Ictus Emorragico e Intelligenza Artificiale: Possiamo Prevedere il Futuro dei Pazienti?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, ne sono convinto, cambierà il modo in cui affrontiamo una delle emergenze mediche più temute: l’ictus emorragico. Sapete, l’ictus è già di per sé un brutto colpo, colpendo circa 13,7 milioni di persone ogni anno e causando 5,5 milioni di decessi. Ma la forma emorragica, sebbene meno frequente dell’ischemica, è spesso più devastante. Parliamo di tassi di mortalità ospedaliera che possono arrivare al 20-30% e di una percentuale altissima, fino all’80%, di sopravvissuti che necessitano di assistenza a lungo termine. Un vero dramma, non solo per chi ne è colpito, ma per intere famiglie.
Fattori di rischio come diabete, BPCO, pressione alta, fumo, dieta e scarsa attività fisica sono noti, ma alcuni, come l’ipertensione, pesano di più nell’ictus emorragico. E non dimentichiamo l’impatto psicologico: ansia, depressione, affaticamento, disturbi del sonno sono compagni di viaggio frequenti per chi sopravvive, specialmente se con disabilità residue importanti.
Ecco perché, nel mondo della sanità moderna, l’obiettivo è sempre più quello di personalizzare le cure, di anticipare i problemi. E per farlo, dobbiamo diventare bravissimi a prevedere l’evoluzione della malattia. Immaginate poter dire a una famiglia, con un buon grado di certezza, cosa aspettarsi, poter adattare le terapie fin da subito per massimizzare le chance di recupero. È qui che entra in gioco la potenza del machine learning, o intelligenza artificiale che dir si voglia.
Il Nostro Approccio: Dati, Modelli e un Pizzico di Magia (Chiamata SHAP)
Proprio su questa frontiera si colloca uno studio affascinante che ho avuto modo di approfondire. L’obiettivo? Utilizzare modelli di machine learning per prevedere due cose fondamentali nei pazienti con ictus emorragico: la prognosi a 90 giorni dalla dimissione e la mortalità intra-ospedaliera. Per farlo, abbiamo attinto a un tesoro di informazioni: i dati di un Registro Nazionale Ictus, raccolti tra gennaio 2014 e luglio 2022 presso l’Hamad General Hospital. Parliamo di ben 15.859 pazienti che hanno cercato cure specialistiche per l’ictus, ma noi ci siamo concentrati sui 1657 casi di ictus emorragico, con dati completi sulla prognosi a 90 giorni disponibili per 1098 di loro.
Abbiamo considerato una miriade di fattori: la gravità dell’ictus all’arrivo (misurata con la famosa scala NIHSS), dati demografici, risultati di laboratorio, il reparto di ricovero e altre caratteristiche cliniche. In totale, 29 variabili per la prognosi e 28 per la mortalità. Per la prognosi, abbiamo usato la scala modificata di Rankin (mRS) a 90 giorni, semplificandola: un punteggio ≤ 2 significava prognosi favorevole, > 2 sfavorevole. Per la mortalità, beh, la distinzione era netta: deceduto o sopravvissuto durante il ricovero.
Abbiamo messo alla prova cinque diversi algoritmi di machine learning: Random Forest (RF), Regressione Logistica (LR), XGboost, Support Vector Machines (SVM) e Alberi Decisionali (DT). E per capire *perché* i modelli facevano certe previsioni, abbiamo usato una tecnica fichissima chiamata SHAP (SHapley Additive exPlanations), che ci svela quali sono i fattori che più hanno influenzato il responso del modello. Pensatela come una lente d’ingrandimento che ci fa vedere cosa conta davvero.

Cosa Abbiamo Scoperto? I Risultati che Fanno la Differenza
Ebbene, i risultati sono stati illuminanti! In generale, i modelli di machine learning si sono dimostrati più bravi a predire gli esiti funzionali (la prognosi a 90 giorni) che la mortalità. Nello specifico:
- Per predire la prognosi a 90 giorni, il modello Random Forest (RF) si è rivelato il campione, con un F1-Score di 0.815 (un buon equilibrio tra precisione e capacità di richiamo) e un’ottima Area Sotto la Curva (AUC) di 0.871.
- Per la mortalità ospedaliera, invece, la Regressione Logistica (LR) ha dato il meglio di sé, con un’accuratezza e una capacità di discriminazione (AUC) rispettivamente di 0.819 e 0.859, sebbene con un F1-score più moderato (0.44), suggerendo che forse qualche variabile predittiva cruciale potrebbe essere ancora da affinare.
Ma la vera chicca, come dicevo, è stata l’analisi SHAP. Ci ha mostrato quali fattori pesano di più sulla bilancia. Per la prognosi a 90 giorni (mRS-90), i più influenti sono risultati, in ordine di importanza:
- Il punteggio NIHSS all’ammissione (la gravità dell’ictus)
- La durata della degenza ospedaliera (LOS)
- Il reparto di ricovero
- L’età del paziente
- L’insorgenza di polmonite acquisita in ospedale
Per la mortalità intra-ospedaliera, invece, i predittori chiave sono stati:
- Il punteggio NIHSS all’ammissione
- Il reparto di ricovero
- L’etnia del paziente
- I livelli di glicemia all’ammissione
- La presenza di ipertensione (HTN) pregressa
- La conta piastrinica all’ammissione
La cosa straordinaria è che, ad eccezione della durata della degenza e della polmonite nosocomiale, tutti questi fattori possono essere valutati molto precocemente, al momento del ricovero! Questo apre la strada a una capacità migliorata per noi medici di predire rapidamente prognosi e mortalità, personalizzando le strategie di cura e aiutando le famiglie a formarsi aspettative realistiche.
NIHSS: Il Punteggio che Parla Chiaro
Non sorprende che la gravità dell’ictus, misurata con il punteggio NIHSS, sia emersa come il predittore più significativo. Nel nostro studio, il punteggio NIHSS medio era 11.2. I pazienti con prognosi sfavorevole a 90 giorni avevano punteggi NIHSS significativamente più alti rispetto a quelli con prognosi favorevole (15.6 contro 6.2). Questo ribadisce il ruolo cruciale del NIHSS nella previsione precoce e nella guida di piani di cura preventivi personalizzati.
Dove Vieni Ricoverato Fa la Differenza (Eccome!)
Un altro dato importantissimo riguarda il luogo di ricovero. È emerso chiaramente che la gestione in unità specializzate per l’ictus (Stroke Unit) porta a una riduzione della mortalità, della durata della degenza e a migliori esiti per i pazienti. Nel nostro studio, i pazienti ricoverati in terapia intensiva mostravano una maggiore incidenza di esiti sfavorevoli (75.3%) rispetto a quelli ricoverati nelle Stroke Unit (36%) o in altri reparti generici (44.6%). Certo, chi va in terapia intensiva è spesso più grave (NIHSS medio di 16.7 contro 7.3 nelle Stroke Unit), ma è interessante notare che, a parità di gravità iniziale (NIHSS simile tra Stroke Unit e reparti generici), gli esiti erano peggiori nei reparti generici. Questo suggerisce che la qualità delle cure specialistiche nelle Stroke Unit – monitoraggio superiore, migliore gestione di febbre, ossigenazione, nutrizione e prevenzione dell’aspirazione – fa davvero la differenza. Pensate che nei reparti generici il 5.4% ha sviluppato polmonite nosocomiale e il 7.1% infezioni urinarie, contro il 4.3% e 4.5% nelle Stroke Unit. Questo ci spinge a riflettere sulla necessità di ampliare la capacità delle Stroke Unit.

La Degenza Ospedaliera e le Infezioni: Un Fattore da Non Sottovalutare
La durata della degenza (LOS) gioca un ruolo. Generalmente, una degenza più lunga è spesso associata a complicanze ospedaliere, come le infezioni, che possono peggiorare la prognosi. Nel nostro campione, il LOS medio era di 11.2 giorni. Circa l’80% dei pazienti con LOS superiore alla media ha avuto esiti sfavorevoli, contro il 39% di quelli con degenze più brevi. E chi ha avuto esiti sfavorevoli è rimasto in ospedale in media 15 giorni, contro i 6.9 di chi ha avuto esiti favorevoli. Curiosamente, non abbiamo trovato una correlazione diretta tra LOS e gravità dell’ictus (NIHSS), ma una forte associazione tra LOS e sviluppo di infezioni nosocomiali come la polmonite. A proposito di polmonite acquisita in ospedale, questa è emersa come un forte predittore: circa il 90% dei pazienti che l’hanno contratta ha avuto esiti sfavorevoli, rispetto al 46% di chi non l’ha sviluppata. Questo ci ricorda quanto sia cruciale implementare misure preventive basate sull’evidenza: igiene orale regolare, aggiustamenti posturali per prevenire l’aspirazione, screening della disfagia.
Età, Etnia e Altri Fattori Chiave per la Mortalità
L’età, come prevedibile, conta. I più anziani sono più suscettibili a comorbilità che peggiorano l’esito. L’età media nel nostro studio era 51.3 anni, relativamente bassa su scala globale. Il 56.5% dei pazienti più anziani della media ha avuto esiti sfavorevoli. Per quanto riguarda la mortalità, l’etnia ha mostrato un ruolo: i pazienti di etnia sud-asiatica avevano una mortalità intra-ospedaliera inferiore rispetto a quelli della regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e altre etnie sud-asiatiche (8.6% vs 11.2%). I pazienti qatarioti, invece, mostravano il tasso di mortalità più alto (11.2%), ma avevano anche l’età media più elevata (65 anni), il che potrebbe spiegare in parte questa differenza, dato che la popolazione espatriata in Qatar è generalmente più giovane e in età lavorativa.
La glicemia all’ammissione (RBS) è un altro fattore importante. Livelli elevati di RBS sono associati a prognosi peggiore, poiché l’iperglicemia acuta può aumentare il danno cerebrale, le dimensioni dell’infarto e peggiorare gli effetti dell’ictus. Nel nostro studio, chi non è sopravvissuto aveva livelli di RBS significativamente più alti (10.6 mmol/l contro 8.6 mmol/l).
Un dato paradossale è emerso per l’ipertensione (HTN): i pazienti con una storia nota di HTN avevano tassi di mortalità intra-ospedaliera significativamente più bassi (7.1% vs 22.1%) rispetto a quelli senza diagnosi pregressa, contraddicendo parte della letteratura. Questi pazienti avevano anche punteggi NIHSS più bassi, forse perché il trattamento antipertensivo regolare ne aveva ridotto la gravità. Questo potrebbe legarsi all’idea che la variabilità della pressione sistolica aumenta il rischio di mortalità da ictus, e i farmaci antipertensivi riducono queste fluttuazioni. Serviranno ulteriori studi per capire meglio.
Infine, una bassa conta piastrinica all’ammissione si è confermata un indicatore precoce di mortalità nell’ictus emorragico, in linea con la letteratura esistente. Chi non è sopravvissuto aveva una conta piastrinica media significativamente più bassa.

Non È Tutto Oro Quel che Luccica: I Limiti dello Studio
Ora, sarei disonesto se non vi parlassi anche dei limiti del nostro studio. Perché sì, ci sono. Lavorare con dati retrospettivi di un singolo centro medico può introdurre bias di selezione e limitare la generalizzabilità dei risultati. Inoltre, l’assenza di variabili cruciali nel registro dell’ictus, come le dimensioni e la localizzazione dell’emorragia, i dati di imaging dettagliati e i fattori socio-economici, limita la profondità dell’analisi. I dati storici potrebbero non riflettere appieno le strategie di trattamento in evoluzione. La finestra di predizione per la mortalità ospedaliera e lo stato funzionale a 90 giorni potrebbe non catturare gli esiti a più lungo termine. C’era anche uno sbilanciamento di classe nel dataset, con una sottorappresentazione dei casi di mortalità, il che complica lo sviluppo del modello nonostante gli sforzi di mitigazione. E, naturalmente, i modelli di machine learning necessitano di una validazione esterna completa per confermarne robustezza e applicabilità.
Guardando al Futuro: Cosa Ci Aspetta?
Nonostante i limiti, questo studio apre scenari davvero promettenti. Sottolinea l’importanza di migliorare i registri sull’ictus, incorporando variabili vitali. Ma soprattutto, ci mostra che la gravità della presentazione iniziale (NIHSS) e il luogo di ricovero sono predittori potentissimi, indicatori precoci che possono guidare noi clinici nel definire piani di cura preventivi. Questo lavoro potrebbe spianare la strada allo sviluppo di modelli predittivi localizzati, facilitando la prognosi precoce, elementi cruciali per creare piani di cura personalizzati e sostenere gli sforzi della medicina di precisione.
La ricerca futura dovrebbe dare priorità a dataset più ampi e diversificati e a un’esplorazione più approfondita delle variabili per migliorare la pratica clinica. Un approccio multicentrico negli studi futuri ne aumenterà la generalizzabilità e contribuirà a far progredire l’assistenza personalizzata all’ictus. Insomma, la strada è tracciata, e l’intelligenza artificiale sembra essere una compagna di viaggio insostituibile per affrontarla al meglio!
Fonte: Springer
