Ghiaccio Marino: Spugna o Filtro per l’Inquinamento? La Scienza Svela i Segreti dell’Intrappolamento
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio affascinante, quasi da detective, nel cuore freddo del nostro pianeta: il ghiaccio marino. Sì, proprio quelle immense distese bianche che immaginiamo pure e incontaminate. Ma lo sono davvero? Purtroppo, anche gli angoli più remoti della Terra, come l’Oceano Artico, non sono immuni dall’impronta umana, e questo include un bel po’ di contaminanti.
Mi sono sempre chiesto: ma come fanno queste sostanze, a volte microscopiche, a finire intrappolate nel ghiaccio? E una volta lì, che succede? È una domanda cruciale, perché il ghiaccio marino non è statico: si muove, si scioglie, e così facendo può trasportare questi “ospiti indesiderati” per migliaia di chilometri, rilasciandoli poi chissà dove. Immaginate le conseguenze per gli organismi che vivono in quegli ecosistemi polari così delicati!
Perché è così importante capire questo meccanismo?
Vedete, il ghiaccio marino agisce un po’ come un taxi per i contaminanti. Li accumula e poi li redistribuisce. Pensate alle microplastiche (quelle famigerate particelle tra 1 micrometro e 5 millimetri): studi hanno rivelato che le loro concentrazioni nel ghiaccio marino possono essere ordini di grandezza superiori rispetto all’acqua di mare sottostante! Questo fa del ghiaccio un serbatoio temporaneo, ma significativo. Con i cambiamenti climatici, poi, stiamo assistendo a una sostituzione del ghiaccio pluriennale (quello vecchio e spesso) con ghiaccio del primo anno, più giovane e sottile. Questo significa che ogni anno si congela un volume enorme di acqua di mare, e capire come i contaminanti vengono “catturati” in questo processo è fondamentale.
Inoltre, la base della catena alimentare polare, le microalghe, prosperano proprio nello strato inferiore del ghiaccio marino. È un ambiente unico, con una porosità che crea sacche di salamoia e canali, luce solare e nutrienti. Se i contaminanti si concentrano lì, l’esposizione per questi organismi, e di conseguenza per chi se ne nutre, può essere molto alta.
La sfida degli studi sul campo e la nostra soluzione “in provetta”
Studiare questi processi direttamente nell’Artico è un’impresa titanica. Spesso non conosciamo le concentrazioni iniziali dei contaminanti nell’acqua, né le condizioni precise in cui il ghiaccio si è formato. E quantificare alcune sostanze, come le microplastiche più piccole o le nanoplastiche, è tecnicamente complesso e richiede tempo. Insomma, un bel rompicapo.
Per questo, con il mio team, abbiamo deciso di ricreare l’Artico… in laboratorio! Abbiamo sviluppato un metodo sperimentale che imita la formazione del giovane ghiaccio marino, quello che si forma dal basso verso l’alto, chiamato “ghiaccio colonnare”. Questo ci ha permesso di controllare le condizioni e di quantificare con precisione come diversi tipi di “contaminanti modello” si distribuiscono tra la matrice di ghiaccio solida e la salamoia (l’acqua molto salata intrappolata nel ghiaccio).
La nostra ipotesi? Che la dimensione e, nel caso delle particelle, la densità dei contaminanti fossero i fattori chiave. Ci aspettavamo che le specie colloidali (quelle particelle piccolissime, tra 1 nanometro e 1 micrometro) si comportassero come i sali disciolti, diffondendo lontano dal fronte di congelamento. Per le particelle più grandi, invece, pensavamo che quelle a bassa densità sarebbero state “arricchite” nel ghiaccio (galleggiando verso il fronte di congelamento) e quelle ad alta densità “impoverite” (affondando).
Come abbiamo costruito il nostro “mini-Artico”
Abbiamo usato delle colonne speciali, riempite con acqua di mare artificiale a cui avevamo aggiunto i nostri contaminanti modello. Poi, abbiamo indotto il congelamento in modo controllato, creando un gradiente di temperatura. Alla fine dell’esperimento, che durava circa 19 ore, avevamo dei bei cilindri di ghiaccio, spessi in media 3,3 cm. Questi “carotaggi” di ghiaccio venivano poi recuperati e centrifugati per separare la salamoia liquida dalla matrice di ghiaccio solida.

Una cosa fondamentale era generare un ghiaccio che fosse il più simile possibile a quello naturale. E ci siamo riusciti! La salinità del nostro ghiaccio, la sua porosità e la struttura (analizzata con una tecnica fichissima chiamata microtomografia computerizzata a raggi X, o µ-CT) erano molto simili a quelle del giovane ghiaccio marino colonnare che si trova in natura. La µ-CT ci ha mostrato un mondo interno fatto di ghiaccio trasparente, grandi canali di salamoia (dove la salamoia era stata drenata) e canali più piccoli con salamoia ancora intrappolata.
I risultati: chi viene intrappolato e come?
E qui viene il bello! Abbiamo testato diverse “categorie” di contaminanti:
- Una molecola disciolta (il Rose Bengal, un colorante).
- Due tipi di colloidi: nanoplastiche (NP) e nano-fuliggine (nanosoot).
- Quattro tipi di microplastiche (MP): due densità (PET, più denso dell’acqua, e PP, meno denso) e due dimensioni per ciascuna densità (piccole e grandi).
Come previsto, i contaminanti si sono comportati in modi molto diversi!
Contaminanti disciolti e colloidali dispersi: seguono i sali!
Il Rose Bengal (disciolto) e le nanoplastiche (colloidali) si sono comportati in modo molto simile ai sali marini. Durante il congelamento, vengono in gran parte espulsi dalla matrice di ghiaccio solida e si concentrano nella salamoia. Questo processo è noto come “segregazione salina”. Quindi, se un organismo vive nella salamoia, sarà esposto a concentrazioni più elevate di queste sostanze.
Quando i colloidi si aggregano: cambiano squadra!
La nano-fuliggine, pur essendo un colloide, ha mostrato un comportamento un po’ diverso. Abbiamo scoperto che, nel corso dell’esperimento, sia le nanoplastiche che la nano-fuliggine tendevano ad aggregarsi, formando particelle più grandi. E quando i colloidi si aggregano, iniziano a comportarsi più come particelle vere e proprie, in particolare come quelle ad alta densità. Questo è un punto chiave: lo stato di aggregazione è fondamentale!
Particelle (Microplastiche): una questione di peso e misura!
Qui la densità ha giocato da padrona:
- Le MP ad alta densità (PET) sono state significativamente impoverite nel ghiaccio totale rispetto alla loro concentrazione iniziale nell’acqua. In pratica, tendono ad affondare e a essere “scansate” dal fronte di congelamento. Questo effetto era più marcato per le particelle di PET più grandi.
- Le MP a bassa densità (PP), al contrario, sono state arricchite nel ghiaccio, specialmente nello strato superiore. Tendono a galleggiare e quindi vengono più facilmente inglobate dal ghiaccio in formazione. Anche qui, le particelle di PP più grandi mostravano un arricchimento maggiore.
È interessante notare che, indipendentemente dalla loro densità, una volta inglobate, entrambe le tipologie di particelle possono viaggiare all’interno dei larghi canali di salamoia presenti nel ghiaccio.
Cosa succede esattamente al fronte di congelamento?
Analizzando il rapporto tra le concentrazioni nella salamoia e nella matrice di ghiaccio (Csalamoia/Cghiaccio), abbiamo avuto conferme importanti. I sali marini erano i più accumulati nella salamoia, seguiti dal Rose Bengal e dalle nanoplastiche. Questo suggerisce che le specie disciolte e i colloidi dispersi vengono effettivamente espulsi dal ghiaccio solido e si concentrano nella salamoia liquida. Sembra esserci una relazione con il coefficiente di diffusione idrodinamica: più è basso (molecole più grandi), minore è l’arricchimento nella salamoia.
Per le microplastiche, è emerso che quelle più piccole erano più impoverite nella salamoia, probabilmente perché riuscivano a muoversi attraverso i canali senza rimanere fisicamente intrappolate, a differenza di quelle più grandi.

Limiti e prospettive future
Ovviamente, il nostro è uno studio di laboratorio, e semplifica la complessità dei processi ambientali. Ad esempio, non abbiamo potuto replicare le correnti sottomarine. Tuttavia, il ghiaccio che abbiamo prodotto è molto rappresentativo di quello colonnare, che è il tipo più comune nell’Artico.
Un altro aspetto è che il nostro metodo di campionamento del ghiaccio e della salamoia (tramite centrifugazione) potrebbe sottostimare il contenuto totale di salamoia, poiché alcune sacche potrebbero non essere drenate. In futuro, sarebbe fantastico poter integrare misurazioni in-situ per osservare l’aggregazione dei colloidi e l’adesione delle particelle al ghiaccio in tempo reale.
Perché tutto questo ci interessa?
Beh, i nostri risultati ci aiutano a fare previsioni migliori su come i diversi tipi di contaminanti vengono incorporati nel ghiaccio marino e, di conseguenza, su quali livelli di esposizione possono aspettarsi gli organismi che ci vivono. Ad esempio, gli esseri viventi che abitano la porosità del ghiaccio saranno probabilmente molto esposti a contaminanti disciolti e colloidali dispersi.
Le microplastiche a bassa densità, pur arricchendosi nel ghiaccio, potrebbero essere disponibili solo temporaneamente per gli organismi, poiché tendono a risalire attraverso i canali di salamoia e a concentrarsi nella parte superiore del ghiaccio, che è meno porosa.
Queste scoperte non riguardano solo i contaminanti di origine antropica! I meccanismi che abbiamo svelato, legati a dimensione e densità, sono applicabili anche a specie naturali. Pensate al ferro, un elemento essenziale: il ghiaccio marino potrebbe essere un ambiente ideale per l’aggregazione di colloidi di ferro o addirittura per l’auto-assemblaggio di specie disciolte in colloidi, a causa dell’alta concentrazione di sali e particelle nella salamoia.
Insomma, capire come funziona l’incorporazione dei contaminanti nel ghiaccio marino è un tassello fondamentale non solo per comprendere il destino dell’inquinamento, ma più in generale la biogeochimica di questi ambienti estremi, soprattutto in un’epoca di rapidi cambiamenti climatici. Spero che questo piccolo tuffo nel mondo del ghiaccio e dei suoi “passeggeri” vi abbia incuriosito almeno quanto ha affascinato me durante questa ricerca!
Fonte: Springer
