Immagine fotorealistica di un paziente anziano con cannula nasale ad alti flussi (HFNO) in un letto d'ospedale, espressione serena ma contesto clinico evidente, luce naturale dalla finestra, obiettivo 50mm, profondità di campo media.

Ossigeno ad Alti Flussi nel COVID-19 Grave (e DNI): Aiuta Davvero a Sopravvivere o È un Vicolo Cieco?

Ragazzi, parliamoci chiaro. La pandemia di COVID-19 ci ha messo di fronte a sfide mediche enormi, specialmente quando si trattava di pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica acuta (AHRF), quella brutta bestia che ti toglie il fiato. E la situazione si complicava ancora di più per quei pazienti, spesso anziani e fragili, con un ordine di “non intubare” (DNI – Do Not Intubate). Cosa fare per aiutarli a respirare meglio senza ricorrere all’intubazione, una procedura che per loro era stata esclusa?

Una delle opzioni sul tavolo è stata l’ossigenoterapia nasale ad alti flussi (HFNO). Sembrava promettente, no? Un modo per dare tanto ossigeno, con un flusso bello potente, ma meno invasivo dell’intubazione. Molti ospedali l’hanno usata come “massima terapia” possibile per questi pazienti DNI. Ma la domanda che mi sono posto, e che si sono posti molti colleghi, è: funziona davvero meglio della cara vecchia ossigenoterapia convenzionale (COT) – quella con le mascherine o le cannule nasali standard – in questa specifica, delicatissima popolazione?

Sappiamo che in pazienti *senza* DNI, l’HFNO può ridurre la necessità di intubazione, anche se non sembra cambiare molto le carte in tavola sulla mortalità generale. Ma per i pazienti DNI, che sono per definizione più a rischio, più fragili, con più malattie pregresse… beh, lì le prove erano scarse. C’erano studi piccoli, retrospettivi, spesso senza un gruppo di confronto che usasse la COT. Insomma, navigavamo un po’ a vista.

Lo Studio Che Fa Luce (o Ombra?) sull’HFNO nei Pazienti DNI

Ecco perché mi ha colpito uno studio multicentrico piuttosto robusto che ha cercato di rispondere proprio a questa domanda. Hanno messo insieme i dati di tre studi osservazionali, focalizzandosi su pazienti ricoverati per COVID-19 con AHRF e un ordine DNI, trattati o solo con COT o con HFNO come terapia massimale. L’obiettivo principale era vedere se c’erano differenze nella mortalità ospedaliera. In secondo luogo, hanno guardato alla durata della degenza ospedaliera (LOS).

I ricercatori hanno analizzato i dati di 226 pazienti eleggibili, raccolti tra marzo 2020 e settembre 2021. Alla fine, ne hanno inclusi 218: 110 trattati con HFNO e 108 con COT. Chi erano questi pazienti? L’età media era alta, 78 anni, e la maggior parte (78%) era considerata vulnerabile o fragile secondo la Clinical Frailty Scale (CFS). Insomma, parliamo proprio del gruppo di pazienti più delicati.

Mortalità: Nessuna Differenza Significativa

E qui arriva il primo risultato un po’ spiazzante. La mortalità ospedaliera è stata altissima in entrambi i gruppi, come purtroppo c’era da aspettarsi data la gravità della malattia e la fragilità dei pazienti: parliamo del 67% in totale. Ma confrontando i due trattamenti, le differenze non erano statisticamente significative: 64% di mortalità nel gruppo HFNO contro il 71% nel gruppo COT (p=0.29). Anche dopo aver aggiustato i dati per tenere conto di fattori confondenti come età, fragilità, uso di desametasone e parametri respiratori (usando analisi statistiche multivariate belle complesse), il risultato non è cambiato: l’HFNO non è risultato associato a una riduzione della mortalità rispetto alla COT (Odds Ratio aggiustato 0.72, con un intervallo di confidenza che includeva l’1, quindi non significativo). Praticamente, in termini di sopravvivenza, usare l’HFNO non sembrava fare una differenza sostanziale rispetto alla terapia convenzionale in questi pazienti.

Fotografia realistica di un medico e un'infermiera che discutono accanto a un letto d'ospedale con un paziente anziano che riceve ossigenoterapia, luce soffusa, obiettivo prime 35mm, bianco e nero con toni blu e grigi per un'atmosfera seria.

Degenza Ospedaliera: L’HFNO la Allunga

Ma c’è un altro dato importante, forse ancora più sorprendente. La durata della degenza ospedaliera (LOS) è risultata significativamente più lunga nel gruppo trattato con HFNO rispetto a quello trattato con COT. Parliamo di una mediana di 11 giorni per l’HFNO contro 7 giorni per la COT (p<0.001). E questa differenza rimaneva anche dopo aver aggiustato per i fattori confondenti. Questo valeva sia per i pazienti che sopravvivevano, sia per quelli che purtroppo non ce la facevano. Quindi, non solo l'HFNO non migliorava la sopravvivenza, ma teneva i pazienti in ospedale per più tempo.

Si Può Prevedere Chi Ne Beneficerà (Anche Senza Sopravvivere)?

Un’altra domanda cruciale è: anche se non migliora la sopravvivenza, l’HFNO magari aiuta a stare meglio? Allevia la dispnea, il senso di soffocamento? O magari, possiamo identificare in anticipo quei (pochi) pazienti che potrebbero comunque trarne un qualche beneficio, anche solo in termini di tempo o comfort? Lo studio ha provato a cercare dei predittori di mortalità tra i pazienti trattati con HFNO, guardando parametri come la frequenza respiratoria, la saturazione di ossigeno (SpO2), la frazione inspirata di ossigeno (FiO2) e indici combinati come il rapporto S/F (SpO2/FiO2) e l’indice ROX (S/F diviso per la frequenza respiratoria), sia prima che durante le prime 24 ore di trattamento con HFNO.

I risultati? Abbastanza deludenti. Certo, livelli più bassi di SpO2 sembravano associati a una prognosi peggiore, ma le differenze assolute erano minime e la capacità predittiva complessiva di questi parametri (misurata con l’AUC, un indicatore statistico) era al massimo “moderata”. In pratica, è risultato molto difficile prevedere, sulla base dei parametri respiratori comunemente usati, chi sarebbe sopravvissuto e chi no tra i pazienti DNI trattati con HFNO. Altre variabili, come lo stato di salute pre-morboso o indici infiammatori, non sembravano fare la differenza in questo studio.

Primo piano macro di un display di monitoraggio dei parametri vitali in ospedale che mostra SpO2 e frequenza respiratoria, alta definizione, illuminazione controllata, obiettivo macro 90mm, numeri digitali nitidi.

Cosa Ci Portiamo a Casa da Questo Studio?

Beh, la conclusione principale è piuttosto netta: in pazienti con COVID-19 grave, insufficienza respiratoria ipossiemica e un ordine DNI, l’uso dell’ossigenoterapia ad alti flussi (HFNO) non è associato a un miglioramento della sopravvivenza rispetto all’ossigenoterapia convenzionale (COT), ma è associato a una degenza ospedaliera più lunga.

Questo non significa che l’HFNO sia inutile in assoluto per questi pazienti. Come sottolineano gli stessi autori, potrebbe avere un ruolo nell’alleviare sintomi come la dispnea e migliorare il comfort, aspetti fondamentali in un’ottica di cure palliative o di fine vita. Magari, quel tempo “guadagnato” in ospedale, anche se non porta alla guarigione, può essere prezioso per la famiglia, per le cure palliative, per prendere decisioni importanti. Però, l’evidenza su questi benefici “sintomatici” rimane incerta e non è stata misurata direttamente in questo studio.

Quindi, la decisione di usare l’HFNO in un paziente DNI con AHRF da polmonite virale (come il COVID-19) deve essere presa con grande cautela, bilanciando attentamente i potenziali (ma non provati per la sopravvivenza) benefici con i costi, sia in termini di risorse ospedaliere (specialmente in periodi di crisi come una pandemia) sia in termini di prolungamento della degenza per il paziente.

Fotografia grandangolare di un corridoio d'ospedale vuoto ma illuminato, senso di quiete ma anche di attesa, linee pulite, obiettivo grandangolare 18mm, luce fluorescente fredda, messa a fuoco nitida su tutta la scena.

È fondamentale discutere apertamente con i pazienti (quando possibile) e le loro famiglie degli obiettivi della cura: si cerca di prolungare la vita a tutti i costi (anche se le chance sono basse e la degenza si allunga)? O si privilegia il comfort, la riduzione della sofferenza, anche accettando un decorso più breve?

Questo studio ci ricorda che non sempre “di più” significa “meglio”, specialmente quando trattiamo pazienti molto fragili alla fine della loro vita. E ci spinge a cercare studi futuri che non guardino solo alla mortalità, ma anche alla qualità della vita, al controllo dei sintomi e alle reali necessità palliative di questi pazienti.

Fonte: Springer

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