Intrappolati nel Loop della Disoccupazione: Il Lavoro Invisibile dei Giovani
Ciao a tutti. Oggi voglio parlarvi di una sensazione che forse alcuni di voi conoscono fin troppo bene: quella di sentirsi bloccati, come in un loop infinito, quando si cerca lavoro da giovani. Non è solo una questione di mandare curriculum e aspettare risposte che non arrivano. C’è un intero “lavoro” dietro, spesso invisibile e frustrante, che siamo costretti a fare quando ci rivolgiamo ai servizi per l’impiego, come l’Amministrazione Norvegese del Lavoro e del Welfare (la chiamo WA, come nello studio originale).
Parliamoci chiaro: essere giovani e senza lavoro è già abbastanza pesante. Si aggiunge la preoccupazione per il futuro, la sensazione di non contribuire, a volte anche problemi di salute fisica o mentale che rendono tutto più difficile. E poi c’è la burocrazia.
Il Lavoro Digitale: Efficienza o Controllo?
La WA, come molte altre amministrazioni pubbliche, si è buttata sulla digitalizzazione. Ci offrono un sacco di servizi online: l’Activity Planner (una specie di agenda digitale per le attività di ricerca lavoro), il Digital Dialogue (una chat sicura con il consulente), la Report Card (un resoconto bisettimanale delle nostre attività) e la pagina per aggiornare il CV online.
Sulla carta, sembra tutto molto moderno ed efficiente. E in parte lo è. Posso compilare la Report Card dal telefono mentre sono, ehm, impegnato altrove. Posso mandare un messaggio al consulente senza dover fare code o telefonate imbarazzanti, soprattutto se, come me a volte, mi sento più a mio agio a scrivere che a parlare (“Mi sento più coraggioso a scrivere”, come ha detto un ragazzo intervistato). Caricare documenti è più semplice, e avere tutto il “caso” online dà un senso di controllo… apparente.
Ma qual è il rovescio della medaglia? Spesso, questo “lavoro digitale” sembra più un obbligo che un aiuto reale. Compilare la Report Card ogni due settimane diventa un esercizio mnemonico (“Cosa ho fatto esattamente 10 giorni fa?”), più che un’attività significativa. Aggiornare il CV online della WA? Ma se ne ho già uno mio, pronto da inviare! Sembra un lavoro doppio, fatto più per far contenta l’amministrazione che per me.
E l’Activity Planner? Dovrebbe aiutarci a pianificare il percorso verso il lavoro, ma finisce per essere uno strumento che usiamo principalmente perché *dobbiamo*, per paura di perdere i sussidi, o perché ce lo dice il consulente. Molti di noi smettono di usarlo attivamente dopo un po’, senza che succeda nulla. Ci sentiamo più controllati che supportati. Questi compiti digitali sono piccoli, frammentati, e spesso non capiamo come si inseriscano in un quadro più ampio. Sembrano più meccanismi di controllo che passi concreti verso un’occupazione. È un lavoro, sì, ma spesso percepito come svuotato di significato.
Il Lavoro Relazionale: Quando l’Umanità Fa la Differenza
Poi c’è l’altro tipo di “lavoro” che facciamo: quello relazionale. E qui, ragazzi, la musica cambia. Parlare con un consulente che ti capisce, che ti ascolta davvero, che ti aiuta a sbrogliare la matassa dei tuoi problemi (che spesso non sono solo la mancanza di lavoro, ma anche ansia sociale, problemi di salute, situazioni familiari complicate)… beh, quello sì che fa la differenza.
Nello studio, emerge chiaramente: le interazioni umane sono viste come un supporto preziosissimo. Un consulente empatico può aiutarti a capire meglio te stesso e i tuoi ostacoli. Un ragazzo raccontava di come la sua migliore consulente lo avesse aiutato a rendersi conto di soffrire di ansia sociale, indirizzandolo verso un aiuto concreto. Questo è quello che io chiamo “lavoro biografico”: un percorso per venire a patti con le proprie difficoltà e imparare a gestirle.
Anche incontrarsi di persona è fondamentale. Vedere il consulente faccia a faccia crea fiducia, permette una comunicazione più completa. Si capisce che dall’altra parte c’è un essere umano che cerca di aiutarti, non solo un’entità burocratica che ti manda messaggi. E non sottovalutiamo il potere del gruppo: partecipare a corsi o attività con altri ragazzi nella stessa situazione crea un senso di comunità, ti fa sentire meno solo, ti dà la motivazione per alzarti la mattina. Avere una routine, scambiare due chiacchiere davanti a un caffè prima di iniziare “il lavoro”… queste cose possono sembrare piccole, ma sono potentissime.
Il problema è che questo supporto umano non è sempre garantito. Cambiare continuamente consulente significa dover ricominciare ogni volta da capo, rispiegare tutto, ricostruire la fiducia. È stancante e controproducente, specialmente per chi fa più fatica.
Perché Questa Disconnessione? E Come Possiamo Migliorare?
Allora, perché i servizi digitali, pur essendo tecnicamente facili da usare, ci lasciano spesso con un senso di vuoto e frustrazione? Forse perché sono progettati pensando più all’efficienza amministrativa che al nostro bisogno di sentirci supportati e motivati. I compiti sono frammentati, non vediamo il collegamento con l’obiettivo finale, non sentiamo di avere il controllo del processo.
Come suggerisce la ricerca sul “work design”, per sentirci motivati abbiamo bisogno di compiti che abbiano un senso, che siano vari, che ci permettano di usare le nostre capacità e di vedere il quadro generale. L’Activity Planner, ad esempio, è basato su una lavagna Kanban, uno strumento pensato per la collaborazione e la visualizzazione dei progressi in un team. Ma noi lo percepiamo come uno strumento di controllo individuale.
Cosa si potrebbe fare? Immaginate se questi strumenti digitali fossero progettati non solo per farci “fare cose”, ma per aiutarci a *capire* il percorso verso il lavoro. Se ci mostrassero i progressi, ci facessero sentire parte di una “traiettoria” (come la chiamano gli studiosi) verso un obiettivo, rendendo anche i compiti più noiosi parte di qualcosa di significativo. Se ci dessero un feedback su come le informazioni che forniamo vengono usate, per farci sentire più partecipi e meno semplici esecutori.
E poi, c’è bisogno di riconoscere i limiti del digitale. Non può sostituire l’importanza del contatto umano, dell’empatia, del supporto personalizzato, soprattutto quando si affrontano situazioni complesse. Forse bisognerebbe distinguere meglio tra i compiti amministrativi necessari alla WA e quelli pensati davvero per aiutarci.
Un Approccio Partecipativo per Spezzare il Cerchio
La disoccupazione giovanile è un problema complesso, un “wicked problem” come dicono gli esperti, senza soluzioni facili. Non basta un’app fatta meglio. Ma forse, un passo nella direzione giusta sarebbe coinvolgere di più noi giovani nella progettazione stessa dei servizi che dovrebbero aiutarci. Un approccio partecipativo, dove chi vive il problema contribuisce a trovare le soluzioni.
Potrebbe aiutarci a creare servizi che rispondano meglio ai nostri bisogni reali, che bilancino l’efficienza digitale con il supporto umano, che ci facciano sentire protagonisti del nostro percorso e non solo ingranaggi di un sistema. Potrebbe essere un modo per iniziare a spezzare quel frustrante “loop della disoccupazione” e costruire percorsi più significativi verso il futuro.
Perché alla fine, quello che cerchiamo non è solo un lavoro, ma anche un senso di scopo, di appartenenza e la possibilità di costruirci una vita. E forse, il primo passo è smettere di farci fare un “lavoro” invisibile e iniziare a lavorare *insieme*.
Fonte: Springer