Frattura dell’anca: il portafoglio e i libri contano più del bisturi per stare meglio?
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa che mi ha fatto davvero riflettere. Parliamo di fratture dell’anca, un problema serio, soprattutto per i nostri anziani. Sapete, ogni anno in Norvegia quasi 9.000 persone si rompono un femore, e con l’invecchiamento della popolazione, questi numeri sono destinati a salire. Non è solo una questione di ossa rotte; è un evento che può stravolgere la vita, peggiorando la qualità della salute, aumentando il dolore e la disabilità.
Ma c’è un aspetto che forse non consideriamo abbastanza: il nostro background socioeconomico. Intendo dire: il livello di istruzione che abbiamo raggiunto o quanto guadagniamo possono influenzare come ci riprendiamo dopo un’operazione all’anca? Sembra strano, vero? Eppure, uno studio norvegese imponente, basato sui dati di oltre 35.000 pazienti tra il 2014 e il 2018, ha provato a rispondere proprio a questa domanda. E i risultati, ve lo dico, sono piuttosto interessanti.
Lo studio norvegese: numeri e metodi
Immaginatevi un’indagine su scala nazionale, che collega i dati del Registro Norvegese delle Fratture dell’Anca con quelli dell’Ufficio di Statistica Norvegese. Hanno preso in esame 35.206 pazienti (per lo più donne, circa il 67%, con un’età media di 83 anni) operati per frattura dell’anca (quelle classificate con i codici ICD-10 S72.0-S72.2).
Cosa volevano capire? Se il livello di istruzione (basso, medio, alto) e il reddito familiare (diviso in tre fasce: basso, medio, alto) avessero un impatto su come i pazienti stessi valutavano la loro guarigione. Per farlo, hanno usato delle scale chiamate VAS (Visual Analog Scales), che sono fondamentalmente delle linee su cui il paziente indica un punto da 0 a 100 per esprimere:
- La propria salute generale percepita (EQ-VAS: 0 = peggiore immaginabile, 100 = migliore immaginabile).
- Il dolore medio all’anca operata nell’ultimo mese (Pain-VAS: 0 = nessun dolore, 100 = peggior dolore possibile).
- La soddisfazione per il risultato dell’operazione (Satisfaction-VAS: originariamente 0 = più soddisfatto, ma invertita per l’analisi, quindi 100 = più soddisfatto).
Queste valutazioni sono state raccolte a 4, 12 e 36 mesi dopo l’intervento. Ovviamente, i ricercatori hanno tenuto conto di altri fattori che potevano influenzare i risultati, come l’età, il sesso, lo stato di salute generale prima dell’intervento (usando la classificazione ASA), la presenza di deficit cognitivi e il tipo di intervento chirurgico subito. Hanno persino “aggiustato” le analisi per l’istruzione quando guardavano l’effetto del reddito, e viceversa. Insomma, un lavoro meticoloso.
Cosa abbiamo scoperto? Istruzione e reddito fanno la differenza
Ebbene sì, i risultati parlano chiaro. Un livello di istruzione più basso è risultato associato a una peggiore percezione della salute generale (EQ-VAS) e a un maggior dolore all’anca (Pain-VAS) a tutti i controlli (4, 12 e 36 mesi). Non solo, chi aveva studiato meno era anche meno soddisfatto dell’esito dell’operazione (Satisfaction-VAS) a 12 e 36 mesi.
E il reddito? Anche qui si vede un effetto, sebbene forse un po’ meno marcato rispetto all’istruzione. Chi apparteneva alla fascia di reddito più bassa riportava una salute generale peggiore (EQ-VAS) a tutti i follow-up. Aveva anche più dolore (Pain-VAS) a 12 mesi e minore soddisfazione (Satisfaction-VAS) a 4 mesi dall’intervento.
Un dato che mi ha colpito è che queste differenze sembravano aumentare nel tempo. Ad esempio, a 36 mesi, la differenza nella percezione della salute generale (EQ-VAS) tra chi aveva il reddito più alto e chi lo aveva più basso era di circa 2,5 punti sulla scala da 0 a 100. Ma la differenza tra chi aveva il livello di istruzione più alto e quello più basso era ancora maggiore, quasi 3,6 punti. Per quanto riguarda il dolore (Pain-VAS), sempre a 36 mesi, chi aveva un’istruzione media o bassa riportava punteggi di dolore significativamente più alti (rispettivamente +4,3 e +5,6 punti) rispetto a chi aveva un’istruzione elevata. E la soddisfazione? A 36 mesi, chi aveva studiato meno era decisamente meno soddisfatto (differenza di oltre 4 punti).
Perché succede? Le possibili spiegazioni
Ok, i numeri dicono che c’è un legame, ma perché? Perché mai il titolo di studio o il conto in banca dovrebbero influenzare quanto dolore sento all’anca dopo un’operazione? Qui entriamo nel campo delle ipotesi, perché lo studio, essendo osservazionale, non può stabilire un rapporto di causa-effetto diretto.
Una prima idea riguarda le condizioni di salute preesistenti. Lo studio ha notato che le persone con istruzione e reddito più bassi tendevano ad avere più problemi di salute (comorbidità) già prima della frattura. Anche se i ricercatori hanno cercato di tenerne conto nelle analisi, è possibile che questo fattore giochi un ruolo importante.
Poi c’è la questione della cosiddetta “health literacy“, l’alfabetizzazione sanitaria. Chi ha un livello di istruzione più alto potrebbe avere più strumenti per capire le informazioni mediche, seguire i piani di trattamento, fare domande pertinenti ai medici e adottare comportamenti più salutari. Magari riescono a comunicare meglio le proprie esigenze o a cercare e ottenere un accesso migliore alle cure riabilitative post-operatorie, come la fisioterapia, che sono fondamentali per un buon recupero.
Non dimentichiamo i comportamenti legati alla salute. Diversi studi suggeriscono che un livello socioeconomico più elevato è spesso associato a stili di vita più sani (alimentazione, fumo, attività fisica), che a loro volta influenzano la salute generale e la capacità di recupero. Quindi, forse, istruzione e reddito sono degli indicatori indiretti di abitudini e condizioni generali diverse.
Infine, c’è anche la possibilità che ci siano differenze nel modo in cui le persone di diverso background riportano i propri sintomi o la propria soddisfazione.
Quanto sono “importanti” queste differenze?
Una domanda lecita è: queste differenze nei punteggi VAS, anche se statisticamente significative, sono abbastanza grandi da essere considerate clinicamente rilevanti? Cioè, fanno davvero la differenza nella vita quotidiana del paziente? I ricercatori stessi ammettono che la risposta non è semplice. Le differenze osservate sono relativamente piccole (gli “effect size” calcolati, come il Cohen’s d, erano bassi, specialmente per il reddito). Tuttavia, sono nell’ordine di grandezza di quelle che altri studi hanno considerato come “minimo cambiamento clinicamente importante” (MCID) per interventi simili, come le protesi d’anca o di ginocchio.
Inoltre, anche se la differenza media tra i gruppi è piccola, potrebbe esserci una percentuale significativa di pazienti nei gruppi a basso reddito/istruzione che sperimenta un risultato decisamente peggiore. Quindi, anche se i numeri medi non sembrano enormi, l’impatto a livello individuale potrebbe essere notevole per alcuni.
Cosa ci portiamo a casa?
Questo studio norvegese, con la sua mole di dati, ci lancia un messaggio importante: la posizione socioeconomica sembra avere un peso nel percorso di recupero dopo una frattura dell’anca. Chi parte da una condizione svantaggiata in termini di istruzione e reddito tende a riportare una salute peggiore, più dolore e minore soddisfazione per l’esito dell’intervento, e queste differenze possono persistere o addirittura accentuarsi nel tempo.
Anche se non capiamo ancora perfettamente tutti i meccanismi dietro a questo legame, è chiaro che non possiamo ignorarlo. Significa che quando pianifichiamo le cure e la riabilitazione per i pazienti con frattura dell’anca, dovremmo forse tenere conto anche del loro background? Forse dovremmo pensare a strategie mirate per supportare chi ha meno strumenti, magari migliorando la comunicazione, assicurando un accesso equo alla riabilitazione, promuovendo l’alfabetizzazione sanitaria.
Insomma, la chirurgia è fondamentale, ma per un recupero ottimale, forse, dobbiamo guardare anche oltre la sala operatoria e considerare l’intera persona, con il suo bagaglio di vita. È una sfida complessa, ma affrontarla potrebbe aiutarci a ridurre le disuguaglianze e a migliorare davvero la qualità della vita di tanti pazienti.
Fonte: Springer