Instructional Designer nel Caos Universitario: Come Sopravvivere (e Prosperare) nell’Anarchia Organizzativa
Ah, il lunedì mattina. Ricordo ancora quella sensazione: caffè tiepido nella tazza da viaggio gigante, la caccia al parcheggio nel campus universitario, la mente che già correva ai mille progetti sulla scrivania. Salgo le scale, saluto i colleghi, accendo il computer e… *zac*. Una singola email manda all’aria tutta la pianificazione. “Buone notizie! Approvato un nuovo corso di certificazione per la primavera. Dobbiamo iniziare subito, mettete in pausa tutto il resto.” Suona familiare, vero?
Questa è la vita, spesso, per chi come me lavora come instructional designer, soprattutto in contesti complessi come le grandi università pubbliche. Ci troviamo a navigare in sistemi dove le decisioni piovono dall’alto, spesso senza interpellarci, stravolgendo priorità e processi. È un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle, un misto di frustrazione e necessità di adattamento continuo.
In questo racconto, che prende spunto da un’analisi personale durata 13 mesi (un’autoetnografia narrativa, per usare il termine tecnico), voglio condividere come le dinamiche decisionali, a volte francamente bizzarre, di un’istituzione universitaria impattano sul nostro lavoro quotidiano. Lo farò usando una lente particolare: il Modello del Cestino dei Rifiuti (Garbage Can Model) di Cohen e colleghi. Sembra un nome strano, ma descrive perfettamente quella sensazione di caos organizzato che molti di noi conoscono bene.
Cos’è l’Anarchia Organizzativa (e perché le Università ne sono Maestre)
Parliamoci chiaro: le università, con le loro strutture a silos, i molteplici centri di potere e il flusso costante di persone, sono l’habitat naturale per quella che viene definita “anarchia organizzativa”. Non significa che regni il caos totale (anche se a volte lo sembra!), ma che i processi decisionali non seguono quasi mai un percorso lineare e razionale. Cohen e i suoi collaboratori hanno identificato tre pilastri di questa anarchia:
- Preferenze Problematiche: Obiettivi e priorità poco chiari, ambigui o addirittura contraddittori a vari livelli dell’istituzione.
- Tecnologie Poco Chiare: Processi di gestione e flussi di lavoro mal definiti, compresi in modo diverso da persone diverse, o semplicemente sconosciuti a chi dovrebbe applicarli.
- Partecipazione Fluida: Un continuo viavai di persone (docenti, staff, studenti, amministratori) che entrano ed escono dai progetti, dai dipartimenti o dall’università stessa, portando con sé (o portandosi via) conoscenze, priorità e attenzione.
In questo contesto, le decisioni non nascono da un’analisi ponderata di problemi e soluzioni. Assomigliano più a un “cestino dei rifiuti” dove problemi, soluzioni, partecipanti e opportunità di scelta vengono gettati alla rinfusa. Cosa ne esce? Spesso, decisioni prese per “fuga” (il problema viene ignorato o rimbalzato altrove finché non scompare o diventa irrilevante) o per “supervisione affrettata/distratta” (si sceglie una soluzione rapida, spesso inadeguata, senza considerare il contesto o le conseguenze, pur di “fare qualcosa”).
Quando le Decisioni Piovono dall’Alto: Storie di Ordinaria Follia
Vi racconto qualche episodio vissuto in prima persona, che illustra bene come queste dinamiche si traducono nella pratica.
Preferenze Problematiche: Il Caso dello Studio di Registrazione e dell’Accessibilità Dimenticata
Ricordo una riunione di team. Si parlava dei progetti in corso quando, dal nulla, salta fuori che un professore stava già registrando le lezioni per un *nuovo* corso, parte di un certificato approvato da poco. Nessuno del nostro team ne sapeva nulla. La decisione di partire subito con le registrazioni era stata presa dai piani alti per giustificare il costo di un nuovo studio di registrazione (oltre 10.000 dollari!). Peccato che nessuno avesse pensato di coinvolgere noi instructional designer, né il docente stesso, per una minima pianificazione didattica. Ci siamo ritrovati a dover “costruire l’aereo mentre era già in volo”, cercando di dare una forma al corso man mano che arrivavano le registrazioni. Una decisione presa per “supervisione affrettata”, ignorando completamente il processo di progettazione didattica.
Un altro esempio lampante riguarda l’accessibilità. L’università aveva lanciato un nuovo piano strategico che enfatizzava inclusività e accesso. Come professionista certificato in accessibilità, mi sentivo eticamente obbligato a garantire che i nostri corsi fossero conformi agli standard (WCAG). Per mesi ho sollevato il problema, fatto raccomandazioni dettagliate. Risultato? Un corso “completato” ma assolutamente inaccessibile viene revisionato dal direttore. Alla mia domanda sull’accessibilità, silenzio imbarazzato. Nonostante le mie proteste (ho dovuto dichiarare a verbale che il corso non era pronto), il corso è andato online “così com’è”. Qui vediamo una combinazione letale: preferenze problematiche (l’accessibilità era una priorità a parole, ma non nei fatti o nella comprensione diffusa) e decisioni prese sia per “fuga” (ignorare il problema sperando che si risolva da solo o passi ad altri) sia per “supervisione affrettata” (la fretta di lanciare il corso ha avuto la meglio su tutto).
Tecnologie Poco Chiare: Il Corso Dimenticato e gli Strumenti di Project Management Negati
Stavamo lavorando sotto pressione su tre corsi per un certificato con scadenza imminente. Un progetto su cui avevo lavorato per un anno, usando tecnologie emergenti e completo all’80%, era stato messo in pausa da tempo. Nonostante le mie continue richieste di chiarimenti sul suo destino, nessuno sembrava ricordarsene. Finché, un giorno, un altro direttore chiede a che punto fosse quel corso, perché avevano deciso *ora* di includerlo nel certificato. Né io né il mio supervisore diretto ne sapevamo nulla. La confusione sui processi di approvazione e inclusione dei corsi era totale. Una classica “tecnologia poco chiara”, aggravata da una decisione per “supervisione affrettata” presa da qualcuno che non aveva idea del tempo necessario per progettare un corso online. La giustificazione? “Abbiamo sempre fatto così”.
Altro fronte caldo: la gestione dei progetti. Il team era cresciuto, lavoravamo su più fronti e la comunicazione via email e file sparsi era un incubo. Proponiamo l’uso di software di project management (Miro, Monday.com…). Risposta? “Negato dall’ufficio legale per motivi di privacy e sicurezza” e “Non c’è budget”. Un nuovo collega si offre di creare dei planning in Excel. Il direttore applaude l’iniziativa ma ribadisce: niente tempo, niente budget. Risultato? Si continua come prima, tra inefficienze, errori e frustrazioni. Una chiara “decisione per fuga”: piuttosto che affrontare il problema (investire in strumenti o dedicare tempo a creare una soluzione interna), si preferisce evitarlo, adducendo vincoli esterni. Abbiamo dovuto imparare ad accontentarci, a fare satisficing, come direbbe Simon: trovare soluzioni “abbastanza buone” invece che ottimali.
Partecipazione Fluida: Ristrutturazioni Improvvise e Conflitti Ignorati
Primavera 2022. Riunione settimanale. Scopro che l’intera area è stata ristrutturata. Il mio supervisore diretto (che era anche il nostro graphic designer!) viene spostato altrove, e io ora rispondo direttamente al suo capo. Tutto questo nel bel mezzo della consegna di un certificato importante, con tutti i miei piani grafici che dipendevano da lui. Due settimane di stop per riorganizzarci, traslocare uffici, capire chi fa cosa. Una decisione presa dall’alto (“supervisione affrettata”), totalmente scollegata dalle nostre esigenze operative, che esemplifica la “partecipazione fluida”: persone chiave che spariscono da un giorno all’altro, lasciando vuoti di competenze e conoscenza istituzionale.
E poi ci sono i conflitti. Dovevamo completare quel famoso corso “dimenticato” entro una nuova scadenza, insieme agli altri tre. Peccato che stessimo ancora aspettando i contenuti dai docenti per questi ultimi, da due mesi! Il direttore comunica ai docenti la nuova scadenza (la stessa nostra!) aggiungendo un “capiamo che siete impegnati”. Ho protestato: erano stati pagati in anticipo per consegnare entro settembre! Dare loro la stessa nostra scadenza ci avrebbe solo ritardato ulteriormente. Ma niente. La loro attenzione era divisa, le nostre scadenze non erano la loro priorità. Il mio supervisore e il direttore hanno evitato il confronto (“decisione per fuga”), lasciando che fossimo noi designer a subire le conseguenze, senza l’autorità per imporre le scadenze. La fluidità della partecipazione dei docenti, unita alla mancanza di gestione del conflitto, ha compromesso gravemente il progetto.
Come Uscirne Vivi (e Forse Migliori): Strategie di Sopravvivenza Attiva
Di fronte a questo scenario, che può sembrare sconfortante, ho capito che lamentarsi serve a poco. Bisogna sviluppare strategie attive per navigare queste acque turbolente. Ne ho identificate tre principali, emerse dalla mia riflessione:
1. Gestire l’Incertezza (Invece di Subirla)
Il primo passo è cambiare mentalità. L’incertezza non è un’eccezione, ma una caratteristica intrinseca del nostro lavoro in questi contesti. Invece di cercare di eliminarla o ignorarla, dobbiamo imparare a gestirla attivamente. Questo significa:
- Essere flessibili: Abbracciare approcci iterativi e adattivi (come il backward design, quando necessario) che ci permettano di aggiustare il tiro in corsa.
- Anticipare: Sviluppare un “sesto senso” per i cambiamenti di priorità istituzionali, basandosi sull’esperienza passata.
- Rendere esplicita l’incertezza: Non aver paura di nominare le incognite nelle riunioni, nei report, e tracciare come evolvono.
- Documentare le decisioni (non solo il design): Tenere traccia di *come* le decisioni di progettazione cambiano in risposta a nuovi vincoli o informazioni. Questo crea una memoria storica utile per prevedere problemi futuri e giustificare le scelte fatte.
Questa capacità di adattamento non è solo improvvisazione, ma deriva dalla nostra competenza epistemica: la conoscenza specializzata e le pratiche culturali del nostro campo professionale.
2. Navigare le Decisioni per Fuga e Supervisione Affrettata
Quando le decisioni arrivano come fulmini a ciel sereno o problemi vengono sistematicamente ignorati, serve agilità. Dobbiamo essere capaci di cambiare rotta rapidamente, senza però perdere di vista i principi fondamentali della buona progettazione didattica. Strategie utili includono:
- Adottare processi agili: Sviluppo iterativo, valutazione continua, cicli brevi di feedback.
- Documentazione proattiva (la tattica della “ruota che cigola”): Identificare e comunicare *ripetutamente* le criticità (es. accessibilità, problemi di design) ai decisori, anche quando sembra inutile. Documentare sistematicamente queste segnalazioni e le loro implicazioni a lungo termine crea una base per future negoziazioni e, diciamocelo, per un eventuale “ve l’avevo detto”.
- Proporre soluzioni alternative realistiche: Invece di dire solo “non si può fare”, offrire opzioni graduali o alternative che tengano conto dei vincoli (tempo, budget) ma preservino l’integrità didattica.
3. Praticare l’Advocacy Riflessiva
Abbiamo sempre parlato del “professionista riflessivo” di Schön, che impara dalla propria esperienza. Ma in contesti di anarchia organizzativa, la sola riflessione non basta. Serve quella che chiamo “advocacy riflessiva”. È un passo oltre: combina l’autoconsapevolezza critica con un’azione mirata a influenzare e, se necessario, sfidare il sistema. Significa:
- Andare oltre la riflessione privata: Usare le proprie riflessioni per formulare proposte concrete e alternative (come le soluzioni graduali per l’accessibilità).
- Costruire ponti: Creare relazioni e canali di comunicazione con stakeholder chiave, anche al di fuori del proprio team o dipartimento. Farsi conoscere e riconoscere come una voce competente e affidabile.
- Diventare indispensabili (nel modo giusto): Non solo eseguire, ma contribuire attivamente al processo decisionale con dati, analisi, proposte basate sull’evidenza. Essere presenti e costanti nel fornire il proprio punto di vista professionale.
- Stabilire e difendere i confini: Imparare a dire “no” (o “sì, ma…”) in modo costruttivo, proteggendo la qualità del lavoro e il proprio benessere, pur rimanendo collaborativi.
Questa advocacy non è urlata o aggressiva, ma strategica, basata sull’evidenza e sulla costruzione di alleanze.
Conclusioni: Dal Cestino dei Rifiuti a un Design più Consapevole
Lavorare come instructional designer in un’università che funziona come un’anarchia organizzata è senza dubbio una sfida. Il Modello del Cestino dei Rifiuti ci aiuta a capire *perché* le cose vanno spesso in modo così caotico e imprevedibile. Ma capire non basta.
Questa esperienza mi ha insegnato che la nostra adattabilità non è solo una dote personale, ma una risposta strategica necessaria. Imparare a gestire l’incertezza, navigare decisioni prese per fuga o supervisione affrettata, e praticare un’advocacy riflessiva sono competenze fondamentali per sopravvivere e, possibilmente, prosperare in questi ambienti.
Significa documentare, comunicare in modo proattivo, essere flessibili ma ancorati ai principi, costruire relazioni e, soprattutto, non subire passivamente decisioni che minano la qualità del nostro lavoro e il nostro ruolo. È un lavoro che richiede anche un notevole carico emotivo – la frustrazione, il senso di impotenza sono reali – ed è importante riconoscerlo.
Spero che questa condivisione possa essere utile ad altri colleghi che si trovano a “rovistare nel cestino dei rifiuti” organizzativo, offrendo non solo comprensione, ma anche qualche spunto pratico per rendere il viaggio un po’ meno accidentato e, forse, persino più significativo.
Fonte: Springer