Immunoterapia e Glioblastoma: Svelato Perché Alcuni Pazienti Rispondono Meglio!
Ragazzi, parliamoci chiaro: il glioblastoma (GBM) è una di quelle diagnosi che ti gela il sangue. È il tumore cerebrale maligno più comune negli adulti e, nonostante tutti gli sforzi, la prognosi rimane spesso desolante, con una sopravvivenza media che si aggira tristemente intorno ai 14-16 mesi anche con le terapie più moderne. Chirurgia, radioterapia, chemioterapia… spesso non basta. La recidiva è quasi una certezza.
Negli ultimi anni, però, una parola ha iniziato a circolare con insistenza portando un barlume di speranza: immunoterapia. L’idea è affascinante: usare il nostro stesso sistema immunitario per combattere il cancro. In particolare, si è puntato molto sugli inibitori dei checkpoint immunitari, molecole come PD-1 e PD-L1 che i tumori usano furbescamente per “spegnere” le nostre difese. Il problema? Finora, nel glioblastoma, questi farmaci non hanno dato i risultati sperati, tranne in casi molto specifici. Ci siamo chiesti: perché? Cosa rende alcuni tumori (e alcuni pazienti) più “visibili” e attaccabili dal sistema immunitario, mentre altri rimangono nascosti?
Ecco perché ci siamo tuffati in uno studio clinico prospettico di fase I/II (NCT03174197), un’avventura scientifica per cercare di capirci qualcosa di più. L’obiettivo era duplice:
- Valutare la sicurezza e l’efficacia di un farmaco immunoterapico, l’atezolizumab (un anti-PD-L1), dato insieme alla terapia standard (radioterapia e chemioterapia con temozolomide, o TMZ) in pazienti con nuova diagnosi di glioblastoma.
- Andare a caccia di “indizi” pre-trattamento – caratteristiche genetiche, immunitarie e persino del microbioma intestinale – che potessero spiegare perché alcuni pazienti rispondevano meglio di altri.
Abbiamo arruolato 60 pazienti coraggiosi, pronti a sperimentare questa nuova combinazione.
I Risultati sulla Sopravvivenza: Un Quadro Complesso
Prima di tutto, la sicurezza: la combinazione di atezolizumab con radio e chemio si è dimostrata generalmente ben tollerata, senza nuove tossicità inaspettate. Certo, ci sono stati effetti collaterali, come è normale in queste terapie intensive, ma gestibili nella maggior parte dei casi.
E l’efficacia? La sopravvivenza globale mediana (mOS) per tutti i 60 pazienti è stata di 18.0 mesi. Se consideriamo solo i pazienti con la forma più comune, quella senza mutazione del gene IDH1 (IDH1 wild-type), la mOS è stata di 16.1 mesi. Questi numeri sono, in linea generale, simili a quelli visti in altri studi con la sola terapia standard. Non la rivoluzione che tutti sognavamo, forse, ma nemmeno un buco nell’acqua.
Interessante notare, come spesso accade nel GBM, che i pazienti con il gene MGMT metilato (un noto fattore prognostico positivo) hanno avuto una sopravvivenza significativamente migliore (mOS 25.4 mesi) rispetto a quelli con MGMT non metilato (mOS 14.6 mesi). Questo conferma l’importanza di questo marcatore, ma non spiega ancora le differenze individuali all’interno di questi gruppi. La vera domanda rimaneva: c’è un sottogruppo di pazienti che ha beneficiato *specificamente* dell’aggiunta dell’immunoterapia? Per rispondere, dovevamo scavare più a fondo.
Scavando nel Tumore: Mutazioni Genetiche e Profilo Immunitario
Qui inizia la parte più intrigante. Abbiamo analizzato il DNA e l’RNA dei tumori prelevati prima dell’inizio della terapia. Cosa abbiamo scoperto?

Mutazioni Chiave: Analizzando le mutazioni genetiche, abbiamo notato che i tumori si dividevano quasi naturalmente in due gruppi principali basati sul profilo mutazionale globale:
- Un gruppo caratterizzato da mutazioni nel gene PTEN.
- Un altro gruppo arricchito di mutazioni nel gene EGFR.
E qui la sorpresa: i pazienti con tumori mutati in PTEN (gruppo A) hanno mostrato una sopravvivenza globale significativamente migliore rispetto a quelli con tumori mutati in EGFR (gruppo B) (p=0.013). Sembra quasi che queste mutazioni, note per avere ruoli complessi nel cancro, possano influenzare la risposta all’immunoterapia in modi opposti nel contesto del GBM.
Il Paesaggio Immunitario del Tumore: Abbiamo poi guardato all’espressione genica, concentrandoci sui programmi legati al sistema immunitario. Utilizzando analisi bioinformatiche complesse (come GSEA e l’algoritmo ESTIMATE), abbiamo “misurato” quanto fosse “caldo” il microambiente immunitario di ogni tumore prima della terapia. Abbiamo calcolato un “Punteggio Immunitario ESTIMATE” (EIS).
I risultati sono stati netti:
- I pazienti con tumori ad alto EIS (cioè con una maggiore infiltrazione immunitaria pre-trattamento) hanno avuto una sopravvivenza mediana decisamente più lunga (24.8 mesi) rispetto a quelli con basso EIS (14.5 mesi) (p=0.02).
- Ancora più importante: abbiamo verificato se questa associazione tra alto EIS e miglior sopravvivenza esistesse anche in pazienti trattati *solo* con la terapia standard (usando dati da grandi database come TCGA e GLASS). La risposta è stata NO. In quei gruppi, un alto EIS non si traduceva in un vantaggio di sopravvivenza.
Questo suggerisce fortemente che un microambiente tumorale già “immunologicamente attivo” prima della terapia sia un requisito fondamentale affinché l’immunoterapia con anti-PD-L1 possa funzionare meglio nel glioblastoma. Non basta l’infiltrazione immunitaria di per sé, serve l’immunoterapia per “sbloccarne” il potenziale.
Chi Popola il Microambiente “Caldo”? Andando a vedere quali cellule immunitarie fossero più abbondanti nei tumori ad alto EIS associati a miglior sopravvivenza, abbiamo trovato soprattutto:
- Cellule dendritiche attivate (fondamentali per presentare gli antigeni tumorali ai linfociti T).
- Monociti e macrofagi, in particolare quelli di tipo M1 (pro-infiammatori e anti-tumorali).
- Linfociti T CD4+ di memoria effettori.
Inoltre, i pazienti i cui linfociti T citotossici (CD8+) esprimevano livelli più alti di PD-L1 tendevano ad avere una sopravvivenza migliore, suggerendo che proprio questi fossero un bersaglio chiave dell’atezolizumab.
Il Sottotipo Mesenchimale: È noto che i GBM possono essere classificati in sottotipi molecolari (proneurale, classico, mesenchimale). Nel nostro studio, abbiamo confermato che il sottotipo Mesenchimale è di gran lunga quello più ricco di cellule immunitarie (alto EIS). E, coerentemente, i pazienti con GBM mesenchimale trattati con atezolizumab hanno avuto la sopravvivenza mediana più alta (26.5 mesi) rispetto agli altri sottotipi.
Sorpresa! Anche l’Intestino Conta (Il Microbioma)
Negli ultimi anni si è scoperto che i miliardi di batteri che ospitiamo nel nostro intestino (il microbioma) possono influenzare la risposta alle terapie oncologiche, inclusa l’immunoterapia. Poteva essere vero anche per un tumore al cervello? Abbiamo analizzato campioni fecali di un sottogruppo di pazienti.

I risultati sono preliminari ma intriganti:
- I pazienti con una sopravvivenza più lunga tendevano ad avere una composizione del microbioma leggermente diversa da quelli con sopravvivenza più breve (anche se la diversità generale non era significativamente differente).
- Analizzando le specie batteriche specifiche, abbiamo visto che i pazienti con sopravvivenza più lunga erano arricchiti di batteri appartenenti al phylum Bacillota (precedentemente noto come Firmicutes).
- Inoltre, i pazienti con tumori ad alto EIS tendevano ad avere una maggiore diversità batterica intestinale (alpha diversity).
Questo apre scenari affascinanti: la composizione del nostro intestino potrebbe influenzare l’ambiente immunitario del tumore cerebrale e, di conseguenza, la risposta all’immunoterapia. Serviranno studi più ampi per confermarlo, ma è una pista da non sottovalutare.
Tiriamo le Somme: Cosa Pesa di Più?
Abbiamo messo insieme tutti i pezzi: età, stato di performance, metilazione di MGMT, tipo di resezione chirurgica, mutazioni EGFR/PTEN, punteggio immunitario EIS. L’analisi multivariata, che cerca di capire quali fattori siano indipendentemente associati alla sopravvivenza nel nostro gruppo di pazienti trattati con atezolizumab, ha dato un verdetto chiaro:
- Avere un tumore con alto EIS era associato a un rischio di morte significativamente ridotto (HR = 0.23, p=0.019).
- Avere un tumore con mutazione EGFR era associato a un rischio di morte significativamente aumentato (HR = 6.27, p=0.029).
Questi due fattori, legati all’immunità intrinseca del tumore e a specifiche alterazioni genetiche, sono emersi come i più potenti predittori di risultato in questo contesto terapeutico.
Cosa Ci Riserva il Futuro?
Questo studio, pur non mostrando un beneficio eclatante per *tutti* i pazienti con GBM, ci dice qualcosa di fondamentale: l’immunoterapia con anti-PD-L1 può funzionare meglio in un sottogruppo specifico di pazienti, quelli con tumori già “immunologicamente caldi”, spesso di tipo mesenchimale, senza mutazioni EGFR e magari con mutazioni PTEN. E forse, anche con un certo profilo di microbioma intestinale.
Questo apre la porta a strategie future:
- Potremmo selezionare meglio i pazienti da trattare con immunoterapia basandoci su questi biomarcatori?
- Potremmo trovare modi per “scaldare” i tumori “freddi”, magari agendo sui macrofagi o usando combinazioni di farmaci (ad esempio, inibitori di TIM3, un altro checkpoint immunitario che abbiamo visto espresso nei tumori più infiltrati)?
- Potremmo modulare il microbioma intestinale per migliorare la risposta all’immunoterapia?
- Il tempismo è cruciale? Forse dare l’immunoterapia *prima* della chirurgia (approccio neoadiuvante), come suggerito da altri studi su pazienti con recidiva, potrebbe essere più efficace?
La strada per sconfiggere il glioblastoma è ancora lunga e tortuosa, ma studi come questo ci forniscono mappe sempre più dettagliate. Capire chi risponde e perché è il primo passo per sviluppare terapie davvero personalizzate ed efficaci. Non molliamo!
Fonte: Springer
