Bias Implicito: Perché la Psicologia Ha Bisogno di Unire i Puntini (e Cosa C’entriamo Noi)?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta particolarmente a cuore e che, ne sono convinto, tocca le vite di tutti noi, anche se spesso non ce ne rendiamo conto: il bias implicito. Avete presente quelle preferenze, quei pregiudizi sottili che sembrano agire sotto traccia, influenzando le nostre decisioni e i nostri comportamenti senza che ne siamo pienamente consapevoli? Ecco, parliamo proprio di quello.
Da quando la psicologia ha iniziato a studiare seriamente questo fenomeno, dagli anni ’90 in poi, sono nati tantissimi modelli per cercare di spiegarlo. Il punto, però, è che questi modelli sembrano spesso andare in direzioni diverse, quasi opposte. È un po’ come avere tante mappe diverse della stessa città: ognuna mostra qualcosa di utile, ma nessuna sembra catturare l’intera complessità del territorio. E io mi chiedo: non è che ci stiamo perdendo qualcosa cercando il modello “giusto” invece di provare a metterli insieme?
Due Grandi Famiglie di Modelli: Individualisti vs. Situazionisti
Se dovessi semplificare al massimo (e lo farò, per capirci meglio!), direi che la maggior parte dei modelli sul bias implicito ricade in due grandi categorie.
1. Modelli Individualisti: Questi modelli guardano dentro la nostra testa. Si concentrano sui processi mentali, sulle associazioni che facciamo, sulle nostre credenze (anche quelle che non ammetteremmo mai!). In pratica, vedono il bias come una caratteristica dell’individuo, qualcosa che risiede nella sua mente. Pensate ai classici test come l’Implicit Association Test (IAT): l’idea di fondo è misurare qualcosa *dentro* di noi.
2. Modelli Situazionisti: Più di recente, è emersa una prospettiva diversa. Questi modelli spostano i riflettori dall’individuo all’ambiente, alla situazione. L’idea affascinante è che forse il bias non è tanto (o non solo) una proprietà delle persone, quanto delle *situazioni* in cui ci troviamo. Immaginate che certi contesti, certe culture, certi ambienti di lavoro siano “inquinati” da bias, e noi, semplicemente immergendoci in essi, finiamo per assorbirli e manifestarli. Secondo questa visione, misurare il bias implicito di una persona potrebbe in realtà dirci di più sul contesto in cui vive o lavora che sulla persona stessa.
Questa distinzione non è solo accademica, capite? Ha implicazioni enormi su come cerchiamo di combattere le discriminazioni. Se il problema è nella testa delle persone, allora dobbiamo lavorare sugli individui: formazione, consapevolezza, tecniche per “riprogrammare” le associazioni mentali. Se invece il problema è nelle situazioni, allora dobbiamo cambiare le strutture, le regole, i contesti: politiche aziendali, leggi, rappresentazione nei media, ecc. Ma chi ha ragione? E se la risposta fosse… entrambi?
Un’Occhiata Più da Vicino ai Modelli
Senza entrare troppo nel tecnico, vediamo qualche esempio. Tra i modelli individualisti, abbiamo i famosi modelli a doppio processo (come il modello MODE di Fazio). L’idea di base è che la nostra mente funzioni un po’ su due binari: uno veloce, automatico, istintivo (dove spesso si annida il bias implicito) e uno più lento, controllato, riflessivo. A seconda della nostra motivazione e del tempo che abbiamo per pensare (l’ “opportunità”), uno dei due processi prende il sopravvento. Se siamo di fretta o poco motivati a controllare i nostri pregiudizi, ecco che il bias implicito può guidare il nostro comportamento.
Poi ci sono i modelli proposizionali (come quello di De Houwer). Questi suggeriscono che anche le nostre risposte automatiche non sono solo semplici associazioni (tipo “nero = pericoloso”), ma si basano su vere e proprie “proposizioni”, cioè affermazioni sulla relazione tra concetti (“Le persone nere SONO pericolose”). La cosa interessante è che queste proposizioni possono formarsi o attivarsi automaticamente, influenzandoci senza che ce ne accorgiamo. Questo apre la porta a interventi basati sul fornire “contro-argomentazioni” che possano modificare queste proposizioni implicite.
Dall’altra parte, abbiamo l’approccio situazionista, come il “bias delle folle” (proposto da Payne e colleghi). Questi ricercatori hanno notato delle stranezze nei dati dell’IAT: i punteggi medi di bias in grandi gruppi di persone sono sorprendentemente stabili nel tempo e tra diverse età, ma i punteggi dei singoli individui sono molto instabili (una persona può risultare molto “biased” oggi e poco domani). Inoltre, i punteggi individuali predicono male il comportamento individuale. Come spiegare tutto ciò? L’ipotesi situazionista è che l’IAT non misuri tanto un tratto stabile dell’individuo, quanto l’influenza del “clima” sociale e culturale in cui quella persona è immersa. Il bias sarebbe più una proprietà dell’aria che respiriamo che del nostro DNA mentale.
Perché Mettere Insieme i Pezzi è Fondamentale
Ora, di fronte a questi modelli così diversi, la tentazione è quella di schierarsi, di decidere quale sia il “migliore”. Ma se prendiamo spunto dalla filosofia della scienza, forse l’approccio più saggio è un altro. Spesso, di fronte a fenomeni molto complessi (e il bias implicito lo è sicuramente!), gli scienziati costruiscono modelli diversi, ognuno dei quali illumina un aspetto specifico della realtà, magari semplificando o tralasciando altri aspetti. Non sono necessariamente in competizione, ma offrono prospettive diverse e complementari.
È un po’ come guardare un oggetto complesso da diverse angolazioni: ogni vista è parziale, ma mettendole insieme otteniamo una comprensione più ricca e completa. Credo fermamente che dovremmo fare lo stesso con i modelli del bias implicito. Integrare l’approccio individualista e quello situazionista potrebbe:
- Chiarire meglio come funzionano davvero i bias, riconoscendo che sia la nostra mente *che* il contesto giocano un ruolo cruciale e interagiscono tra loro.
- Ispirare interventi più efficaci: invece di scegliere tra formazione individuale O cambiamenti strutturali, potremmo capire come combinarli al meglio. Magari la formazione funziona solo se inserita in un contesto che la supporta? O forse certi cambiamenti strutturali sono necessari per rendere le persone più ricettive alla formazione?
- Offrire spunti filosofici: ad esempio, sulla responsabilità morale per i nostri bias impliciti. Se il bias dipende molto dal contesto, quanta colpa abbiamo individualmente?
Unire le Forze: Dalla Teoria alla Pratica
Pensiamo a un esempio concreto: le forze dell’ordine e le disparità razziali nel trattamento dei cittadini. È un problema enorme e documentato. Un approccio basato sui modelli individualisti suggerirebbe corsi di formazione anti-bias per i singoli agenti, per modificare le loro associazioni mentali inconsce. Un approccio situazionista, invece, punterebbe a cambiare la cultura interna dei dipartimenti di polizia, le procedure operative, forse persino il ruolo stesso della polizia nella società.
Qual è la strada giusta? Probabilmente una combinazione delle due. Ma *come* combinarle? Quali interventi individuali funzionano meglio in quali contesti strutturali? Su cosa dovremmo investire di più le nostre risorse? Queste sono le domande a cui una psicologia del bias implicito più integrata dovrebbe aiutarci a rispondere.
Serve chiarezza su come dare priorità o combinare gli interventi a livello individuale e strutturale. Questa chiarezza non è solo un desiderio accademico, ma una necessità pratica per guidare le politiche pubbliche e costruire una società davvero più giusta ed equa.
Insomma, il viaggio nella comprensione del bias implicito è ancora lungo, ma credo che la prossima tappa fondamentale sia proprio quella di superare le divisioni tra modelli e iniziare a costruire ponti. Dobbiamo imparare a vedere sia l’albero (l’individuo) che la foresta (il contesto), e soprattutto capire come interagiscono. Solo così potremo sperare di affrontare efficacemente le radici profonde della discriminazione. E voi, cosa ne pensate?
Fonte: Springer