Ricercatore in un laboratorio amazzonico che analizza campioni di sangue per la malaria, con microscopio e provette in primo piano, illuminazione da laboratorio controllata, obiettivo prime 35mm, profondità di campo.

Malaria in Amazzonia: Quando i Tuoi Geni Decidono se Avrai una Ricaduta!

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio affascinante nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, ma non per parlare solo di foreste lussureggianti e biodiversità incredibile. Parleremo di un nemico invisibile ma tenace: la malaria, e in particolare di come il nostro DNA possa giocare un ruolo sorprendente nel determinare se, dopo una cura, questa malattia tornerà a bussare alla nostra porta.

Sapete, la malaria è ancora un problema enorme in molte parti del mondo, specialmente nelle regioni tropicali e subtropicali. Pensate che nel 2022 ci sono stati circa 249 milioni di casi e oltre 600.000 morti! Qui in Sud America, e in particolare in Brasile, Venezuela e Colombia, si concentra la maggior parte dei casi del continente. E il protagonista principale, responsabile di circa il 72% dei casi nelle Americhe e ben l’83% in Brasile, è un parassita chiamato Plasmodium vivax.

Il problema delle ricadute con Plasmodium vivax

Una delle sfide più grandi nella lotta contro il P. vivax è la sua capacità di… nascondersi! Questo parassita può lasciare delle forme dormienti nel fegato, chiamate ipnozoiti, che possono risvegliarsi settimane o mesi dopo la cura iniziale, causando una ricaduta della malattia. È un bel grattacapo per l’eliminazione della malaria!

Per eliminare queste forme dormienti e ottenere una “cura radicale”, si usa un farmaco chiamato primachina (PQ). Ma ecco il punto: la primachina non agisce così com’è. Deve essere “attivata”, o meglio, metabolizzata dal nostro corpo per diventare efficace. E qui entrano in gioco i nostri geni.

Il ruolo chiave degli enzimi e della genetica

La trasformazione della primachina avviene principalmente grazie a due tipi di “operai” specializzati nel nostro corpo: gli enzimi del citocromo P450 (in particolare CYP2D6) e la monoamino ossidasi A (MAO-A). Questi enzimi sono codificati da geni specifici, e come ben sapete, non tutti abbiamo gli stessi geni. Esistono delle varianti, chiamate polimorfismi, che possono rendere questi enzimi più o meno efficienti.

Se un enzima coinvolto nel metabolismo della primachina funziona “a rilento” a causa di una variante genetica, il farmaco potrebbe non essere attivato correttamente. Risultato? La cura potrebbe fallire e gli ipnozoiti nascosti nel fegato potrebbero risvegliarsi, causando una ricaduta. Questo campo di studio, che lega la genetica alla risposta ai farmaci, si chiama farmacogenetica, ed è fondamentale per capire queste dinamiche.

Oltre a CYP2D6 e MAO-A, abbiamo considerato anche un altro gene, UGT2B7, coinvolto nel metabolismo di molti composti, anche se il suo ruolo esatto con la primachina è ancora da chiarire completamente. Alcuni studi suggerivano potesse avere un’influenza, magari in combinazione con altri geni.

La nostra indagine in Amazzonia

La domanda che ci siamo posti è stata: queste varianti genetiche nei geni CYP2D6, MAOA e UGT2B7 possono davvero influenzare il rischio di ricaduta della malaria da P. vivax nei pazienti dell’Amazzonia brasiliana trattati con primachina?

Per scoprirlo, abbiamo condotto uno studio caso-controllo. Abbiamo coinvolto 72 persone con malaria da P. vivax. Di queste, 18 avevano avuto una ricaduta (i “casi”) tra 28 e 180 giorni dopo il trattamento iniziale, mentre 54 non ne avevano avute (i “controlli”). Abbiamo prelevato campioni di sangue e analizzato il loro DNA per cercare specifiche varianti (polimorfismi o SNP) nei tre geni di interesse, usando tecniche come il TaqMan assay e la PCR in tempo reale. Abbiamo anche misurato i livelli di primachina nel sangue di alcuni partecipanti.

Fotografia macro di provette contenenti campioni di sangue in un rack da laboratorio, con focus preciso sui campioni e sfondo leggermente sfocato che mostra attrezzature scientifiche, illuminazione controllata da laboratorio, obiettivo macro 90mm, alto dettaglio.

I risultati: cosa ci ha detto il DNA?

Ebbene, i risultati sono stati davvero interessanti!

Focus su CYP2D6:
Abbiamo scoperto che una particolare variante del gene CYP2D6, chiamata allele *4, che è nota per ridurre l’attività dell’enzima, era significativamente più frequente nel gruppo con ricadute (16.7%) rispetto al gruppo senza ricadute (4.6%). Questo è un segnale forte!
Inoltre, classificando i pazienti in base alla capacità metabolica prevista del loro enzima CYP2D6 (grazie alla combinazione delle varianti trovate), abbiamo visto che i “metabolizzatori normali” (gNM) erano molto più comuni nel gruppo senza ricadute (75.6%) rispetto al gruppo con ricadute (50.0%). Al contrario, chi aveva un metabolismo previsto intermedio o lento (gIM/gPM) aveva un rischio relativo di ricaduta più che doppio (RR = 2.13), anche se questo risultato era al limite della significatività statistica (p=0.066). Questi dati confermano studi precedenti, anche nella regione amazzonica, che collegano una ridotta attività del CYP2D6 a un maggior rischio di fallimento della primachina e quindi a più ricadute. Sembra proprio che avere un CYP2D6 “pigro” renda più difficile per la primachina fare il suo lavoro contro gli ipnozoiti.

Il ruolo di MAOA:
Per quanto riguarda il gene MAOA, la situazione è un po’ più sfumata. Non abbiamo trovato una differenza statisticamente significativa nella frequenza delle varianti tra i due gruppi nell’analisi generale. Tuttavia, analizzando il tempo trascorso fino alla ricaduta, abbiamo osservato qualcosa di curioso: le persone con genotipi MAOA mutati (CC o CT per la variante rs1137070) tendevano ad avere una ricaduta in tempi più brevi rispetto a chi aveva il genotipo “selvatico” (TT). Questo suggerisce che anche le varianti di MAOA potrebbero giocare un ruolo, magari influenzando la velocità con cui la malattia si ripresenta, anche se il meccanismo esatto e l’impatto complessivo richiedono ulteriori indagini. Alcuni studi ipotizzano che una ridotta attività di MAO-A potrebbe persino essere protettiva (lasciando più primachina libera per essere attivata da CYP2D6), mentre altri suggeriscono un effetto additivo negativo se combinata con un CYP2D6 poco funzionante. I nostri dati sembrano indicare una maggiore suscettibilità alla ricaduta precoce con le varianti mutate, ma è un’area che merita più approfondimento.

E UGT2B7?
Per il gene UGT2B7, le analisi non hanno mostrato alcuna associazione significativa con le ricadute di malaria nel nostro campione. Né le frequenze degli alleli né quelle dei genotipi differivano tra il gruppo con ricadute e quello senza. Quindi, almeno in base ai nostri dati, questo gene non sembra essere un fattore determinante per il fallimento della primachina in questo contesto.

Visualizzazione grafica di una curva di sopravvivenza Kaplan-Meier su uno schermo di computer in un laboratorio di ricerca, che mostra la differenza nel tempo alla ricaduta della malaria tra gruppi genetici, luce ambientale soffusa, messa a fuoco sullo schermo.

Implicazioni e Sguardo al Futuro

Cosa significa tutto questo? Beh, i nostri risultati rafforzano l’idea che la genetica individuale, in particolare le varianti del gene CYP2D6, abbia un impatto reale sull’efficacia della primachina contro la malaria da P. vivax. Avere un profilo genetico da “metabolizzatore normale” sembra offrire una maggiore protezione contro le ricadute. I dati su MAOA, seppur preliminari, suggeriscono che il quadro potrebbe essere ancora più complesso e coinvolgere più geni.

Questo sottolinea l’importanza crescente della farmacogenetica nel monitoraggio delle terapie antimalariche. In futuro, conoscere il profilo genetico di un paziente per geni come CYP2D6 potrebbe aiutare a personalizzare il trattamento, magari aggiustando la dose di primachina o scegliendo farmaci alternativi per chi ha varianti associate a un metabolismo ridotto.

Certo, il nostro studio ha delle limitazioni: il numero di partecipanti non era enorme, non abbiamo potuto supervisionare direttamente l’assunzione del farmaco (che può influenzare l’aderenza), abbiamo dedotto l’attività enzimatica dai genotipi (il fenotipo reale potrebbe variare), non abbiamo distinto tra ricadute vere e proprie (risveglio degli ipnozoiti) e reinfezioni, e abbiamo analizzato solo tre geni.

Serviranno studi più ampi, con metodi più diretti per misurare l’attività enzimatica e analisi genetiche più complete (magari anche del parassita!) per dipingere un quadro completo. Inoltre, sta emergendo un nuovo farmaco, la tafenoquina, che richiede una sola dose e sembra avere un’efficacia comparabile o superiore alla primachina, rappresentando una promettente alternativa, specialmente per migliorare l’aderenza al trattamento.

In conclusione, la battaglia contro la malaria da P. vivax è complessa, e il nostro DNA aggiunge un ulteriore livello di complessità. Capire come i nostri geni interagiscono con i farmaci è un passo cruciale per sviluppare strategie terapeutiche più efficaci e personalizzate, avvicinandoci all’obiettivo di eliminare questa malattia persistente, soprattutto in regioni vulnerabili come l’Amazzonia.

Fonte: Springer

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