Migranti con HIV a Firenze: Tra Sfide e Speranze per Raggiungere l’Obiettivo 90-90-90
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio un po’ particolare, quello che abbiamo intrapreso qui a Firenze, nel cuore della Toscana, per capire meglio come se la cavano i migranti che vivono con l’HIV. Sapete, quando si parla di migrazione, si toccano tantissimi aspetti: la speranza di una vita migliore, le difficoltà dell’integrazione, ma anche questioni di salute che a volte passano in secondo piano, e invece sono cruciali.
Noi, all’Unità di Malattie Infettive e Tropicali dell’Ospedale Universitario Careggi, seguiamo circa 1600 persone con HIV, e ci siamo resi conto che c’era bisogno di fare luce sulla situazione specifica dei migranti. Perché? Perché spesso queste persone affrontano ostacoli enormi: barriere linguistiche, culturali, la paura legata al loro status legale, discriminazioni. E tutto questo può rendere difficile l’accesso alle cure e la costanza nel seguirle.
L’Obiettivo 90-90-90 dell’UNAIDS: A Che Punto Siamo?
Forse ne avrete sentito parlare: l’UNAIDS, il programma delle Nazioni Unite per l’HIV/AIDS, ha lanciato tempo fa l’obiettivo 90-90-90. Sembra un codice segreto, ma è molto semplice:
- il 90% delle persone con HIV deve conoscere il proprio stato;
- il 90% di chi sa di essere positivo deve ricevere la terapia antiretrovirale (ART);
- il 90% di chi è in terapia deve raggiungere la soppressione virale (cioè avere il virus sotto controllo).
E non finisce qui, perché l’asticella si è alzata con i nuovi target 95-95-95 per il 2030! Obiettivi ambiziosi, ma fondamentali per sconfiggere l’AIDS come minaccia per la salute pubblica. Ma per i migranti, specialmente quelli più vulnerabili come uomini che fanno sesso con uomini (MSM) e persone transgender, raggiungere questi traguardi è una vera sfida.
Il Nostro Studio a Firenze: Chi Abbiamo Incontrato?
Così, ci siamo messi al lavoro. Abbiamo condotto uno studio osservazionale, un po’ retrospettivo e un po’ prospettico, su una coorte di migranti con HIV presi in carico nel nostro centro tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2022. Abbiamo seguito queste persone fino al 30 aprile 2023, o fino a quando, purtroppo, non le abbiamo “perse di vista” (il cosiddetto loss-to-follow-up, o LTFU).
Abbiamo arruolato 201 migranti, con un’età media di 33 anni. E qui iniziano le scoperte interessanti:
- Più della metà (52.7%) proveniva dall’America Latina, e pensate, ben l’81% di questi erano peruviani! Questo ci dice che la nostra realtà fiorentina ha delle specificità rispetto ad altri studi che magari si concentrano più su migranti dall’Africa Sub-Sahariana.
- Un terzo del nostro gruppo (32.8%) era composto da donne transgender. Una percentuale significativa che suggerisce l’importanza di strategie di cura pensate apposta per questa comunità.
- Quasi il 38% erano migranti “fuori status” (MOS), cioè senza un permesso di soggiorno regolare. Una condizione che, come vedremo, ha un peso.
- Il lavoro sessuale è stato riportato dal 19.4% prima della migrazione e dal 27.4% dopo.
La maggior parte (58.7%) ha scoperto di avere l’HIV qui in Italia. Al momento della prima visita da noi, quasi la metà (44.8%) non aveva mai iniziato una terapia (naïve). Tra chi invece aveva già esperienza di farmaci, un bel 44.1% non aveva il virus sotto controllo.

I Risultati: Tra Luci e Ombre
Allora, come siamo messi con l’obiettivo 90-90-90? Diciamo che c’è ancora da lavorare. Alla fine del nostro studio, il 68.7% dei migranti arruolati era ancora regolarmente seguito da noi (retained in care). Di questi, oltre il 95.6% era in terapia antiretrovirale. E di chi era in terapia, circa l’80% aveva raggiunto la soppressione virale. Quindi, l’ultimo 90 (o 95) è quello a cui ci avviciniamo di più, ma il primo “gradino”, quello della ritenzione in cura, è il più critico.
Un dato che ci ha fatto riflettere molto è l’incidenza del loss-to-follow-up (LTFU) a 8 anni: 8.96 casi ogni 100 persone/anno. È un tasso quasi quattro volte superiore a quello che abbiamo osservato nella popolazione italiana nativa seguita nello stesso centro! Più della metà di chi abbiamo perso di vista era semplicemente “irraggiungibile” ai contatti forniti. È possibile che la paura di ripercussioni legali, anche se in Italia il sistema sanitario universale garantisce cure urgenti a tutti indipendentemente dallo status e non c’è obbligo di denuncia, giochi un ruolo. Ma è un’ipotesi, non abbiamo dati certi.
Fattori di Rischio e Fattori Protettivi: Cosa Abbiamo Imparato?
Abbiamo cercato di capire se ci fossero delle condizioni che aumentassero il rischio di “perdersi per strada” o, al contrario, che aiutassero a rimanere agganciati alle cure. Ebbene sì:
- Essere un migrante “fuori status” (MOS) al momento della prima visita è risultato un fattore di rischio significativo per l’LTFU (rischio aumentato di 2.68 volte). Questo non sorprende: senza documenti regolari, anche solo rinnovare il codice STP (Straniero Temporaneamente Presente), che garantisce l’accesso alle cure urgenti e dura 6 mesi, può essere un percorso a ostacoli.
- Al contrario, essere una donna transgender e seguire una terapia con una singola compressa giornaliera (Single Tablet Regimen – STR) alla fine dello studio sono emersi come fattori protettivi!
Il fatto che le donne transgender siano più “aderenti” potrebbe sembrare controintuitivo rispetto ad alcuni dati di letteratura, ma a Firenze c’è una rete molto forte di associazioni del terzo settore (come CAT e LILA) che lavorano sul campo, offrendo supporto legale, informativo e creando un ponte con i servizi sanitari. Inoltre, il nostro personale è formato per utilizzare un linguaggio e un approccio clinico de-stigmatizzante. E non dimentichiamo che molte persone transgender potrebbero migrare anche per accedere a un sistema sanitario migliore, che offra terapia antiretrovirale e terapia ormonale, e questo potrebbe motivarle a seguire le cure con più attenzione.

La terapia STR, più semplice da assumere, è risaputo che favorisce l’aderenza e la ritenzione in cura. Meno pillole, meno stress, più facilità nel seguire le prescrizioni.
Limiti e Prospettive Future
Certo, il nostro studio ha dei limiti. È monocentrico, quindi i risultati potrebbero non essere generalizzabili a contesti diversi. La dimensione del campione, seppur significativa per un periodo di osservazione di 8 anni, diventa piccola se si analizzano sottogruppi specifici. E poi, la natura retrospettiva può nascondere fattori confondenti che non abbiamo misurato, come le barriere socio-culturali o la mobilità intrinseca dello status di migrante.
Nonostante questo, crediamo che il nostro lavoro offra spunti importanti. Conferma l’alta prevalenza di migranti peruviani a Firenze e la presenza significativa di donne transgender nella nostra coorte. Sottolinea che gli obiettivi UNAIDS non sono ancora pienamente raggiunti, soprattutto per quanto riguarda la ritenzione in cura, e che il tasso di LTFU è alto.
Cosa ci portiamo a casa? La consapevolezza che c’è un bisogno enorme di interventi mirati, cuciti su misura per le esigenze specifiche di queste popolazioni vulnerabili. Bisogna lavorare per facilitare l’accesso ai servizi, superare le barriere linguistiche e burocratiche, combattere lo stigma e rafforzare la collaborazione con le associazioni del territorio. Solo così potremo sperare di raggiungere davvero l’ambizioso obiettivo di un continuum di cura efficiente per tutti, senza lasciare indietro nessuno, specialmente chi, come i migranti con HIV, si trova spesso ai margini dei programmi sanitari tradizionali.
La strada è ancora lunga, ma studi come questo ci aiutano a capire meglio dove e come intervenire. E questa, per me, è già una vittoria.
Fonte: Springer
