Loading… Chi Sei Davvero? Identità e Discriminazione nel Mondo dei Videogiochi
Ciao a tutti, appassionati di pixel e avventure digitali! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ diverso dal solito. Parliamo di videogiochi, sì, ma da una prospettiva che forse non tutti considerano ogni giorno: quella dell’identità. Perché diciamocelo, il mondo del gaming aspira ad essere universale, un luogo dove chiunque può essere chiunque. Ma è davvero così? La realtà, purtroppo, ci mostra spesso un quadro diverso, fatto di strutture di potere ben radicate e discriminazioni sistemiche.
Recentemente mi sono imbattuto in uno studio affascinante (tranquilli, ve lo racconto in modo semplice!) che ha esplorato proprio questo: come età, genere, etnia e orientamento sessuale si intrecciano (avete presente il concetto di “intersezionalità”? Ecco, proprio quello) e modellano le esperienze dei giocatori, sia in termini di come si sentono rappresentati, sia in termini di discriminazione subita. Lo studio si è concentrato su un gruppo di gamer australiani, ma le dinamiche, credetemi, suonano familiari un po’ ovunque.
Chi è il Giocatore ‘Tipo’? Il Potere dell’Identità Predefinita
Una delle cose emerse con forza è l’esistenza di un’identità “predefinita” nel gaming: giovane, bianco, eterosessuale, maschio. Non è solo una questione di chi gioca di più (anche se i dati mostrano una diversità crescente!), ma di come l’intera industria e la cultura del gaming siano state costruite attorno a questa figura. Come ha detto un partecipante allo studio, il gaming “tende ad essere una cosa da maschi… è decisamente un mondo per uomini”. Questo “default” non è neutro, ma agisce come un meccanismo di potere.
Pensateci: le meccaniche di gioco spesso privilegiano certi tipi di esperienze, magari dando per scontata una familiarità pregressa con controller e dinamiche complesse. Le narrazioni mettono quasi sempre al centro l’eroe “universale” (che guarda caso corrisponde al default), mentre altre identità diventano “speciali”, “di nicchia”, quasi un’aggiunta opzionale. E vogliamo parlare del design visivo? Il famoso “male gaze”, lo sguardo maschile che oggettifica i personaggi femminili, è ancora presentissimo. E quando si interseca con stereotipi razziali, crea rappresentazioni particolarmente restrittive per le donne di colore, spesso esoticizzate o ipersessualizzate.
Questo “giocatore predefinito” si muove negli spazi di gioco senza problemi, la sua presenza è data per scontata. Per tutti gli altri, invece, la storia è diversa. Bisogna giustificare la propria presenza, negoziare la propria identità. Anche la lingua diventa uno strumento di dominio: avete mai visto in chat qualcuno chiedere aggressivamente di “parlare inglese” a chi sta comunicando nella propria lingua madre? Ecco, è un esempio di come il pregiudizio linguistico si somma a quello etnico per rafforzare un’egemonia culturale. Chi rientra nel default, invece, come ha ammesso un partecipante, ha “quel tipo di voce che probabilmente non verrebbe giudicata online”. Un privilegio invisibile, ma potente.

Stereotipi a Catena: Come le Etichette si Intrecciano e Feriscono
Gli stereotipi nel gaming non viaggiano da soli, ma si legano tra loro, creando gerarchie e forme composite di marginalizzazione. Non è solo il personaggio femminile ipersessualizzato o quello di colore relegato a ruoli stereotipati (l’atleta, il criminale…). È come questi stereotipi si combinano. Prendiamo Franklin di GTA, citato nello studio: la sua backstory (famiglia disastrata, violenza, spaccio) ricalca cliché visti e rivisti sui giovani afroamericani, amplificando stereotipi sociali esistenti e facendoli sembrare “normali” nel contesto del gioco.
L’età aggiunge un altro livello. Lo stereotipo dell’anziano “lento”, inadatto ai giochi competitivi che richiedono riflessi pronti, non solo esclude, ma posiziona la giovinezza come requisito fondamentale per essere un “vero” gamer. Come ha detto qualcuno, il gaming è visto come “qualcosa che fanno i bambini, molto giovanile… qualcosa che ti lasci alle spalle insieme ai peluche”. Questo colpisce soprattutto chi è più avanti con gli anni e magari appartiene già ad altre categorie marginalizzate.
E l’identità queer? Spesso si oscilla tra l’invisibilità totale e la rappresentazione caricaturale: personaggi “esagerati, fastidiosi, sfacciati, effeminati”. Stereotipi che diventano ancora più confusi quando si intersecano col genere: le lesbiche viste come “uomini con la coda di cavallo”, o l’incapacità di distinguere “un uomo gay da una ragazza”. Questo sistema complesso di rappresentazioni non fa che rafforzare le strutture di potere esistenti, privilegiando alcune identità e schiacciandone altre in cliché dannosi.
Sopravvivere nel Gioco: Strategie di Navigazione tra Identità Marginalizzate
Di fronte a questo scenario, chi appartiene a più gruppi marginalizzati non resta passivo, ma sviluppa strategie di sopravvivenza e partecipazione incredibilmente sofisticate. E queste strategie diventano più complesse all’aumentare delle identità da “gestire”.
L’ostilità stessa non è uguale per tutti. Le donne, ad esempio, spesso subiscono molestie più gravi del semplice “trash talking” rivolto ai maschi. E le strategie di navigazione variano: le donne di colore, secondo lo studio, tendono a nascondere la propria identità in modo più completo (niente chat vocale, nickname neutro, evitare riferimenti culturali) rispetto alle donne bianche, che magari gestiscono solo la visibilità di genere.
I giocatori queer di colore usano tecniche ancora più elaborate, scegliendo cosa rivelare di sé (l’etnia? l’orientamento?) a seconda del contesto, imparando a “leggere l’ambiente”. Gli anziani LGBTQIA+ cercano comunità specifiche, dove entrambe le loro identità siano rispettate. Questa necessità di nascondersi, di gestire attivamente la propria presentazione, nasce dalla minaccia costante di esclusione e molestie. Un partecipante ha raccontato: “Appena uno sconosciuto ha scoperto la mia etnia e religione, sono stato bombardato di insulti… Non ero più visto come un gamer, ma come una persona mediorientale. Come se non potessi essere entrambe le cose”. Questo logora, psicologicamente ed emotivamente.

Anche l’età gioca un ruolo subdolo: l’ageismo interiorizzato (“forse sono davvero troppo vecchio/lento per questo?”) si somma agli stereotipi esterni, creando barriere interne anche quando non c’è ostilità diretta. Per i giocatori queer, la necessità di “tenere segreta la propria sessualità” rivela come l’eteronormatività funzioni tramite sorveglianza e autocensura. Sopravvivere richiede una calibrazione continua tra visibilità e invisibilità, un dispendio enorme di energie per partecipare a spazi non pensati per te.
Resistenza e Marketing: La Sfida dell’Inclusione Autentica
Ma non c’è solo sofferenza, c’è anche resistenza. I giocatori e le comunità trovano modi per sfidare queste strutture. Si formano comunità alternative, spazi sicuri dove sentirsi accolti. L’intergenerational gameplay, il gioco tra giovani e anziani, viene visto come un modo positivo per creare legami e abbattere stereotipi. C’è sempre, come ha detto un partecipante, “gente che includerà chiunque, non importa quanto tossico sia l’ambiente”.
Tuttavia, questi sforzi si scontrano con le logiche di mercato. L’industria ha fiutato l’affare della diversità. Ma spesso si tratta di “inclusione performativa”: si aggiungono personaggi “diversi” per spuntare una casella, senza profondità né integrazione reale nella storia. “Metteranno una donna di colore in copertina, ma poi nel gioco è seminuda e ha cinque battute”, ha notato una partecipante. Pensate ai loghi arcobaleno durante il Pride Month: un gesto temporaneo che non cambia la tolleranza zero verso l’omofobia nelle chat il giorno dopo.
Questa “commodification” della diversità, il trasformarla in merce, crea un’illusione di progresso senza intaccare le strutture di potere. Le grandi aziende vogliono “il merito di essere diverse senza fare il lavoro di assumere sviluppatori diversi o cambiare come prendono le decisioni”. È una sfida enorme: come creare un cambiamento autentico quando la resistenza stessa rischia di essere assorbita e neutralizzata dal sistema che si cerca di cambiare?

Chi Comanda il Gioco? Potere e Pregiudizi nei Ruoli di Gestione
Un aspetto cruciale, spesso sottovalutato, è il ruolo dei Game Master (GM), amministratori di server, leader di gilde, moderatori di comunità. Queste figure detengono un potere significativo: decidono chi appartiene, come applicare le regole, quali esperienze convalidare. E indovinate un po’? Spesso riflettono l’identità “default” del gaming.
Questa concentrazione di autorità in mano a giovani maschi bianchi etero può perpetuare le strutture di potere esistenti. Un GM che non ha mai vissuto certe discriminazioni potrebbe liquidare segnalazioni di sessismo o razzismo come “semplice trash talk”, lasciando che le molestie intersezionali prosperino. Per chi ha identità multiple marginalizzate, interagire con queste figure richiede un ulteriore sforzo: contestare una molestia potrebbe portare all’etichetta di “ipersensibile” invece che a supporto. Si crea una sorta di “cittadinanza di seconda classe”.
Però, anche qui c’è potenziale per il cambiamento. Le comunità alternative spesso adottano modelli di governance diversi: moderazione collettiva, regole chiare sull’intersezionalità, leadership diversificata. Questo dimostra che è possibile distribuire il potere in modo più equo. L’industria potrebbe imparare molto: sistemi di moderazione che riconoscano le molestie composite, formazione per i GM sulla propria posizione e sui bias, maggiore trasparenza e responsabilità.
Oltre il ‘Loading’: Verso un Futuro del Gaming Davvero Inclusivo
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Che le questioni di rappresentazione e discriminazione nel gaming sono profondamente interconnesse. Non possiamo affrontare il sessismo senza considerare il razzismo, l’ageismo o l’omofobia, perché spesso si manifestano insieme, amplificandosi a vicenda. L’identità “default” non è un dato di fatto, ma una costruzione che esercita potere ed esclude.
Le strategie di sopravvivenza dei giocatori marginalizzati sono una testimonianza di resilienza, ma anche un atto d’accusa verso spazi che richiedono un tale sforzo per essere abitati. E l’inclusione “di facciata” non basta. Serve un cambiamento strutturale: team di sviluppo diversi a tutti i livelli, protocolli di testing che considerino le identità intersezionali, sistemi di moderazione più intelligenti, design che permetta un’espressione identitaria flessibile e non stereotipata.
Dobbiamo passare da un’inclusione vista come strategia di marketing a un’inclusione come principio fondamentale del design e della cultura del gaming. Solo così potremo sperare di creare spazi di gioco veramente accoglienti, dove il “Loading…” iniziale porti a un mondo in cui tutti, in tutte le meravigliose intersezioni delle loro identità, possano sentirsi davvero a casa.
Fonte: Springer
