Fotografia grandangolare, 15mm, di un complesso residenziale popolare francese (banlieue) al tramonto, con le luci della lontana Parigi che brillano all'orizzonte, evocando il tema della distanza, del desiderio e delle barriere all'appartenenza. Illuminazione controllata, messa a fuoco nitida su tutto il panorama, cielo con colori caldi e freddi contrastanti.

Gay ai Margini: Quando la Banlieue Sfida il Mito della Fuga a Parigi

Parliamoci chiaro, quando pensiamo agli uomini gay, specialmente in un contesto come quello francese, l’immagine che spesso salta alla mente è quella del Marais a Parigi, dei locali scintillanti, della libertà sbandierata. Una sorta di “fuga verso la città” quasi obbligata per chi scopre la propria omosessualità lontano dal centro, magari in quelle che chiamiamo banlieues, i quartieri popolari della periferia. Ma siamo sicuri che sia sempre così? Che questa narrazione, un po’ patinata, racconti davvero la storia di tutti?

Ecco, oggi voglio portarvi proprio lì, ai margini, in quelle grandi aree residenziali dell’Île-de-France, per esplorare le esperienze di uomini che amano altri uomini e che vivono o hanno vissuto in questi contesti. Ci basiamo su uno studio affascinante che mette in discussione proprio quell’idea della “fuga” come unica via d’emancipazione. Adottando un approccio che potremmo definire di “intersezionalità situata” – che significa guardare a come razza, classe sociale, sessualità e persino il luogo in cui vivi si intrecciano e influenzano la vita di una persona in modi specifici – cerchiamo di capire cosa spinge davvero questi uomini a muoversi (o a non muoversi) verso gli spazi gay commerciali parigini.

Il Richiamo (Temporaneo) della Metropoli

Per anni, sociologi e geografi ci hanno raccontato di come la mobilità verso le grandi città sia stata fondamentale nella biografia di molti uomini gay. L’idea era semplice: scappare da un ambiente percepito come omofobo per rifugiarsi in uno più tollerante, i cosiddetti “quartieri gay”. Questi spazi sono stati a lungo visti quasi come dei “ghetti” (un termine usato, forse un po’ alla leggera, anche da studiosi come Michael Pollak negli anni ’80), luoghi dove una minoranza si ritrova e sviluppa una propria cultura. Frequentare bar, locali, partecipare ai Pride sembrava quasi un rito di passaggio obbligato per costruire la propria “carriera gay” – un concetto, preso in prestito da sociologi come Becker, che ci aiuta a vedere l’omosessualità non come un destino unico, ma come un percorso modellato dalle relazioni sociali.

Ma, come suggerisce Colin Giraud, la scelta di vivere in questi quartieri (e lo stile di vita associato) dipende molto dalle socializzazioni passate e future. E, diciamocelo, gran parte della ricerca si è concentrata sulle grandi città europee e nordamericane, lasciando un po’ nell’ombra le realtà periferiche. Si è creata una sorta di dicotomia: centro urbano = gay-friendly, periferia/quartieri popolari = ostili. Un’opposizione spesso cavalcata da discorsi un po’ tossici, quelli che chiamiamo omonazionalisti, che usano la presunta omofobia delle periferie (spesso associate all’immigrazione) per marginalizzare ulteriormente certe popolazioni. Il risultato? Un’invisibilità quasi totale, sia scientifica che sociale, degli uomini gay che vivono in questi territori “esterni”.

Fotografia notturna di una strada animata nel quartiere Marais di Parigi, con le luci al neon dei bar gay che si riflettono sull'asfalto bagnato. Persone che chiacchierano fuori dai locali. Obiettivo 35mm, profondità di campo ridotta per sfocare leggermente lo sfondo, stile Film Noir con forti contrasti e ombre.

Le Prime Scoperte e l’Illusione della Libertà

Eppure, nonostante i pregiudizi, la vita e gli spostamenti di questi uomini restano in gran parte sconosciuti. Come navigano, allora, gli uomini gay che vivono o hanno vissuto nelle cités dell’Île-de-France, in un contesto di presunta marginalizzazione sociale e omofobia? Lo studio su cui ci basiamo cerca di rispondere proprio a questo, parlando con trenta di loro. E quello che emerge è affascinante.

All’inizio della loro “carriera”, molti effettivamente frequentano i centri urbani. Thibault, un venditore di 35 anni cresciuto in Seine-Saint-Denis (il famoso ’93’), racconta la scoperta del “mondo gay” parigino come un’esplosione: “All’inizio, è come una festa nella tua testa! […] vai nelle saune per la prima volta, è pazzesco, ragazzi nudi ovunque, puoi fare quello che vuoi con chi vuoi… sei a Disneyland!”. Un’esperienza liberatoria, soprattutto se confrontata con l’atmosfera percepita come virile e eteronormativa della periferia, magari vissuta in contesti come le associazioni sportive. Yannick, parrucchiere bianco di 40 anni, descrive la sua vita nella cité come “confinante” e l’arrivo a Parigi a 16 anni come una “seconda nascita”, un momento in cui si è sentito finalmente “libero”.

Anche Soufiane, 48 anni, di origini marocchine e algerine, ha scoperto questo mondo grazie a un’amica conosciuta durante gli studi, che lo ha introdotto nei club gay parigini (Privilège, Scorp, Queen…). Per lui, cresciuto sotto una forte pressione familiare (incluso un matrimonio con una donna), questi spazi sono stati accessibili solo nei momenti di maggiore distanza dalla famiglia. Insomma, la scoperta degli spazi gay centrali sembra davvero un passaggio comune all’inizio. Per alcuni, è un modo per riscoprirsi dopo una vita prevalentemente eterosessuale. C’è una sorta di “abbuffata” iniziale di questi luoghi.

Quando il Centro Diventa Stretto: L’Eccesso e la Femminilità

Ma questa fase di euforia spesso non dura. Molti, specialmente i più giovani o chi preferisce eventi “queer” meno mainstream e più inclusivi fuori dal centro, iniziano a vedere questi spazi commerciali (bar, feste, il Marais stesso) come troppo “chiassosi e orgogliosi” (“loud and proud”). E qui entrano in gioco ragioni complesse, un intreccio di genere, classe sociale e razza.

Younes, insegnante di 35 anni di origine araba (“rebeu”, come dice lui), passa dal Marais ma non si ferma nei locali: “Mi sento sempre a disagio quando è troppo. […] quelli che sono ‘out and proud’, è una loro scelta, […] ma quando è troppo, faccio fatica”. Questa riluttanza verso l'”eccesso” è legata alla percezione di una femminilità e di una sessualità esagerate, che cozzano con la sua socializzazione primaria. Hugo, 26 anni, bianco, cresciuto in una cité, lo dice chiaramente: “essere gay non significa per forza amare quell’ambiente”, trovando che gli omosessuali lì “esagerino”.

La figura della “queen” (la “folle” in francese), con la sua visibilità e femminilità esibita, è spesso citata come respingente. Molti intervistati fanno riferimento alle norme di genere rigide vissute nell’infanzia nei quartieri popolari, che li hanno portati ad adattare comportamenti e abbigliamento. C’è un rifiuto della performance di femminilità da parte di chi si identifica come uomo. Pur essendo gay, non mettono necessariamente in discussione l’ordine di genere tradizionale. Si sentono distanti da quei codici culturali – l’enfasi sull’apparenza, ad esempio – che percepiscono come borghesi e poco “autentici”, poco virili secondo i loro canoni.

Ritratto intimo di un giovane uomo dall'aspetto riflessivo, seduto su una panchina in un parco di periferia al tramonto. Luce calda e morbida. Obiettivo 50mm, profondità di campo ridotta per isolare il soggetto, pellicola bianco e nero per un tocco emotivo.

Yannick, il parrucchiere, dopo l’entusiasmo iniziale, ha sviluppato una forte critica verso la cultura gay del Marais lavorando in un salone del quartiere. Racconta di clienti “insopportabili”, “irritanti”, troppo esigenti sull’acconciatura, arrivando quasi a “diventare omofobo”. Un episodio in un bar, dove un cliente lo palpeggia “perché siamo gay”, lo segna profondamente: “Essere gay è una scelta sessuale. Non significa che devo toccare il culo a tutti”. La sua socializzazione in un ambiente di mascolinità operaia, attenta al corpo ma in senso virilizzante (lontana dalla femminilità), lo porta a rifiutare queste interazioni e, in fondo, a preferire relazioni con uomini che incarnano una mascolinità più simile a quella della sua gioventù, spesso uomini di colore, distanti dalla figura della “queen”. Si allinea quasi alla figura del “gay molto etero” descritta da Connell.

Il Privato è Privato: Sessualità e Famiglia

Per Martin, 40 anni, bianco, cresciuto e tornato a vivere in una cité, frequentare il Marais per un anno lo ha quasi fatto “diventare il Marais”, un luogo pieno di “trappole”, droga, e il rischio di diventare una “puttana” (uno stigma per lui), simile alla comunità chiusa della sua cité dove tutto si sa subito. Tornare alla sua vita “normale”, alle sue tute e scarpe da ginnastica (l’abbigliamento stereotipato dei giovani di periferia, rifiutato dalle classi medie ma per lui simbolo di autenticità), è stato un modo per ritrovare se stesso e una forma di omosessualità “rispettabile”, orientata all’amore più che agli incontri occasionali.

Per molti, poi, la sessualità è una questione privata, da non sbandierare, specialmente in famiglia. Younes, molto legato alla sua famiglia di cultura musulmana e araba, non parla della sua omosessualità con i parenti: “Perché dovrei imporre alla mia famiglia cose personali, che creeranno sofferenza, conflitti? Non ne vedo il senso”. Questa percezione dell’omosessualità come qualcosa di “indicibile” rende la frequentazione di spazi gay ancora più problematica. L’omosessualità visibile, l’affetto mostrato in pubblico, viene percepito come esibizionismo, contrario ai suoi valori di rispetto e privacy. Critica il “mondo gay” perché non ne ha bisogno: “La sessualità è intima e personale. […] Non ha bisogno di essere esposta”.

Questa necessità di discrezione è amplificata, per uomini come Younes e Amir (23 anni, arabo, vive ancora in cité), dall’esperienza della categorizzazione razziale stigmatizzante. Younes si sente a suo agio nel quartiere, dove c’è solidarietà, ma a Parigi si sente guardato “stranamente” perché arabo. L’omosessualità aggiunge un altro strato di marginalizzazione. La discrezione diventa una strategia di sopravvivenza. Amir sottolinea che il suo non “sembrare gay” (presentarsi in modo maschile) gli permette di rendere lo stigma invisibile. Frequentare il Pride o il Marais significherebbe esporsi.

Quando la Comunità Esclude: Razzismo e Feticizzazione

E poi c’è l’ultimo, pesante macigno: il razzismo e la discriminazione all’interno della stessa comunità gay. Questo complica terribilmente la narrazione della “fuga in città”. In Francia, la figura della racaille (il “teppista” di periferia, stereotipicamente etero, spesso arabo o nero) diventa paradossalmente un feticcio sessuale ma anche un motivo di esclusione negli spazi gay. Essere arabo o nero e venire dalla banlieue ti rende desiderabile per alcuni (in modo esotizzante e oggettificante) ma pericoloso per altri.

Alcuni intervistati raccontano di appuntamenti cancellati non appena rivelano il loro luogo di residenza, percepito come pericoloso. Ma più spesso, il problema è la feticizzazione. Nassim, 23 anni, studente della Seine-Saint-Denis, racconta di domande assurde ricevute su app di incontri: “Sei un vero arabo della cité?”. E richieste come: “Se vieni, mettiti le tue [Nike] TN”. “Capisci che non sono eccitati dalla persona, ma dal cliché dell’arabo della cité”, commenta amaramente. Qui, classe, razza, luogo di residenza e rappresentazioni collettive si fondono in un atto feticizzante che affonda le radici anche nella storia coloniale francese.

Scena notturna fuori da un club techno parigino. Un giovane uomo dall'aspetto nordafricano, vestito con una tuta sportiva, discute animatamente ma a distanza con un buttafuori all'ingresso. Luci fredde e atmosfera tesa. Obiettivo zoom 100mm, messa a fuoco selettiva sul volto del giovane, leggero effetto mosso per trasmettere tensione.

Adem, 26 anni, di origine turca, fan della techno, si è visto negare l’ingresso a una festa techno perché il suo abbigliamento (tuta e scarpe da ginnastica, giustificate dal freddo) non corrispondeva all’immagine attesa, venendo etichettato come “non techno” e, implicitamente, come una potenziale minaccia (la racaille). Solo l’intervento dell’organizzatore gli ha permesso di entrare. Un chiaro esempio di come classe, razza e genere (e sessualità presunta) interagiscano nel negare l’accesso.

C’è anche chi, come Firmin, 50 anni, nero, dirigente d’azienda, non ha vissuto la cité da giovane ma solo più tardi con un partner, e vede il suo essere nero come un “vantaggio” negli ambienti gay, dove “i neri sono molto apprezzati”. Frequentando da giovane club prevalentemente afro-caraibici, si è sentito protetto dal razzismo. La sua prospettiva “color-blind” (che non vede il colore) mette in luce solo i vantaggi sessuali, ignorando forse le discriminazioni più sottili o l’essenzializzazione. Questa iper-sessualizzazione dei corpi neri, che può essere vista come risorsa da alcuni (facilita incontri sessuali) ma come dannosa da altri (ostacola relazioni serie), è un’altra faccia della medaglia del razzismo comunitario.

“Gay Fuori dal Coro”: Ridefinire l’Appartenenza

Insomma, la vecchia idea che gli uomini gay debbano per forza “fuggire in città” per trovare se stessi e la libertà non regge alla prova dei fatti, almeno non per tutti. Le esperienze di questi uomini provenienti dalle banlieues francesi ci mostrano una realtà molto più complessa. Gli spazi gay centrali, come il Marais, spesso vengono abbandonati o visti con sospetto perché incarnano un’omosessualità percepita come troppo visibile, troppo femminile, troppo focalizzata sul sesso, troppo bianca e borghese.

Questi uomini si definiscono gay, sì, ma potremmo chiamarli “gay fuori dal coro” (“outsider gays”). La loro identità è plasmata da un continuo andirivieni tra la socializzazione primaria (nel quartiere, in famiglia, con le sue norme di classe, razza e genere) e quella secondaria, omosessuale, che viene filtrata, accettata in parte, rifiutata in altra. La loro mascolinità, che combina l’adesione a certe aspettative tradizionali con l’accettazione della propria omosessualità, ricorda quella di altri uomini gay cresciuti in contesti rurali o periferici. Non è necessariamente una politicizzazione (come quella dei gay di destra che rifiutano il Marais), perché qui l’omosessualità è vissuta come privata, non sempre nascosta, ma raramente discussa o messa al centro della propria identità.

Questo studio ci apre gli occhi su come le discriminazioni (razzismo, classismo) operino concretamente anche all’interno delle comunità LGBTQ+, creando barriere all’accesso e all’appartenenza. E ci ricorda che c’è ancora tanto da capire su come si vive l’omosessualità *dentro* questi spazi periferici, lontano dai riflettori del centro. Come si esprimono le minoranze sessuali e di genere a livello locale? Come si formano i loro stili di vita, intrecciando sessualità e altre appartenenze? Domande aperte, che meritano risposte per avere un quadro davvero completo.

Fonte: Springer

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *