Orecchio Assoluto per il Ritmo? Come Cantanti Jazz e Classici Sentono il Tempo Diversamente
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi affascina da sempre: come il nostro cervello, e in particolare quello dei musicisti, percepisce il tempo nella musica e persino nel parlato. Non parlo solo del battere il piede a tempo, ma di quelle sfumature infinitesimali, quel “microritmo” che fa la differenza tra un’esecuzione meccanica e una piena di vita. E se vi dicessi che essere un cantante jazz o uno classico cambia radicalmente il modo in cui si “sente” questo microritmo? Sembra incredibile, vero? Eppure, la scienza ci sta dando delle risposte sorprendenti.
Il Mistero del P-center: Il Cuore Pulsante del Ritmo
Avete mai provato a battere le mani a tempo con una canzone? Istintivamente, non mirate all’inizio esatto del suono della batteria, ma a un punto leggermente successivo, quello che percepite come il “centro” ritmico di quel suono. Ecco, in termini scientifici, questo è il P-center (Perceptual Center, o centro percettivo). È il momento esatto in cui il nostro cervello colloca un suono all’interno di una sequenza ritmica.
Non è un punto fisso, però. Immaginatelo più come una “finestra temporale”, che gli scienziati chiamano “beat bin”. La precisione con cui individuiamo questo P-center (quanto è stretta questa finestra) e la sua posizione esatta possono variare. E qui entra in gioco l’esperienza.
Sappiamo da tempo che i musicisti sono generalmente più bravi dei non musicisti a percepire e riprodurre ritmi. Ma cosa succede *tra* musicisti con background diversi? Studi precedenti, come uno affascinante condotto da Danielsen e colleghi nel 2022, hanno mostrato differenze significative tra musicisti jazz, produttori di musica elettronica (EDM) e musicisti folk norvegesi nel percepire il P-center di suoni specifici del loro genere e anche di suoni di controllo. Sembra proprio che l’allenamento specifico per un genere musicale plasmi l’orecchio in modi unici.
Cantanti Jazz vs. Classici: Due Modi di Sentire la Voce (e non solo)
Questo mi ha portato a chiedermi: e i cantanti? Loro usano lo strumento più intimo e personale, la voce. Ma anche qui, le differenze tra generi sono enormi. Pensate a un cantante lirico e a un cantante jazz:
- Attacco del suono: Il cantante classico è allenato per un attacco morbido, un suono legato (legato) che enfatizza la melodia. Il cantante jazz, invece, usa spesso attacchi più netti, quasi percussivi, per dialogare ritmicamente con la band.
- Vibrato: Anche l’uso del vibrato è sistematicamente diverso.
- Qualità vocale: Tecniche come il “belting” (portare il registro di petto a note alte), comune nel pop e nel jazz, sono diverse dal “bel canto” lirico.
- Estetica: Il jazz valorizza la qualità quasi parlata e l’articolazione ritmica, mentre la lirica punta sulla fluidità della linea melodica.
Queste differenze, frutto di anni di allenamento specifico, potrebbero influenzare non solo come cantano, ma anche come *percepiscono* i suoni, anche quelli vocali altrui? È proprio quello che un nuovo studio ha cercato di scoprire.
Esperimento 1: Canto Sotto la Lente d’Ingrandimento
Immaginatevi la scena: abbiamo preso un gruppo di cantanti donne esperte, metà formate nel jazz e metà nella lirica. Le abbiamo messe davanti a un computer con delle cuffie e abbiamo fatto loro ascoltare delle sillabe cantate (“a”, “e”, “ma”, “me”), alcune prodotte da cantanti jazz, altre da cantanti liriche, più alcuni suoni di controllo (rumore filtrato con attacco netto o morbido, un click, un suono di violino folk).
Il loro compito? In un caso, dovevano sincronizzare un click che potevano spostare avanti e indietro nel tempo finché non sentivano che fosse perfettamente “sul beat” della sillaba ripetuta. Nell’altro caso, dovevano battere il tempo con delle claves (legnetti percussivi). Misuravamo due cose: la posizione media del click o del battito rispetto all’inizio del suono (il P-center) e quanto variavano le loro risposte (l’ampiezza del beat bin).
Le ipotesi erano abbastanza chiare:
- Ci aspettavamo che i suoni con attacco morbido dessero P-center più tardivi e più variabili (cosa già nota).
- Pensavamo che, con i suoni di controllo generici, non ci sarebbero state grandi differenze tra i due gruppi.
- Ma con le sillabe cantate… ah, lì ci aspettavamo il bello! Ipotizzavamo che le cantanti jazz avrebbero posizionato il P-center prima e con meno variabilità rispetto alle colleghe liriche, riflettendo la loro enfasi sull’attacco e la precisione ritmica.
- Inoltre, ci aspettavamo che le sillabe cantate dalle liriche (con attacco più morbido) avrebbero generato P-center più tardivi e variabili per tutti.
I Risultati? Sorprendenti e Complessi!
In gran parte, le ipotesi sono state confermate. Con i suoni di controllo, l’effetto dell’attacco morbido/netto c’era, come previsto. C’era anche una piccola differenza nella variabilità nel compito di tapping (le liriche erano leggermente più variabili), ma non nella posizione del P-center.
Ma è con le sillabe cantate che le cose si sono fatte interessanti. Nel compito di allineamento del click (quello più “percettivo”), le cantanti liriche hanno effettivamente posizionato il P-center in media 17 millisecondi più tardi rispetto alle jazziste! Una differenza piccola ma significativa. Anche la variabilità tendeva ad essere maggiore per le liriche, soprattutto nel compito di tapping. E sì, le sillabe cantate dalle liriche hanno prodotto P-center più tardivi e variabili per tutti.
Un caso particolarmente intrigante è stato quello della sillaba “A” cantata dalla jazzista. Questo suono aveva un attacco iniziale rapido ma anche un secondo picco di intensità più avanti. Ebbene, le risposte dei partecipanti si sono divise! Molti hanno messo il P-center vicino al primo picco, ma altri vicino al secondo. La cosa affascinante? La maggior parte delle jazziste (78%) ha scelto il primo picco (più “sul beat”), mentre le liriche si sono divise quasi a metà tra i due picchi. E anche all’interno di ciascun picco, le jazziste erano leggermente più anticipate. Questo suggerisce che non solo c’è una tendenza generale diversa, ma anche che i suoni complessi offrono diverse “possibilità” ritmiche, interpretate diversamente a seconda del background.
Esperimento 2: E Se Invece di Cantare… Parliamo?
Ok, l’esperienza nel canto influenza la percezione del canto. Ma questa influenza è così radicata da estendersi anche al parlato? Dopotutto, parliamo tutti i giorni, non dovrebbe essere un’abilità “neutra”?
Per scoprirlo, abbiamo fatto un secondo esperimento. Stessi gruppi di cantanti (jazz e liriche), ma questa volta abbiamo presentato loro:
- Alcune delle sillabe cantate dell’esperimento 1.
- Le stesse sillabe (“A”, “E”) ma parlate dalle stesse cantanti jazz e liriche.
- Le stesse sillabe parlate da una donna senza alcuna formazione canora (controllo “neutro”).
Il compito era solo quello di allineare il click. L’ipotesi? Che le differenze tra i gruppi si sarebbero viste solo con le sillabe cantate, ma non con quelle parlate. Ci sembrava logico: nel parlato, l’expertise musicale non dovrebbe entrare in gioco, no?
Colpo di Scena: L’Orecchio Musicale Sente Anche il Parlato!
E invece no! Con nostra grande sorpresa, le differenze tra i due gruppi di cantanti sono rimaste evidenti anche con le sillabe parlate. Le cantanti liriche continuavano a posizionare il P-center mediamente 22 ms più tardi e con maggiore variabilità rispetto alle jazziste, indipendentemente dal fatto che la sillaba fosse cantata, parlata da una cantante o parlata da una non cantante!
Come è possibile? L’ipotesi più probabile è che il compito stesso, anche se usava sillabe parlate, era intrinsecamente “musicale”. Ascoltare un suono che si ripete ritmicamente e dover sincronizzare un click è un’attività che, per un musicista esperto, attiva automaticamente le “modalità musicali” del cervello, comprese quelle affinate da anni di pratica specifica del proprio genere. Anche un semplice “A” parlato, se ripetuto a tempo, diventa una sorta di cellula ritmica che il loro cervello analizza con gli strumenti che conosce meglio.
Perché Sentiamo Diversamente? Il Cervello che Anticipa
Questi risultati ci dicono qualcosa di profondo su come funziona la nostra percezione e come l’esperienza la modella. Non siamo ascoltatori passivi. Il nostro cervello usa costantemente modelli interni, basati sull’esperienza passata, per anticipare e interpretare ciò che sentiamo.
Nel caso dei musicisti, questi modelli sono incredibilmente raffinati e specifici. Anni passati a produrre certi tipi di attacchi vocali, a sentire certi tipi di groove, a sincronizzarsi con altri musicisti in un certo stile, creano dei “modelli motori” nel cervello. Quando ascoltano un suono, soprattutto in un contesto ritmico, questi modelli si attivano e influenzano come quel suono viene percepito. È come se il cervello dicesse: “Ah, questo suono assomiglia a qualcosa che produco io in questo modo, quindi il suo ‘centro’ ritmico dev’essere qui”.
Questo spiegherebbe perché le differenze persistono anche nel parlato (nel contesto ritmico dell’esperimento) ma non con suoni di controllo totalmente artificiali o non legati alla voce. Le sillabe parlate, pur non essendo cantate, sono comunque prodotte dall’apparato vocale, attivando quei modelli specifici legati alla voce che le cantanti hanno sviluppato.
Si parla di ascoltare “to” (verso) i suoni, concentrandosi sulle loro qualità acustiche, e ascoltare “through” (attraverso) i suoni, percependo le azioni che li hanno prodotti. Sembra che i musicisti esperti, in un compito di sincronizzazione, facciano entrambe le cose contemporaneamente, e il loro allenamento specifico influenzi potentemente questo ascolto “attraverso”.
Conclusioni: Un Orecchio Allenato Sente un Mondo Diverso
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che l’expertise musicale, quella vera, profonda, non è solo saper suonare o cantare bene. È qualcosa che cambia letteralmente il modo in cui il cervello processa i suoni, anche a livelli che potremmo considerare “di base” come la percezione del microritmo.
Le differenze tra cantanti jazz e classiche non sono solo una questione di stile o estetica, ma affondano le radici in una diversa “calibrazione” percettiva, forgiata da migliaia di ore di pratica mirata. Il contesto del compito è fondamentale: un compito che richiama anche vagamente la musicalità (come la sincronizzazione ritmica) basta ad attivare queste differenze profonde.
Questo apre scenari affascinanti per la ricerca futura. Cosa succederebbe a velocità molto elevate? Le differenze scomparirebbero? E se confrontassimo pianisti jazz e classici, o violinisti? L’influenza dello strumento si sommerebbe a quella del genere? E si potrebbe creare un compito percettivo totalmente non musicale per vedere se, in quel caso, le differenze tra cantanti svaniscono?
Una cosa è certa: il modo in cui percepiamo il mondo, e in particolare il mondo dei suoni, non è fisso, ma è plasmato in modo incredibilmente sottile e potente da ciò che facciamo e da come ci alleniamo. L’orecchio di un musicista non è solo più sensibile, è un orecchio *diverso*. E questo, per me, rende la musica e la mente umana ancora più misteriose e meravigliose.
Fonte: Springer