l’urea deve essere trasformata in un prodotto volatile prima dell’analisi. Tuttavia, il grande vantaggio è che oltre il 46% degli ioni ammonio [15N] viene incorporato direttamente nel ciclo dell’urea, producendo urea [15N].
La nostra soluzione: un metodo innovativo con UHPLC-HRMS
Considerando i pro e i contro, e con l’avvento di spettrometri di massa ad alta risoluzione accoppiati a cromatografia liquida (LC-HRMS), molto più sensibili, abbiamo deciso di puntare sul [15N]H4Cl, ma con una marcia in più: utilizzare una dose bassissima, assolutamente sicura per i pazienti. Parliamo di una dose 10 volte inferiore a quella usata nel ’96, che rappresenta solo lo 0,55% dell’apporto giornaliero di azoto consentito a un paziente con DCU grave! E non solo: ci siamo concentrati su una preparazione del campione semplice e veloce, usando un volume minimo di campione (appena 20 µL per punto temporale), ideale anche per i neonati. Abbiamo anche incluso l’analisi degli aminoacidi [15N] per avere una visione più ampia delle vie metaboliche adiacenti e testato la fattibilità dell’uso delle gocce di sangue essiccato (DBS), comodissime per studi multicentrici.
Il nostro metodo UHPLC-HRMS si è dimostrato un successo! Abbiamo studiato l’arricchimento di [15N]urea e aminoacidi [15N] in 22 controlli sani e 59 pazienti. Questi ultimi hanno mostrato variazioni caratteristiche dell’ureagenesi a seconda del loro specifico difetto metabolico. E la cosa più entusiasmante è che il monitoraggio delle terapie è stato un trionfo: abbiamo osservato il ripristino della produzione di [15N]urea e la riduzione della [15N]glutammina nei pazienti trattati. Fondamentale: nessun evento avverso e, come detto, quantità minime di tracciante e campioni, con tempi di preparazione e analisi ridotti.
Cosa abbiamo scoperto: risultati che parlano chiaro
Nei soggetti sani, il recupero del tracciante è stato del 51 ± 10.7%, in linea con studi precedenti. Nei pazienti, variava a seconda della gravità della malattia. Abbiamo introdotto un parametro, la Funzione Relativa di Ureagenesi (RUF), che quantifica la proporzione del tracciante metabolizzato attraverso il ciclo dell’urea. I pazienti con iperammoniemia elevata alla diagnosi (oltre 500 µmol/L) tendevano ad avere una RUF più bassa. Quelli con esordio neonatale grave avevano RUF inferiori rispetto ai pazienti sintomatici e asintomatici.
Un dato interessante è emerso analizzando le femmine con deficit di ornitina transcarbamilasi (OTCD), una condizione notoriamente difficile da diagnosticare e gestire a causa dell’inattivazione casuale del cromosoma X. Il nostro test è riuscito a distinguere le femmine sintomatiche da quelle asintomatiche e dai controlli, basandosi sulle curve di arricchimento di [15N]urea e aminoacidi. Questo è un vantaggio enorme rispetto all’analisi enzimatica su biopsia epatica (invasiva e variabile) o su plasma (che non distingue tra sintomatiche e asintomatiche).
Abbiamo anche notato un arricchimento di [15N]glicina molto basso in tutti i pazienti con deficit di citrina, un’osservazione che merita ulteriori indagini e potrebbe essere legata alla nota riduzione di NADH mitocondriale in questa patologia.
In sei pazienti che hanno subito un trapianto di fegato, abbiamo potuto confermare il ripristino della funzione del ciclo dell’urea analizzando campioni pre e post-intervento. Addirittura, un paziente con deficit di arginasi sottoposto a terapia enzimatica sostitutiva (ERT) ha mostrato un miglioramento della RUF, suggerendo che l’ornitina liberata dall’azione dell’arginasi plasmatica possa fornire substrato per la reazione epatica dell’OTC, ampliando la nostra comprensione del metabolismo dell’azoto.
Un futuro più chiaro per diagnosi e terapie
Questo metodo si presenta come uno strumento potente per diversi motivi:
- Bassa invasività e sicurezza: dose minima di tracciante, piccoli volumi di sangue, nessun effetto collaterale.
- Velocità ed efficienza: preparazione del campione in meno di 30 minuti, analisi rapida.
- Sensibilità e precisione: grazie alla LC-HRMS.
- Versatilità: utilizzabile su plasma e DBS, facilitando collaborazioni internazionali.
- Monitoraggio terapeutico: capacità di vedere l’aumento della produzione di urea e il cambiamento nell’arricchimento di altri aminoacidi post-terapia, come la diminuzione della [15N]glutammina o della [15N]citrullina a seconda del difetto.
Pensate all’impatto sulle nuove terapie in arrivo, come quelle basate su mRNA, vettori virali adeno-associati (AAV) o l’editing genetico con CRISPR-Cas9. Il nostro test può fornire un endpoint fisiologico robusto, più significativo dei classici biomarcatori fluttuanti come ammoniaca e aminoacidi, o di endpoint clinici difficili da validare come il “numero di crisi metaboliche”. Potrebbe diventare il “gold standard” per valutare l’efficacia di questi trattamenti innovativi, permettendo anche di monitorare un eventuale calo di efficacia nel tempo, ad esempio per la diluizione dell’effetto di una terapia genica dovuta alla crescita del fegato.
Certo, ci sono ancora aspetti da approfondire, come l’interpretazione dei risultati nei neonati (dove il ciclo dell’urea potrebbe essere ancora immaturo) e l’impatto del tempo di digiuno sulla funzione di ureagenesi. Ma i dati finora sono incredibilmente promettenti.
In sintesi, credo fermamente che questa quantificazione della funzione del ciclo dell’urea basata su isotopi stabili sia un passo avanti enorme. Non è solo un test, ma una finestra più chiara sul metabolismo dei pazienti, che ci permetterà di diagnosticare meglio, monitorare con più precisione e, soprattutto, accelerare lo sviluppo di terapie efficaci per chi soffre di questi disordini rari ma devastanti. È una di quelle scoperte che ti fa sentire di aver contribuito davvero a fare la differenza, e non vedo l’ora di vedere come evolverà il suo impiego clinico!
Fonte: Springer Nature