Primo piano di un medico africano e un paziente che discutono sorridendo davanti a uno schermo che mostra dati AI in un ambiente ospedaliero moderno ma accogliente. Luce naturale soffusa da una finestra, obiettivo 35mm, profondità di campo che mette a fuoco l'interazione umana pur mostrando la tecnologia sullo sfondo.

IA nella Sanità Africana: Tecnologia Sì, Ma Non Dimentichiamo l’Uomo (e la sua Anima)!

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, secondo me, merita una riflessione profonda: l’intelligenza artificiale (IA) nella sanità, specialmente nel contesto dell’Africa subsahariana. Siamo tutti entusiasti, vero? Le tecnologie di machine learning (ML) stanno facendo passi da gigante e promettono di rivoluzionare la medicina, soprattutto in luoghi dove medici e attrezzature scarseggiano. E non posso negare che sia fantastico vedere come questi strumenti possano estendere la portata delle cure mediche.

L’Efficienza dell’IA: Una Benedizione con Risvolti?

Pensateci: sistemi capaci di analizzare enormi quantità di dati, individuare pattern che magari sfuggirebbero all’occhio umano, diagnosticare malattie precocemente, suggerire trattamenti. Tecnologie come i Sistemi Computerizzati di Supporto alle Decisioni Cliniche (CDSS), potenziati dal machine learning (ML_CDSS), stanno diventando sempre più bravi. Utilizzano modelli come la regressione logistica o le support vector machine (SVM) per prevedere e diagnosticare patologie complesse, dalla demenza alla sepsi, dall’analisi di immagini radiologiche al riconoscimento di tumori. L’accuratezza è impressionante, spesso pari o superiore a quella dei medici umani, come dimostrano diversi studi.

Questi sistemi possono aiutare a ridurre gli errori diagnostici, che purtroppo contribuiscono ancora in modo significativo alla mortalità dei pazienti e alle complicazioni ospedaliere. Possono elaborare dati in un lampo, superando i limiti di tempo e i possibili bias cognitivi dei medici. Insomma, sulla carta, sembrano la soluzione perfetta per rendere la sanità più efficiente e precisa. Ma, come spesso accade, c’è un “ma”.

Il Rischio Nascosto: La Perdita del “Tocco Umano”

Mentre celebriamo queste meraviglie tecnologiche, non posso fare a meno di sollevare qualche preoccupazione. La mia paura più grande? Che un uso acritico o un’eccessiva dipendenza da queste tecnologie possa erodere qualcosa di fondamentale: il decision-making condiviso tra medico e paziente. Sapete, quel dialogo prezioso in cui il paziente non è solo un destinatario passivo di cure, ma un partecipante attivo, un co-protagonista nel percorso verso il benessere.

Il decision-making condiviso è un pilastro della medicina moderna centrata sul paziente. La stessa Dichiarazione di Ginevra dell’Associazione Medica Mondiale sottolinea l’importanza di rispettare l’autonomia del paziente. Non si tratta solo di dare il consenso informato, ma di essere riconosciuti come agenti epistemici, come “co-ragionatori” (per usare le parole di Salloch ed Eriksen), capaci di esprimere valori, preferenze, paure e speranze che devono guidare le scelte terapeutiche.

Fotografia di ritratto di un medico africano che ascolta attentamente un paziente anziano in un ambulatorio luminoso. Obiettivo 35mm, luce naturale, profondità di campo ridotta per focalizzare sull'interazione umana, toni caldi.

Il rischio è che, di fronte all’efficienza e all’apparente oggettività dell’algoritmo, che magari classifica le opzioni di trattamento in base a dati statistici, si perda di vista l’unicità del paziente. Come sottolinea Rosalind McDougall, questi sistemi spesso non tengono conto dei valori *individuali* del paziente e possono far sembrare che esista una “risposta corretta” dettata dalla macchina, mettendo in ombra la natura intrinsecamente carica di valori di ogni decisione medica. Si rischia una sorta di paternalismo tecnologico, una “medicalizzazione” spinta dove l’algoritmo detta legge.

Perché in Africa Subsahariana la Posta in Gioco è Ancora Più Alta

Ora, potreste pensare: “Ok, il decision-making condiviso è importante ovunque”. Ed è vero. Ma lasciatemi spiegare perché, da una prospettiva fenomenologica e culturale, la minaccia è particolarmente seria nel contesto dell’Africa subsahariana. Qui, il concetto di persona, di agenzia morale, è profondamente legato alle relazioni interpersonali e all’interdipendenza comunitaria.

Nella filosofia africana, specialmente quella legata al pensiero Ubuntu (“Io sono perché noi siamo”), non si diventa persone semplicemente nascendo umani con certe capacità cognitive (razionalità, autonomia nel senso occidentale). Si diventa persone *attraverso* gli altri, costruendo e mantenendo relazioni armoniose basate sull’identificazione reciproca e sulla solidarietà. Essere una persona significa essere parte di una comunità morale, avere doveri verso il collettivo, essere capaci di empatia, di cura, di condivisione. Come diceva Kwame Gyekye, un individuo crudele o egoista “non è una persona umana” nel senso normativo del termine.

Capite bene, quindi, che la relazione medico-paziente in questo contesto non è solo un’interazione funzionale alla cura, ma un’opportunità cruciale per esercitare e rafforzare questa agenzia morale. Il dialogo, l’ascolto reciproco, la condivisione di valori e preoccupazioni – elementi centrali del decision-making condiviso – sono proprio gli atti che costruiscono quel legame interpersonale, quella solidarietà che definisce l’essere persona.

Immagine grandangolare di una comunità africana riunita sotto un grande albero, persone di età diverse che parlano e interagiscono. Obiettivo 24mm, luce del tardo pomeriggio, colori vivaci, messa a fuoco nitida sull'intero gruppo per enfatizzare la collettività.

Se l’IA, con la sua efficienza, riduce questo spazio di dialogo, se il medico si affida troppo all’algoritmo e interagisce meno profondamente con il paziente, non si sta solo minando l’autonomia individuale (che pure è importante), ma si sta potenzialmente ostacolando la capacità stessa del paziente di *essere* pienamente persona all’interno della sua comunità morale, specialmente in un momento di vulnerabilità come la malattia. Si rischia di perdere quell’essenza relazionale che è fondamentale.

Obiezioni e Risposte: Non Semplifichiamo Troppo

Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma l’IA fa solo raccomandazioni, la decisione finale è del medico!”. Certo, ma non siamo ingenui. La tecnologia non è mai neutra. Come ci insegnano pensatori come Don Ihde e Peter-Paul Verbeek, la tecnologia media la nostra relazione con il mondo, plasma le nostre percezioni e, sì, anche le nostre decisioni morali. In un mondo sempre più interconnesso tra umani e macchine, l’influenza degli algoritmi, soprattutto se percepiti come superiori in accuratezza, è reale e non va sottovalutata. La possibilità che diventino decisori de facto, anche se non de jure, è concreta.

Un’altra obiezione potrebbe riguardare la diversità africana: “Stai omogeneizzando culture diverse!”. Sono assolutamente consapevole dell’immensa diversità del continente. Tuttavia, filosofi e studiosi concordano sul fatto che, pur nelle differenze, i valori di interdipendenza e relazionalità sono un filo conduttore dominante in molte culture subsahariane. Il mio discorso si concentra su questo aspetto prevalente, senza negare le specificità.

Verso un Futuro Responsabile: Tecnologia al Servizio dell’Umanità

Allora, cosa propongo? Di buttare via l’IA? Assolutamente no! I benefici sono troppo grandi per essere ignorati. Quello che sostengo è la necessità di un approccio value-sensitive, sensibile ai valori. Dobbiamo progettare e implementare queste tecnologie non solo perché siano efficienti, ma perché supportino e potenzino, anziché sostituire, la relazione umana.

Dobbiamo usare l’IA come uno strumento per facilitare il dialogo, come uno spunto di discussione (come suggeriscono Zhou e Danks), non come un oracolo indiscutibile. Dobbiamo formare i medici non solo all’uso tecnico degli algoritmi, ma anche alla consapevolezza delle implicazioni etiche e culturali, specialmente in contesti come quello africano. Dobbiamo, soprattutto, continuare a mettere il paziente al centro, riconoscendolo non solo come portatore di una malattia, ma come una persona complessa, un agente morale ed epistemico con valori, una storia e una rete di relazioni che devono essere rispettate e valorizzate.

Macro fotografia di circuiti elettronici che si intrecciano con l'immagine stilizzata di un volto umano africano. Obiettivo macro 100mm, illuminazione controllata per creare contrasto tra tecnologia e umanità, alta definizione dei dettagli.

In Africa subsahariana, questo significa riconoscere che promuovere il decision-making condiviso non è solo una questione di buona pratica medica, ma un atto con profonde implicazioni morali, un modo per sostenere l’essenza stessa della persona all’interno della sua comunità.

Il mio auspicio è che questa riflessione contribuisca a sviluppare politiche, linee guida e regolamenti per le tecnologie sanitarie che siano davvero al servizio dell’uomo, in Africa e ovunque si condividano visioni del mondo simili, dove la relazione e la comunità contano davvero. La tecnologia è uno strumento potente, usiamolo con saggezza e umanità.

Fonte: Springer

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