Università Intensiva: La Mia Avventura tra Apprendimento Attivo e il Mistero dell’Indagine
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ particolare, quello che ho intrapreso nel mondo dell’innovazione pedagogica nell’alta formazione. Sì, lo so, detto così suona un po’ accademico e forse noioso, ma vi assicuro che è un tema caldissimo e pieno di sorprese, soprattutto quando si parla di insegnamento intensivo. Immaginatevi corsi universitari concentrati, dove tutto accade in poche settimane invece che in un intero semestre. Una bella sfida, no? E proprio in questo contesto mi sono chiesto: come possiamo rendere l’apprendimento davvero efficace e coinvolgente?
L’Università che Cambia: Un’Onda da Cavalcare, Non da Subire
Diciamocelo chiaramente: l’università non è più quella di una volta. Gli studenti sono cambiati, le loro esigenze anche, e il mondo del lavoro chiede competenze sempre più specifiche e trasversali. Ecco perché l’innovazione pedagogica non è un optional, ma una necessità. Non si tratta solo di usare qualche slide colorata o un video accattivante, ma di ripensare profondamente il modo in cui insegniamo e, soprattutto, come facilitiamo l’apprendimento. L’obiettivo? Formare persone capaci di pensiero critico, di risolvere problemi complessi e, cosa fondamentale, di continuare a imparare per tutta la vita. Mica poco, eh?
In questo scenario, due approcci mi hanno sempre affascinato: l’apprendimento attivo (AL) e l’apprendimento basato sull’indagine (IBL). Entrambi mettono lo studente al centro, trasformandolo da spettatore passivo a protagonista del proprio percorso formativo. E la cosa bella è che non sono idee campate in aria, ma affondano le radici nel pensiero di giganti come John Dewey, che già un secolo fa parlava dell’importanza dell’esperienza e della partecipazione attiva.
Apprendimento Attivo (AL) e Apprendimento Basato sull’Indagine (IBL): Di Cosa Parliamo?
Ok, entriamo un po’ più nel dettaglio, ma senza paroloni.
- L’Apprendimento Attivo, come dice il nome, è tutto ciò che spinge gli studenti a “fare” e a “pensare a quello che stanno facendo”. Non si tratta solo di ascoltare una lezione, ma di discutere, collaborare, insegnare ai propri pari, cimentarsi in attività pratiche, lavorare su progetti che simulano la realtà. L’idea è che, sporcandosi le mani (metaforicamente e a volte letteralmente!), si impara meglio e più a fondo.
- L’Apprendimento Basato sull’Indagine (IBL), invece, è un po’ come trasformare gli studenti in piccoli detective. Si parte da domande, problemi, curiosità. Gli studenti sono spinti a investigare, a cercare informazioni, a formulare ipotesi, a riflettere sui risultati e a trarre conclusioni. È un processo che stimola l’autonomia, la capacità di ricerca e, di nuovo, il pensiero critico. È un approccio più ampio del problem-based learning, offrendo maggiore flessibilità.
Entrambi, capite bene, sono perfetti per scardinare la vecchia lezione frontale e rendere l’aula un laboratorio di idee e scoperte.
La Sfida dell’Insegnamento Intensivo: Il VU Block Model® Sotto la Lente
Ora, immaginate di dover applicare questi principi in corsi super concentrati, come quelli del VU Block Model® della Victoria University, dove gli studenti affrontano una singola materia per quattro settimane. Questo modello, come altri simili nel mondo (chiamati “block courses”, “time-shortened courses”, ecc.), ha il pregio di permettere un’immersione totale, ma pone anche delle sfide. C’è meno tempo, la pressione è alta. Come si inseriscono AL e IBL in questo frullatore?
La ricerca, finora, si è concentrata molto sui risultati di questi modelli intensivi (voti, soddisfazione), ma un po’ meno sul “come” si insegna e si impara al loro interno. Ed è qui che è nata la mia curiosità e il mio studio: volevo capire come i docenti universitari, in particolare quelli del settore educativo (che di pedagogia dovrebbero intendersene!), vivono e mettono in pratica l’apprendimento attivo e quello basato sull’indagine in contesti così intensi.
Ho intervistato nove colleghi, docenti con esperienze diverse, e quello che è emerso è stato davvero illuminante. Abbiamo analizzato le loro esperienze, cercando di capire cosa funziona, cosa meno, e perché.
La Mia Indagine: Cosa Ho Scoperto sull’Apprendimento Attivo?
Partiamo dalle buone notizie: sull’apprendimento attivo, i miei colleghi si sono dimostrati dei veri campioni! Hanno raccontato di pratiche consolidate e di successo, che si possono raggruppare in alcune aree principali:
- Collaborazione e Insegnamento tra Pari: Lavori di gruppo, discussioni animate, studenti che spiegano concetti ai compagni. Un collega mi ha raccontato di come i momenti più “magici” siano quelli in cui gli studenti prendono il sopravvento, co-costruendo idee e soluzioni, allontanandosi dal docente come unica fonte di sapere. E questo, nel formato intensivo, sembra accadere più spesso, forse proprio per la “full immersion”. Mind mapping collaborativi, riflessioni condivise (tipo “tre cose che ho imparato, due domande che ho, una cosa che già sapevo”) sono strategie all’ordine del giorno.
- “Mani in Pasta”: Attività Pratiche ed Esperienziali: Qui si va dagli esperimenti scientifici (come quelli sull’olfatto per capire come riconosciamo amici e nemici!) all’uso di artefatti per stimolare la curiosità e il questioning. Un docente mi ha detto: “Per far affrontare idee complesse e astratte, devo connettere gli studenti emotivamente”. E come farlo se non attraverso l’esperienza diretta, il toccare con mano, l’esplorare? Anche l’uso di video didattici viene ripensato: invece di proiettarli e basta, si chiede agli studenti di guardarli individualmente, prendendo appunti, per poi discuterne. Una scelta che promuove responsabilità e apprendimento auto-diretto.
- Connessioni con il Mondo Reale: Progetti Autentici e Tirocini: L’apprendimento attivo brilla quando si lega a contesti reali. Pensate ai futuri insegnanti: per loro, il tirocinio è fondamentale. Ma come collegarlo all’aula? Un’idea geniale è stata quella di far creare profili di studenti reali incontrati durante il tirocinio, scambiarli in classe e poi, in gruppo, immaginare come differenziare la didattica per quel bambino specifico. Un altro esempio? Analizzare libri per bambini in una biblioteca locale per identificare quelli culturalmente inappropriati e proporre alternative. Azioni concrete, con uno scopo reale, che motivano e danno senso allo studio.

Insomma, sull’apprendimento attivo, il modello intensivo sembra offrire terreno fertile. La concentrazione temporale spinge a progettare attività coinvolgenti e partecipative, e i docenti sembrano aver colto appieno questa opportunità, in linea con la filosofia deweyana dell’imparare attraverso l’esperienza partecipativa e collaborativa.
Il “Mistero” dell’Apprendimento Basato sull’Indagine (IBL): Un Potenziale Inespresso?
E qui, amici miei, arriviamo al nodo della questione. Quando ho chiesto ai docenti dell’apprendimento basato sull’indagine, le cose si sono fatte più… nebbiose. La maggior parte di loro tendeva a ridurre l’IBL al semplice “fare domande” durante la lezione o nelle attività. Certo, porre domande è importante, è la base della curiosità, ma l’IBL è molto di più: è un processo strutturato di investigazione, raccolta e analisi di dati, riflessione critica.
Solo due colleghi su nove hanno mostrato una comprensione più profonda dell’IBL, descrivendo pratiche che andavano oltre il semplice questioning. Uno, ad esempio, ha parlato del modello e5 (Engage, Explore, Explain, Elaborate, Evaluate), usato nelle scuole vittoriane, che guida gli studenti attraverso un ciclo di indagine. Ha sottolineato come l’IBL accademico abbia dei paletti ben precisi: una domanda di fondo, la raccolta dati, l’interpretazione… ben diverso dal semplice “andiamo a osservare gli eucalipti nel parco dell’università”, che è apprendimento attivo esperienziale, ma non necessariamente un’indagine completa.
Un’altra collega, proveniente da discipline artistiche, ha descritto l’IBL come un processo ciclico di costruzione sulla conoscenza esistente, esplorazione di nuove informazioni e continua rifinitura della comprensione, partendo sempre dal punto in cui si trova lo studente. Bellissimo, no?
Perché questa difficoltà con l’IBL? Una delle ragioni potrebbe essere proprio la natura compressa dei corsi intensivi. L’IBL richiede tempo, spazio per l’esplorazione, per gli errori, per le riformulazioni. Forse, in quattro settimane, sembra un lusso che non ci si può permettere. O forse, c’è una minore familiarità con le sue metodologie più strutturate.
Perché Questa Differenza? Riflessioni e Prospettive Deweyane
L’apprendimento attivo, con le sue strategie immediate e coinvolgenti, sembra adattarsi meglio ai ritmi serrati dell’insegnamento intensivo. Come ha detto un collega, “se ci si riunisce per tre ore, si vuole essere coinvolti, si vuole che le persone siano in gruppo a parlare”. Il flipped classroom, dove i contenuti si assimilano prima e il tempo in aula è dedicato all’applicazione, facilita enormemente questo approccio.
L’IBL, d’altro canto, richiede una progettazione più complessa a livello di corso, risorse adeguate e docenti che si sentano a proprio agio nel ruolo di facilitatori più che di trasmettitori di sapere. Le barriere sono simili a quelle riscontrate nelle scuole: poca formazione specifica, percezione di mancanza di tempo, necessità di molte risorse. E diciamocelo, passare da “insegnante al centro” a “studente che indaga” può mettere a disagio qualche accademico.
Forse, in contesti intensivi, l’apprendimento attivo è già un ottimo traguardo, un modo pratico ed efficace per rispondere ai bisogni immediati degli studenti. Tuttavia, il potenziale dell’IBL per coltivare una mentalità curiosa, di ricerca continua e apprendimento permanente, così cara a Dewey, meriterebbe più attenzione.

Le parole dei docenti che hanno parlato di “co-costruzione della conoscenza”, di “ruolo del questioning” e di pratiche riflessive come “attingere a cose che sono successe” e “connettere ciclicamente ciò che imparerai e ciò che sai”, mostrano che i semi dell’IBL ci sono. Si tratta di coltivarli.
E Adesso? La Strada Verso un’Innovazione Pedagogica Consapevole
Certo, il mio studio ha dei limiti. Si basa su interviste, quindi sulle percezioni dei docenti, non su osservazioni dirette in aula. E mi sono concentrato su docenti di area educativa. Sarebbe bello ampliare lo sguardo.
Ma una cosa mi sembra chiara: c’è un grande bisogno di formazione continua per noi docenti universitari. Spazi dedicati dove esplorare questi principi pedagogici, osservare le pratiche dei colleghi, sperimentare. Creare delle vere e proprie comunità di apprendimento tra educatori, dove negoziare collettivamente valori, credenze e background professionali, per far evolvere le nostre pratiche didattiche. Facilitare l’IBL richiede un approccio quasi da ricerca-azione, e per questo serve supporto.
Dobbiamo chiederci: la limitata percezione dell’uso dell’IBL deriva dalla struttura intensiva del corso, dalla limitata conoscenza dei suoi principi da parte dei docenti, o dalla riduzione dell’IBL a pratiche superficiali come l’inserimento di domande negli esercizi in classe? Forse, come dicevo, l’apprendimento attivo può anche fungere da approccio pratico e sufficiente per soddisfare le immediate esigenze di apprendimento degli studenti in contesti di insegnamento intensivo.
La conclusione a cui sono giunto è che, mentre l’apprendimento attivo sembra prosperare, anche grazie alla struttura del VU Block Model®, l’integrazione dell’IBL è meno frequente e più problematica. Questo non significa gettare la spugna, anzi! Significa che dobbiamo lavorare per supportare i docenti, fornire loro gli strumenti teorici e pratici per incorporare pratiche di indagine più profonde, sia nei corsi intensivi che in quelli tradizionali. Perché l’innovazione pedagogica non è un traguardo, ma un viaggio continuo, un dialogo costante tra teoria, pratica e riflessione. E io, da parte mia, non vedo l’ora di continuare a esplorare!
Fonte: Springer
