Immagine simbolica e fotorealistica: due mani di etnie diverse che si stringono, una con un braccialetto identificativo da centro accoglienza appena visibile, l'altra senza. Sfondo leggermente sfocato di un ufficio immigrazione stilizzato. Obiettivo 50mm, profondità di campo media, luce morbida e neutra, colori naturali.

Richiedenti Asilo di Serie A e Serie B? Un’Integrazione Giusta è Possibile (e Necessaria)

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore e che, secondo me, tocca le corde profonde della giustizia e dell’umanità: come trattiamo i richiedenti asilo quando arrivano da noi, in cerca di protezione. Avete mai sentito parlare di politiche, come quelle adottate recentemente da alcuni stati europei, tra cui la Norvegia, che dividono queste persone in categorie fin da subito, offrendo percorsi di integrazione diversi?

In pratica, si dà priorità a chi viene classificato come avente “alte prospettive” di ottenere lo status di rifugiato, basandosi spesso sul tasso di riconoscimento delle domande provenienti dal suo paese d’origine. Gli altri, quelli con “basse prospettive”, vengono lasciati un po’ indietro, almeno per quanto riguarda l’integrazione economica e lavorativa iniziale.

Il Nocciolo del Problema: Differenziare è Giusto?

Vi racconto un esempio per capirci meglio: prendiamo un siriano e un afghano. Entrambi fuggono da guerre e violazioni dei diritti umani, arrivano stremati in un paese come la Norvegia e chiedono asilo. Mentre aspettano, mesi, a volte anni, che la loro domanda venga esaminata, ricevono trattamenti diversi. Il siriano, provenendo da un paese con alto tasso di riconoscimento (oltre l’80% in Norvegia), riceve subito un pacchetto completo che include misure di integrazione culturale ed economica (corsi di lingua, orientamento professionale, magari un permesso di lavoro temporaneo). L’afghano, invece, considerato a “bassa prospettiva”, ha accesso solo a misure culturali di base. È moralmente accettabile questa differenza?

Io credo fermamente di no. E il motivo principale è che questa suddivisione, basata su una probabilità statistica, ignora completamente le vulnerabilità comuni che tutti i richiedenti asilo affrontano durante il lungo e snervante periodo di attesa. Chiamo queste difficoltà “vulnerabilità non legate direttamente alla richiesta d’asilo”.

Le Vulnerabilità Nascoste: Uguali per Tutti

Pensiamoci un attimo: cosa significa aspettare una decisione che cambierà la tua vita, in un paese nuovo, spesso senza conoscere la lingua, senza poter lavorare, magari vivendo in centri d’accoglienza con standard non ottimali e con un supporto economico minimo? Significa trovarsi in una situazione di precarietà sociale, legale ed economica enorme.

Questo limbo porta con sé un carico pesante:

  • Marginalizzazione sociale e isolamento.
  • Deterioramento della salute fisica e mentale (ansia, depressione, stress post-traumatico che si acuisce).
  • Insicurezza economica e, a volte, vera e propria indigenza.
  • Perdita di autostima e senso di inutilità per l’impossibilità di lavorare e provvedere a sé stessi.
  • Difficoltà nel ricostruire una parvenza di normalità e progettare un futuro.

Queste vulnerabilità non dipendono dal fatto che la tua domanda d’asilo sia “forte” o “debole” sulla carta. Sono il risultato diretto delle condizioni di accoglienza spesso inadeguate e delle restrizioni imposte. Sono vulnerabilità indotte dal sistema stesso del paese ospitante. E colpiscono il siriano come l’afghano, l’eritreo come lo yemenita, mentre aspettano.

Fotografia ritratto di un uomo pensieroso, richiedente asilo, seduto in un centro di accoglienza spoglio, luce naturale dalla finestra, obiettivo 35mm, profondità di campo per isolare il soggetto, toni bicromatici seppia e grigio per esprimere incertezza.

Perché le Categorie Fanno Male

Categorizzare i migranti non è mai un processo neutro. Crea gerarchie, influenza la percezione pubblica (chi “merita” aiuto e chi no) e, di fatto, modella le vite delle persone. La categoria “alta probabilità di restare” fa esattamente questo: sposta l’attenzione dalla sofferenza e dai bisogni immediati alla presunta “legittimità” della richiesta d’asilo.

Chi ha “alte prospettive” viene visto come un futuro membro della società, meritevole di investimento. Chi ha “basse prospettive” rischia di essere percepito come “illegittimo”, quasi un peso, rendendo più accettabili politiche restrittive nei suoi confronti. Ma questa è una differenza basata su una presunzione, su qualcosa che deve ancora essere dimostrato! È come giudicare un libro dalla copertina, anzi, da una statistica sulla copertina.

Questo meccanismo ha implicazioni problematiche:

  1. Diventa una profezia che si auto-avvera: Chi riceve integrazione precoce ha più possibilità di creare legami, trovare lavoro, imparare la lingua, e quindi avrà basi più solide per restare, anche se la sua domanda d’asilo venisse respinta.
  2. Contraddice il principio di non discriminazione: Trattamenti differenziati dovrebbero basarsi su differenze reali e verificabili, non su probabilità future.
  3. Ci fa dimenticare il presente: Sposta l’attenzione dal limbo attuale e dalle sofferenze condivise all’ipotetico futuro status legale.

Obblighi Legali e Morali: Non Dimentichiamoli

La Convenzione di Ginevra del 1951, il pilastro del diritto dei rifugiati, stabilisce standard minimi di trattamento. Anche se non parla esplicitamente di “integrazione precoce”, il suo spirito è quello di proteggere la dignità e ripristinare l’autonomia delle persone in fuga. Introduce una definizione unica di rifugiato per garantire trattamenti uguali, indipendentemente dall’origine. Suddividere la categoria legale dei richiedenti asilo in base a criteri non previsti dalla Convenzione, offrendo protezioni più generose solo ad alcuni, va contro questo principio fondamentale di uguaglianza nel trattamento.

Dal momento in cui una persona chiede asilo, è legalmente presente nel paese e dovrebbe godere di certi diritti fondamentali. Trattarli diversamente in base alla “probabilità di restare” rafforza l’idea che alcuni siano “veri” rifugiati e altri no, ancor prima che sia presa una decisione. Moralmente, poi, abbiamo una responsabilità verso chi arriva da noi in condizioni di estrema vulnerabilità. Diversi approcci etici lo sottolineano: dalla responsabilità causale (se abbiamo contribuito alle cause della fuga) all’umanitarismo (aiutare chi è in grave difficoltà), fino alla legittimità del sistema statale (ogni stato ha il dovere di proteggere i diritti umani, anche per conto di stati che falliscono nel farlo).

Penso che l’approccio più convincente sia quello della responsabilità riparativa: il paese ospitante ha il dovere di fornire condizioni che permettano ai richiedenti asilo di recuperare la loro capacità di agire (la loro “agency”), di sentirsi persone attive nel proprio ambiente, mitigando quelle vulnerabilità indotte dal sistema di accoglienza. E questo dovere vale per tutti, non solo per quelli che “probabilmente” resteranno.

Fotografia macro di documenti ufficiali sparsi su un tavolo, alcuni con timbri, altri bianchi, illuminazione controllata laterale per creare ombre nette, obiettivo macro 100mm, alta definizione dei dettagli della carta e dell'inchiostro.

Ma Conviene Davvero Differenziare? Uno Sguardo ai Costi (Anche per Noi)

Qualcuno potrebbe dire: “Ma integrare tutti costa! È giusto chiedere ai cittadini di pagare per l’integrazione di persone che poi magari se ne andranno?”. È la logica dietro la differenziazione: investire solo dove si prevede un “ritorno”. Caroline Schultz, ad esempio, ha argomentato in questa direzione, bilanciando i doveri verso i cittadini (non sovraccaricarli economicamente) e quelli verso i rifugiati.

Però, questa visione è miope, secondo me. Proviamo a immaginare qualche scenario (basato su quelli proposti nell’articolo originale):

  • Scenario 1 (Il peggiore per lo Stato): La previsione è sbagliata. Il siriano (alta prospettiva) viene respinto, l’afghano (bassa prospettiva) viene accettato. Lo Stato ha “investito” sul siriano, che magari non può nemmeno essere rimpatriato subito e resta in un limbo legale senza poter lavorare (un costo netto). L’afghano, che resterà, non ha ricevuto integrazione precoce, quindi impiegherà più tempo a inserirsi nel mercato del lavoro, pesando più a lungo sul welfare. Un doppio svantaggio.
  • Scenario 2: Entrambi vengono accettati. Il siriano è già avviato, l’afghano parte svantaggiato. Si crea una disparità tra rifugiati riconosciuti, e l’integrazione più lenta dell’afghano è comunque un costo per la società. Non sarebbe stato meglio prepararli entrambi?
  • Scenario 3: Entrambi respinti. Lo Stato potrebbe pensare di aver “risparmiato” sull’afghano, ma ha comunque speso per il siriano (che magari resta come non-espellibile). E in ogni caso, ha fallito nel suo dovere morale di alleviare le vulnerabilità di entrambi durante l’attesa.
  • Scenario 4 (La previsione è corretta): Il siriano resta, l’afghano no. Sembrerebbe giustificare la differenziazione. Ma anche qui: l’afghano ha comunque sofferto le vulnerabilità comuni senza supporto adeguato. E se anche fosse rimasto come non-espellibile, non sarebbe preparato a contribuire minimamente. Inoltre, permettere anche a chi ha basse prospettive di lavorare temporaneamente potrebbe portare entrate fiscali e ridurre la dipendenza dall’assistenza.

E se invece immaginassimo uno Scenario 5: Integrazione Indifferenziata per Tutti?

  • Per i richiedenti asilo: Accesso più equo alle condizioni per ricostruire la propria vita e mantenere la dignità durante l’attesa.
  • Per lo Stato e la società:
    • Potenziale riduzione dei costi a breve termine (meno dipendenza dall’assistenza se possono lavorare).
    • Maggiore probabilità di integrazione rapida e stabile nel mercato del lavoro per chi ottiene lo status (beneficio a lungo termine).
    • Entrate fiscali dal lavoro dei richiedenti asilo.
    • Adempimento degli obblighi morali e legali.

Certo, c’è la preoccupazione che integrare tutti renda più difficile il rimpatrio di chi viene respinto. È un dilemma reale. Ma ridurre i diritti fondamentali delle persone durante l’attesa per paura di questo esito futuro non mi sembra una soluzione eticamente sostenibile. Forse, bisognerebbe lavorare sulla fiducia nel sistema di asilo e comunicare meglio l’importanza di un approccio umano e giusto.

Fotografia grandangolare di un gruppo diversificato di persone (simboleggianti richiedenti asilo e comunità locale) che lavorano insieme in un orto comunitario, luce solare calda, obiettivo grandangolare 24mm, messa a fuoco nitida su tutto il gruppo per mostrare collaborazione.

Verso un’Integrazione Davvero Giusta

Qualcuno potrebbe obiettare: “Non si potrebbero ridurre le vulnerabilità in altri modi, senza dare a tutti l’integrazione economica? Ad esempio, velocizzando le procedure o migliorando i centri?”. Certo, sono misure importanti, ma negare il diritto al lavoro e all’inclusione economica ha un impatto enorme sull’autonomia e il benessere delle persone. Non è un aspetto secondario.

Un’altra obiezione: “Ma dare integrazione almeno a quelli ad alta prospettiva non è comunque un passo avanti, una forma di giustizia incrementale?”. Forse, ma solo se non rafforza strutture ingiuste. E qui, la differenziazione rischia proprio di fare questo: rafforza la divisione tra “meritevoli” e “non meritevoli”, invece di affrontare le disuguaglianze alla radice.

In conclusione, credo che trattare diversamente i richiedenti asilo in base alla loro “probabilità di restare” sia profondamente ingiusto. Assume una differenza che non è ancora provata, ignora le sofferenze comuni e urgenti vissute durante l’attesa, e rischia persino di essere controproducente per la stessa società ospitante. Concentrarci sulle vulnerabilità condivise e garantire a tutti, fin dall’inizio, gli strumenti per mantenere la dignità e iniziare a ricostruire la propria vita non è solo un imperativo morale, ma forse anche la scelta più lungimirante.

Dobbiamo ripensare queste politiche, mettendo al centro la persona e i suoi bisogni reali, qui e ora, non solo le statistiche o le preoccupazioni future. Un’integrazione indifferenziata, che riconosca la comune umanità e la comune vulnerabilità di chi attende una risposta, è un passo necessario verso una società più giusta e accogliente per tutti.

Fonte: Springer

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