Dipendenze: L’Impatto Nascosto su Chi Si Prende Cura, Tra Qualità della Vita e Carico Emotivo
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ diverso, un viaggio nel mondo spesso silenzioso di chi si prende cura. Quando pensiamo alla dipendenza da sostanze, la nostra mente va subito a chi ne soffre direttamente. Giusto, sacrosanto. Ma ci siamo mai chiesti cosa succede a chi sta loro accanto? Ai genitori, ai partner, ai figli, agli amici… a quelli che chiamiamo caregiver?
Ecco, queste persone svolgono un ruolo fondamentale. Sono lì, nel bene e nel male, cercando di supportare il percorso di recupero, l’aderenza alle terapie, combattendo le ricadute. Il loro supporto può davvero fare la differenza per il benessere di chi lotta contro una dipendenza. Però, diciamocelo, questo ruolo ha un prezzo, spesso altissimo, sulla loro stessa salute fisica ed emotiva.
L’altra faccia della medaglia: il peso sui caregiver
Immaginatevi la scena: ansia costante, scatti di rabbia improvvisi, paura del giudizio sociale, imbarazzo. Aggiungeteci le difficoltà economiche, che non sono rare quando c’è di mezzo una dipendenza, e che possono destabilizzare un’intera famiglia. Pensate all’impatto sui coniugi, sui figli… è un fardello pesante. E la dipendenza, spesso, è una malattia cronica, con alti e bassi, ricadute. Tutto questo logora, giorno dopo giorno, la qualità della vita di chi assiste.
A volte, questo peso porta i caregiver ad avere atteggiamenti negativi che, involontariamente, possono persino ostacolare il percorso terapeutico. Per questo motivo, capire come sta il caregiver, misurare la sua qualità della vita, è diventato un indicatore importante anche per capire come potrebbe andare il percorso di recupero della persona assistita. La qualità della vita, come la definisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è la percezione che ognuno ha del proprio posto nel mondo, influenzata da cultura, valori, obiettivi, aspettative. Tocca la sfera economica, sociale, lavorativa, la salute… insomma, tutto.
Uno sguardo sull’Egitto: cosa ci dice la ricerca?
Nonostante l’importanza del tema, l’impatto specifico dei diversi pattern di uso di sostanze sulla qualità della vita e sul benessere psicologico dei caregiver non è stato esplorato a fondo, specialmente in contesti come l’Egitto, dove la prevalenza delle dipendenze è in aumento (si parla di cifre tra il 7.25% e il 14.5%). C’è differenza se il proprio caro è ricoverato o seguito in ambulatorio?
Proprio per rispondere a queste domande è stato condotto uno studio interessante, uno studio trasversale comparativo presso l’unità dipendenze dell’Istituto di Psichiatria Okasha dell’Università Ain Shams, in Egitto. L’obiettivo? Indagare la qualità della vita dei caregiver di persone con disturbo da uso di sostanze, confrontando chi assiste pazienti ricoverati (inpatient) con chi assiste pazienti seguiti ambulatorialmente (outpatient). E non solo: si è cercato di capire se e come la qualità della vita, l’umore e il carico del caregiver fossero correlati al tipo di sostanza usata, alla gravità della dipendenza e ad altri fattori socio-demografici.
Lo studio ha coinvolto 126 caregiver, divisi equamente tra gruppo inpatient e outpatient, tra luglio 2023 e gennaio 2024. I caregiver erano uomini e donne tra i 18 e i 65 anni, egiziani, che si occupavano direttamente della persona con dipendenza. Sono stati esclusi caregiver con proprie patologie mediche croniche o disturbi psichiatrici maggiori, o che si occupavano di altri familiari con malattie croniche.
Ai pazienti è stata diagnosticata la dipendenza e valutata la sua gravità (usando strumenti come SCID I e ASI). Ai caregiver sono stati somministrati questionari specifici per valutare:
- La qualità della vita (QOL questionnaire) nelle sue varie dimensioni (fisica, psicologica, sociale, ambientale).
- Il carico assistenziale (Zarit Burden Interview – ZBI).
- La presenza di sintomi depressivi (Beck Depression Inventory – BDI).
- Il disagio psicologico generale (General Health Questionnaire – GHQ).
Tutto, ovviamente, nel pieno rispetto etico e con consenso informato.
Chi sono i protagonisti di questa storia?
Diamo un’occhiata ai pazienti: età media intorno ai 33 anni, prevalentemente uomini (quasi 9 su 10), single (quasi la metà), con un buon livello di istruzione (più della metà laureati) ma, ahimè, spesso disoccupati (oltre il 50%). Questo dato fa riflettere: la dipendenza può compromettere la carriera lavorativa indipendentemente dal titolo di studio. La sostanza più usata? Gli oppioidi (quasi la metà dei casi), seguiti dagli stimolanti, un dato che riflette un trend recente. Il poliabuso (uso di più sostanze) era comune (circa 1 su 3), soprattutto tra i pazienti ambulatoriali, mentre la storia di overdose era più frequente tra i ricoverati (quasi 1 su 3). L’età media del primo contatto con le sostanze? Bassissima, intorno ai 17 anni.
E i caregiver? Età media 44 anni, in maggioranza donne (quasi 2 su 3), sposate (quasi 3 su 4) e principalmente genitori (quasi la metà). Un dato significativo: quasi due terzi dei caregiver hanno riportato un peggioramento della propria situazione socioeconomica a causa della dipendenza del familiare. Il ruolo di cura ricade spesso sulle donne, forse per un maggior senso di responsabilità o sacrificio familiare radicato culturalmente.
Qualità della vita, carico e umore: i risultati chiave
Cosa è emerso dalle risposte dei caregiver? Preparatevi, perché i risultati sono toccanti.
La stragrande maggioranza ha espresso insoddisfazione per la propria vita negli ambiti fisico, psicologico e sociale. La maggior parte riportava una qualità della vita generalmente scarsa. E qui emerge una differenza importante: i caregiver dei pazienti ricoverati stavano peggio, con punteggi significativamente più bassi negli ambiti sociale e ambientale, nella qualità del sonno e nella soddisfazione generale. Questo suggerisce che una dipendenza più grave, che richiede ricovero, ha un impatto ancora più devastante su chi assiste.
Il carico? Pesante. Un terzo dei caregiver soffriva di un carico da moderato a severo. Anche se leggermente più alto nel gruppo inpatient, la differenza tra i due gruppi non era statisticamente significativa su questo specifico aspetto.
Dal punto di vista psicologico, la situazione non è rosea. Oltre il 60% dei caregiver mostrava disagio psicologico (misurato con il GHQ), senza differenze significative tra i due gruppi. Ma attenzione: la maggior parte soffriva di sintomi depressivi moderati (misurati con il BDI), e qui la differenza c’era eccome! I caregiver dei pazienti ricoverati avevano punteggi significativamente più alti, indicando una maggiore gravità dei sintomi depressivi.
Non tutte le dipendenze pesano allo stesso modo
Lo studio ha anche cercato di capire se il tipo di sostanza usata dal paziente influenzasse diversamente il caregiver. Ebbene sì.
- Stimolanti: I caregiver di persone che usano stimolanti sembrano essere quelli messi peggio. Hanno riportato la qualità della vita più bassa (anche se non statisticamente significativa rispetto agli altri gruppi) e, soprattutto, il carico più severo (quasi la metà di loro lo definiva “severo”), con una differenza statisticamente significativa rispetto ai caregiver di chi usa oppioidi, cannabinoidi, sedativi o alcol. Perché? Forse perché l’uso di stimolanti può portare a comportamenti più aggressivi, imprevedibili, persino a sintomi psicotici, rendendo la gestione ancora più difficile e stressante.
- Alcol: I sintomi depressivi più gravi, invece, sembravano più presenti (anche se non in modo statisticamente significativo) tra i caregiver di persone con dipendenza da alcol. Questo potrebbe essere legato al fatto che l’alcolismo è spesso associato a depressione nel paziente stesso, e questo malessere si riflette su chi gli sta accanto.
Cosa lega tutto insieme? I fattori predittivi
Ma quali fattori specifici del paziente o della situazione sembrano predire una peggiore qualità della vita e un maggior carico per il caregiver? Lo studio ha identificato alcune correlazioni negative significative:
- Storia di overdose del paziente: Un evento così traumatico e potenzialmente fatale ha un impatto devastante sul caregiver.
- Età di inizio dell’uso di sostanze: Più giovane è la persona quando inizia, peggiore tende ad essere la qualità della vita del caregiver. Questo ha senso: un inizio precoce spesso significa un decorso più lungo e più grave della dipendenza.
- Peggioramento dello status socioeconomico: Il peso economico della dipendenza (costi delle sostanze, delle cure, perdita del lavoro) grava pesantemente sulle spalle dei familiari.
- Problemi familiari legati alla dipendenza: Un clima familiare teso e conflittuale, esacerbato dalla dipendenza, contribuisce al malessere del caregiver.
Questi fattori possono essere visti come campanelli d’allarme, indicatori che ci dicono quando un caregiver potrebbe essere particolarmente a rischio e bisognoso di supporto.
Conclusioni: Non lasciamoli soli
Insomma, questo studio egiziano ci conferma quello che forse già sospettavamo: la dipendenza da sostanze getta un’ombra lunga e pesante non solo su chi ne soffre, ma anche su chi si prodiga per stargli accanto. La qualità della vita dei caregiver è seriamente compromessa, il carico emotivo e pratico è enorme, e il rischio di sviluppare sintomi depressivi è concreto, specialmente quando la situazione è così grave da richiedere un ricovero o quando sono coinvolti stimolanti.
Certo, lo studio ha i suoi limiti: campione relativamente piccolo, contesto ospedaliero che potrebbe non rappresentare tutta la popolazione, disegno trasversale che non stabilisce cause ed effetti. Ma i segnali sono chiari. È fondamentale riconoscere il ruolo e le difficoltà dei caregiver. Hanno bisogno di supporto psicologico, sociale ed economico. Intervenire per aiutarli non significa solo migliorare la loro vita, ma può anche avere un impatto positivo sul percorso di recupero della persona che assistono.
Ricordiamoci di loro, di questi eroi silenziosi che combattono una battaglia quotidiana nell’ombra.
Fonte: Springer