Trascinati Come Cani: La Dura Realtà della Formazione Sanitaria e l’Impatto sulla Salute Mentale degli Adolescenti
Ragazzi, parliamoci chiaro. L’adolescenza è già un bel giro sulle montagne russe emotive, no? Cambiamenti fisici, sociali, la ricerca della propria identità… un periodo tosto. Ora immaginate di aggiungere a tutto questo l’inizio di un percorso di formazione professionale, magari in un settore super impegnativo come quello sanitario o socio-assistenziale. Ecco, uno studio recente ha acceso i riflettori proprio su questo, e quello che emerge fa davvero riflettere. Parla di adolescenti che si sentono “trascinati come cani” e che “subiscono danni”. Parole forti, che descrivono un disagio profondo legato alla salute mentale durante la formazione.
Mi sono imbattuto in questa ricerca, un’analisi fenomenologica interpretativa (lo so, suona complicato, ma in pratica hanno ascoltato a fondo le esperienze dei ragazzi), e ho pensato fosse fondamentale parlarne. Perché? Perché la salute mentale si costruisce fin da giovani, e questi ragazzi sono il futuro della nostra assistenza. Se “si rompono” già ora, cosa succederà dopo?
Ognuno con la sua storia: il bagaglio personale conta
La prima cosa che salta fuori è che non tutti partono dallo stesso punto. Sembra ovvio, ma le conseguenze sono enormi. Chi ha alle spalle una famiglia solida, chi ha già sviluppato un po’ di “scorza” e sa come gestire emozioni e conflitti, beh, se la cava meglio. Si sente più sicuro nel far valere i propri diritti, nell’affermarsi sul lavoro, nel chiedere aiuto. Vivere a casa, avere amici e parenti che ti supportano, diventa uno scudo protettivo.
Ma non è così per tutti. Ci sono ragazzi che magari a 16 anni sono già fuori casa, devono arrangiarsi con i soldi, pagare l’assicurazione sanitaria, gestire tutto da soli. Lo stress si impenna, l’ansia per il futuro pure. Se a questo si aggiunge una bassa autostima e poco supporto esterno, il sentirsi insicuri, sopraffatti e impotenti è quasi inevitabile.
E poi c’è il tempo libero. Quello che per un adolescente è ossigeno puro – lo sport, gli amici, le passioni – viene risucchiato dai turni, dal lavoro nel weekend. Le attività che prima aiutavano a scaricare la tensione diventano miraggi. Ci si sente disconnessi, isolati. Addirittura, alcuni raccontano di essere stati esclusi dalle squadre sportive perché troppo assenti. Una perdita enorme, che mina il benessere.
Aspettative alle stelle e realtà che schiaccia
Un altro macigno? Le aspettative. Quelle della scuola, dell’azienda dove fanno pratica, della famiglia… e spesso, le più pesanti, quelle che si mettono addosso da soli. Voler essere perfetti, prendere voti altissimi, eccellere in tutto. Una pressione costante che logora.
La cosa “positiva”, se così si può dire, è che alcuni imparano a riconoscere i propri limiti, a dire “no”, a proteggersi. Sviluppano una maggiore consapevolezza di sé. Ma è un percorso doloroso.
E poi c’è il confronto con realtà durissime, spesso inadatte alla loro età. La malattia grave, la morte dei pazienti (specialmente nell’assistenza agli anziani), a volte persino molestie sessuali o aggressioni. Immaginatevi un adolescente lasciato solo a gestire la morte di una persona. È traumatico. Paura, impotenza, rabbia, dolore… sentimenti che lasciano il segno, soprattutto se non c’è nessuno con cui parlarne, nessuno che ti aiuti a elaborare. Si sentono soli, e questo è un peso enorme.
Certo, lo sanno che fa parte del lavoro, ma chiedono più supporto per affrontare queste esperienze così giovani.
Gerarchie, carenza di personale e quel sentirsi sfruttati
Nonostante tutto, molti ragazzi amano il loro futuro lavoro. Trovano un senso in quello che fanno, apprezzano lo spirito di squadra (quando c’è). Superare crisi come quella del Covid li ha resi più forti. Vedono la bellezza della professione, nonostante le fatiche.
Ma ci sono ombre pesanti. Le strutture gerarchiche, ad esempio. Loro sono all’ultimo gradino. Si sentono spesso sfruttati, trattati male, costretti a fare compiti che altri non vogliono fare, senza che nessuno chieda se ce la fanno, se hanno bisogno di aiuto. “Sfruttati”, “sopraffatti”, “stressati” sono le parole che usano.
La carenza di personale, piaga del settore sanitario e sociale, getta benzina sul fuoco. Devono prendersi responsabilità che non competono al loro livello di formazione, ritrovandosi ancora una volta impotenti e sotto pressione. Questo stress si riversa sulla vita privata: troppo “distrutti” per fare cose che li farebbero stare meglio.
E poi ci sono i superiori, i tutor. Alcuni raccontano di essere trattati male, sgridati, criticati costantemente. Denunciano arbitrarietà nei turni, nelle mansioni, e la negazione di momenti formativi. Nasce la paura, sintomi fisici come il mal di stomaco, l’incapacità di “staccare” la testa. La frase “siamo trascinati come cani e subiamo danni” viene proprio da qui, da questo sentirsi maltrattati nel percorso che dovrebbe costruire il loro futuro.
Scuola vs Pratica: due mondi che non comunicano
Anche la scuola contribuisce allo stress. L’organizzazione delle lezioni, i contenuti, a volte percepiti come poco specializzati o distanti dalla realtà. Metodi di insegnamento come il “problem-based learning” vissuti come fonte di stress e inefficacia. La sensazione costante è quella di “mancare qualcosa”, di non capire a fondo.
Il problema più grande? La mancanza di collegamento tra teoria e pratica. Imparano tecniche che poi sul campo sono già superate o inapplicabili. Questo crea insicurezza, frustrazione. Si sentono impreparati ad affrontare il lavoro reale. La paura di sbagliare, di fallire agli esami o sul campo, diventa un’ombra costante.
Il clima in classe può fare la differenza. Se c’è apertura, se si può parlare delle esperienze pratiche, se ci si aiuta a vicenda, allora la classe diventa un’ancora di salvezza. Sentirsi “tutti sulla stessa barca” allevia il peso. Ma se prevale la competizione, la lotta per i voti, allora l’effetto è destabilizzante. Dubbi, pressione, paura di non essere all’altezza. Alcuni si isolano, smettono di fare attività piacevoli per studiare di più, finendo per sentirsi ancora più soli e angosciati.
E i docenti? Figure chiave. Un insegnante che chiede “come state?”, che offre uno spazio per parlare delle difficoltà, che capisce e valida le loro esperienze, è una risorsa preziosissima. Fa sentire presi sul serio, meno impotenti. Ma quando invece minimizzano, rispondono con frasi fatte tipo “devi stringere i denti”, la fiducia crolla. Ci si sente di nuovo soli, incompresi, abbandonati con il proprio carico di sofferenza.
Strategie di sopravvivenza (a volte rischiose)
Come cercano di farcela? Usando le strategie che hanno. Ma spesso si sentono schiacciati da richieste eccessive rispetto a quello che sanno fare. Per evitare guai con i superiori, alcuni mettono in atto comportamenti rischiosi per la loro stessa salute, senza nemmeno rendersene conto pienamente (come prendere farmaci non necessari per convincere un paziente a fare altrettanto). È un segnale disperato della pressione che vivono.
Altri non arrivano a tanto, ma sentono comunque il bisogno di “attrezzi” per gestire le richieste e restare sani. Tutti parlano di come fattori esterni influenzino il loro umore: le stagioni, il sonno, l’uso (e l’abuso) dei social media, l’attività fisica. Sanno cosa farebbe bene – più luce, ritmo sonno-veglia regolare, meno social, sport – ma spesso si sentono “intrappolati” nello stress, senza tempo né energie per mettere in pratica le buone intenzioni. È un circolo vizioso.
Il bisogno disperato di supporto e cambiamento
Hanno provato a usare i servizi di supporto esistenti? Sì. Il counseling sociale viene visto positivamente: si sentono ascoltati e aiutati. Ma quando si tratta di far valere i propri diritti (pause negate, turni massacranti), l’ufficio della formazione professionale viene spesso percepito come inefficace. Si sentono dire che devono “lottare per i propri diritti”, il che da un lato li fortifica, ma dall’altro è estenuante.
La sensazione dominante è quella di non essere ascoltati. Questo genera tristezza, rabbia. Vorrebbero solo essere presi sul serio, che le loro esperienze e preoccupazioni fossero riconosciute. Quando questo accade, quando un tutor li guida e li supporta davvero, si sentono sollevati, aiutati.
Il tempo è un altro fattore critico. Tempo per imparare, per sviluppare competenze senza l’ansia costante. Tempo per riflettere sulle esperienze difficili, per discuterne a scuola o sul lavoro, per elaborare le emozioni (quel “è colpa mia se il paziente è morto?”). Avere spazi e momenti dedicati alla riflessione e al confronto con docenti e tutor permette di accedere alle proprie risorse, di integrare ciò che si è vissuto, di “trovare di nuovo un ponte verso il mondo esterno”, come ha detto un ragazzo.
Infine, c’è la questione delle regole violate: pause saltate, riposi non rispettati, orari folli. Questo crea insicurezza, rabbia, la sensazione di essere sfruttati. Ma la paura di ritorsioni, di perdere il posto, spesso li costringe al silenzio. E così, si sentono di nuovo impotenti, alla mercé dei datori di lavoro.
Cosa possiamo fare? Un investimento sul futuro
Questa ricerca ci sbatte in faccia una realtà preoccupante. Questi giovani apprendisti, futuri pilastri del nostro sistema di cura, stanno soffrendo. La loro salute mentale è a rischio a causa di un mix esplosivo di sfide personali, pressioni lavorative e formative, carenza di personale, mancanza di supporto adeguato e, a volte, vero e proprio maltrattamento.
Non si tratta di “coccolarli” o di creare una bolla protettiva. Si tratta di creare condizioni di formazione che tengano conto della loro età, della loro vulnerabilità, ma anche del loro enorme potenziale. Servono tutor preparati e presenti, serve un dialogo vero tra scuola e mondo del lavoro, servono tutele reali contro lo sfruttamento e le violazioni dei diritti. Serve insegnare loro a gestire lo stress, a riconoscere i propri limiti, ma soprattutto serve cambiare un sistema che sembra dimenticarsi che dietro la divisa ci sono adolescenti.
Investire sulla loro salute mentale oggi significa garantire professionisti più sani, resilienti e motivati domani. Ignorare il loro grido d’aiuto significa alimentare la fuga dal settore, peggiorare la carenza di personale e, in definitiva, indebolire l’assistenza che riceveremo tutti noi. È ora di ascoltarli davvero.
Fonte: Springer