Fotografia ritratto in stile film noir, obiettivo 24mm, di un accademico cinese il cui volto è parzialmente in ombra, con simboli di pubblicazioni scientifiche e grafici di ranking universitari che incombono sullo sfondo, creando un'atmosfera di pressione e conflitto interiore, profondità di campo.

Frode Scientifica nelle Università Cinesi: Un Viaggio nelle Emozioni Sotto Pressione

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento spinoso ma affascinante: la frode scientifica, o “research misconduct”, come dicono gli anglofoni. Nello specifico, ci tufferemo nel contesto delle università cinesi, ma da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Spesso, quando si parla di queste cose, si punta il dito sulla morale individuale, sulla mancanza di controlli o sulle pressioni istituzionali. Tutto vero, per carità. Ma se vi dicessi che c’è un lato nascosto, un motore potente e spesso ignorato dietro a queste storie? Parlo delle emozioni.

Sì, avete capito bene. Stress, ansia, frustrazione, paura… sentimenti molto umani che possono giocare un ruolo cruciale nel spingere alcuni ricercatori oltre il limite dell’integrità accademica. Mi sono imbattuto in uno studio recente che esplora proprio questo aspetto, utilizzando teorie prese in prestito dalla sociologia e dalla criminologia delle emozioni. L’idea di fondo è intrigante: analizzare come lo stress lavorativo, alimentato da politiche nazionali aggressive che spingono per pubblicazioni scientifiche sempre più influenti su riviste internazionali di primo piano, possa influenzare lo stato emotivo dei docenti universitari in Cina.

La Corsa Sfrenata alle Pubblicazioni: L’Iniziativa “Double First-Class”

Al centro di tutto c’è un piano nazionale cinese per l’istruzione superiore e la riforma accademica chiamato “Double First-Class University Initiative”. Lanciato nel 2017, questo programma offre incentivi significativi ai ricercatori delle università cinesi d’élite per produrre un numero crescente di articoli su riviste internazionali di alto livello. L’obiettivo? Scalare le classifiche universitarie globali (come THE e QS) e rafforzare il prestigio accademico e tecnologico del paese sulla scena mondiale.

Bello, no? Peccato che, come spesso accade, le buone intenzioni si scontrino con la realtà. Le università, per rispondere a queste richieste pressanti del governo centrale e per ottenere riconoscimenti (e magari promozioni per i loro dirigenti), hanno adottato politiche interne piuttosto aggressive. Si è passati da un focus sulla ricerca e l’insegnamento a una vera e propria caccia alle pubblicazioni su riviste con alto “impact factor” (IF).

Questa pressione si è tradotta, a livello di facoltà e dipartimenti, in una versione cinese del famigerato “publish or perish” (pubblica o muori). Le carriere accademiche, le promozioni, persino la sicurezza del posto di lavoro, sono state legate a doppio filo al numero e alla “qualità” (leggi: IF della rivista) delle pubblicazioni. Immaginatevi la pressione: criteri di valutazione sempre più stringenti, annunciati magari con poco preavviso. Un professore assistente raccontava come i requisiti fossero passati, da un anno all’altro, da tre pubblicazioni generiche su riviste di alto livello a tre pubblicazioni specifiche su riviste SCI internazionali classificate nel secondo quartile o superiore, oppure cinque su riviste nazionali di punta. Una bella differenza!

Il Peso Emotivo sulle Spalle dei Ricercatori

Questa corsa sfrenata non è senza conseguenze sul benessere psicologico dei ricercatori. Molti si sentono schiacciati. Volevano contribuire alla scienza, essere riconosciuti, ma si ritrovano intrappolati in un meccanismo che sembra svuotare di significato il loro lavoro. Una professoressa associata, ad esempio, confessava di vedere ormai la cattedra quasi come un “lavoro part-time”, avendo perso la passione per una ricerca finalizzata solo a soddisfare i criteri di valutazione. “Solo chi ha una vera passione o non ha più paura di perdere il posto si dedica davvero all’accademia”, diceva, ammettendo di non avere più quegli “ideali nobili”.

Fotografia ritratto di un ricercatore universitario cinese, uomo, età 40 anni, espressione stressata e stanca, seduto a una scrivania ingombra di articoli scientifici e libri in un ufficio poco illuminato, obiettivo primario 35mm, profondità di campo, bicromia blu e grigio.

Interessante notare come lo studio suggerisca che i docenti con dottorato ottenuto all’estero possano sentirsi ancora più spaesati e stressati rispetto ai colleghi formati in Cina, forse per una minore familiarità con le dinamiche specifiche del “publish or perish” cinese. Un assistente professore formatosi all’estero parlava di una “lotta contro il tempo” e di requisiti di pubblicazione altissimi, molto diversi da quelli sperimentati altrove. Al contrario, un collega formatosi in patria, pur descrivendo ogni promozione come una “resurrezione dai morti” a causa della pressione mentale, sembrava più rassegnato: “Possiamo solo lamentarci un po’, ma dobbiamo comunque lavorare sodo per pubblicare”.

Le conseguenze sulla salute mentale possono essere serie. Alcuni ricercatori hanno dovuto cercare aiuto da psichiatri o psicologi per gestire lo stress. Un professore associato raccontava la sua battaglia contro la depressione, scatenata dalle difficoltà nel pubblicare e dal rifiuto dei superiori di concedergli più tempo per la valutazione, nonostante le sue condizioni. Un altro aspetto emerso è la maggiore pressione sui ricercatori formati in Cina a causa delle competenze linguistiche in inglese, spesso meno solide rispetto a chi ha studiato all’estero, rendendo più arduo pubblicare sulle ambite riviste internazionali SCI.

Lo studio ha coinvolto due università, una di altissimo livello (U1) e una di livello medio (U2), entrambe inserite nell’Iniziativa. Come prevedibile, la pressione e la severità dei criteri erano maggiori in U1, dove c’era “meno pietà” per chi non raggiungeva gli obiettivi. In U2, pur essendoci una maggiore disponibilità a concedere seconde possibilità (spesso a costo di retrocessioni temporanee o tagli di stipendio), la tensione rimaneva alta. Nessuno si fidava delle rassicurazioni dei dirigenti e tutti sentivano la necessità di “non abbassare la guardia” per non rischiare il posto o un declassamento a ruoli amministrativi, visto come un “insulto” all’identità di studioso.

Quando la Pressione Porta alla Scorciatoia

Ed eccoci al punto cruciale. Cosa succede quando ti senti con le spalle al muro, stressato, ansioso, senza canali efficaci per sfogarti o ricevere supporto emotivo? Lo studio rivela una realtà preoccupante: in un ambiente dove “tutti scrivono e pubblicano freneticamente per mantenere il posto, con poca comunicazione o supporto reciproco”, alcuni ricercatori iniziano a cercare delle scorciatoie.

La sfida principale diventa velocizzare la preparazione dei “documenti” richiesti per le valutazioni, ovvero le pubblicazioni. Per molti, non ci sono trucchi: bisogna seguire il processo accademico passo dopo passo, il che richiede tempo e fatica enormi. Ma per altri, deviare dalle regole, commettere atti di “research misconduct”, diventa una strategia per allentare la pressione.

È qui che l’analisi emotiva diventa potente. L’integrità nella ricerca è fondamentale, certo. Ma per alcuni intervistati, in un ambiente così competitivo dove seguire le regole non garantisce la sopravvivenza, la priorità diventa assicurarsi il posto. E, sorprendentemente, commettere una frode può persino portare un certo “sollievo” emotivo. Un ricercatore ammetteva candidamente di aver usato “vari modi, anche spendendo soldi” per preparare i documenti necessari alla promozione ad associato, godendosi il tempo risparmiato per i suoi hobby, cosa impensabile durante la promozione precedente. Non considerava più l’integrità accademica una priorità assoluta.

Fotografia macro, obiettivo 60mm, di un bivio confuso tra percorsi intricati e aggrovigliati su una vecchia mappa accademica, illuminazione controllata e drammatica, alto dettaglio, a simboleggiare la difficile scelta etica nella ricerca.

A volte, la frode viene vista quasi come una forma di resistenza contro un’ingiustizia percepita. Ad esempio, un professore a cui era stata negata una proroga per la valutazione nonostante un recente intervento chirurgico, si è sentito così arrabbiato per l'”atteggiamento disumano” dei suoi capi da ricorrere all’assunzione di qualcuno per scrivere i suoi articoli (“ghostwriting”). In casi più rari, la frode può diventare addirittura uno strumento di vendetta personale contro colleghi influenti o “stelle accademiche” percepite come ostili, pubblicando dati falsificati all’interno del loro gruppo di ricerca per poi far emergere “casualmente” la frode e danneggiarne la reputazione.

Capire il Meccanismo: Emozioni e Comportamenti Devianti

Come si spiega questo legame tra pressione, emozioni e frode? Le teorie usate nello studio ci aiutano.

  • La Teoria della Valutazione (Appraisal Theory) suggerisce che le nostre emozioni nascono da come valutiamo una situazione. La pressione del “publish or perish” è l'”evento”. I ricercatori lo valutano: soddisfa le mie aspettative? Mi mette in pericolo? Questa valutazione (spesso negativa, vista la minaccia al posto di lavoro) genera emozioni negative (stress, ansia, depressione).
  • Il Component Process Model (CPM) approfondisce questo processo, vedendo le emozioni come un ciclo continuo innescato da un evento che minaccia il nostro benessere o i nostri obiettivi.
  • La General Strain Theory (GST), dalla criminologia, spiega come certi tipi di “tensione” (strain), specialmente se percepite come ingiuste e intense, generino emozioni negative (come la rabbia) che creano una “pressione per un’azione correttiva”. La frode può diventare uno dei metodi, magari non il più legale, per “far fronte” a questa pressione.

In pratica, le politiche istituzionali aggressive (il livello meso) creano stress lavorativo (livello micro). Questo stress viene interiorizzato come emozioni negative. La mancanza di vie di sfogo e la necessità percepita di “sopravvivere” spingono alcuni a cercare “salvezza” nella frode scientifica (comportamento deviante). Questo comportamento, a sua volta, può portare a un “premio emotivo”, sia per aver raggiunto l’obiettivo (la promozione, il mantenimento del posto) sia per aver alleviato, seppur temporaneamente e in modo illecito, le emozioni negative. È un circolo vizioso preoccupante, soprattutto perché alcuni sembrano considerare la frode come un modo “legittimo” per andare avanti nella carriera.

Oltre la Colpa: Uno Sguardo Nuovo sul Problema

Questo studio, quindi, non vuole difendere chi commette frodi, sia chiaro. Ma ci offre una lente potentissima per capire le cause profonde del fenomeno, andando oltre la semplice condanna individuale o la critica generica alle istituzioni. Ci mostra come fattori istituzionali (le politiche “publish or perish”) si traducano in un pesante fardello emotivo per gli individui, e come questo fardello possa, in alcuni casi, sfociare in comportamenti devianti.

L’analisi emotiva fa da ponte tra le analisi istituzionali e il comportamento individuale, spiegando la transizione in modo più preciso. Ignorare le emozioni dei ricercatori significa perdere un pezzo fondamentale del puzzle. Forse, per affrontare davvero il problema della frode scientifica, non basta inasprire le regole o migliorare i controlli. Forse bisogna anche iniziare a pensare a come creare un ambiente accademico che non schiacci emotivamente le persone che dovrebbero essere la linfa vitale della scienza e della conoscenza.

È una riflessione importante, non solo per la Cina, ma per il mondo accademico globale, sempre più competitivo e, a volte, disumanizzante.

Fonte: Springer

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