Medicina e Materie Umanistiche: La Ricetta Segreta per Medici Migliori?
Ehi, parliamoci chiaro. Quando pensiamo alla facoltà di Medicina, cosa ci salta subito in mente? Probabilmente immaginiamo studenti chini sui libri di anatomia, chimica, biologia… ore e ore passate a memorizzare formule complesse e nomi di malattie impronunciabili. Scienza pura, no? Ecco, tenetevi forte, perché sto per raccontarvi qualcosa che potrebbe farvi strabuzzare gli occhi, proprio come è successo agli studenti protagonisti di uno studio affascinante condotto in Ruanda.
Immaginate di iniziare Medicina e, invece di tuffarvi subito tra provette e microscopi, i primi sei mesi fossero dedicati a… storia africana, economia politica, scrittura critica, psicologia della salute e comunicazione. Sorprendente, vero? Quasi controintuitivo. Eppure, è esattamente quello che succede all’University of Global Health Equity (UGHE) in Ruanda, un’università fondata con l’idea forte che per essere un buon medico non basta conoscere a menadito il corpo umano, ma bisogna capire a fondo le forze sociali, culturali ed economiche che plasmano la salute delle persone e delle comunità.
Recentemente, un gruppo di ricercatori ha voluto vederci chiaro: ma questo approccio “liberal arts”, questo mix insolito di scienze umane e sociali all’inizio del percorso medico, che effetto ha sugli studenti? Funziona davvero? Hanno intervistato 18 studenti, maschi e femmine, ruandesi e internazionali, a diversi punti del loro percorso di studi (MBBS), usando un approccio qualitativo per andare a fondo delle loro esperienze. E i risultati? Beh, come dice il titolo originale dello studio, sono stati un vero “eye-opener”, un’apertura mentale.
Un Approccio Unico: Contenuti, Metodo e Cultura
La prima cosa che è emersa dalle interviste è che questa fase iniziale è stata percepita come totalmente diversa da qualsiasi esperienza formativa precedente. Non si trattava solo delle materie insegnate – un ventaglio ampio che andava dal pensiero critico alla storia, dall’informatica sanitaria alla psicologia – ma anche di come venivano insegnate.
Gli studenti hanno parlato di un metodo didattico basato sull’indagine (inquiry-based), molto interattivo, che li spingeva a fare domande, a mettersi in discussione, a partecipare attivamente. Niente lezioni frontali passive e noiose, ma discussioni vivaci, progetti di gruppo, attività creative (pensate che hanno persino fatto una giornata di “cross-dressing” per esplorare le dinamiche di genere!). E i professori? Descritti come accessibili, interessati non solo alla crescita accademica ma anche personale degli studenti, disponibili a dare feedback e a confrontarsi anche fuori dall’aula.
“Mi hanno introdotto a un nuovo [tipo] di classe dove potevi mettere in discussione tutto, dove dovevi fare domande, dove avevi una classe dinamica, [con] persone così espressive”, ha raccontato uno studente del quinto anno. “Penso che mi abbia formato in un modo tale che non mi sento intimidito a condividere ciò che penso, anche se è controverso.”
E poi c’è la cultura del campus, descritta come “scioccante ma molto buona”. Scioccante perché l’impegno dei docenti e l’aspettativa di pensiero critico da parte degli studenti erano altissimi, ma buona perché si sentivano al sicuro nel prendere rischi intellettuali, a proprio agio tra loro e liberi di imparare anche dai compagni. Un ambiente definito “libero, flessibile, dinamico, espressivo”, dove il valore dell’equità non era solo predicato, ma vissuto quotidianamente, vedendo persone di alto rango interagire alla pari con gli studenti. Una studentessa del quinto anno ha parlato di “simmetria”, sorpresa nel vedere persone famose a livello mondiale sedersi a tavola con loro e voler parlare con loro, un contrasto netto con la gerarchia rigida sperimentata nelle scuole precedenti.

Orizzonti Più Ampi: Vedere Oltre la Malattia
Ma a cosa serve tutto questo studio “alternativo”? Secondo gli studenti, l’impatto più grande è stato l’ampliamento delle loro prospettive. Hanno descritto i corsi come un modo per “vedere il quadro generale”, per capire le radici socioeconomiche, politiche, culturali e storiche della salute e della malattia. Un’esperienza “eye-opening”, appunto, che li ha resi più aperti mentalmente, meno inclini ai pregiudizi e più consapevoli della diversità delle esperienze umane, specialmente quelle legate alla povertà e all’emarginazione.
Molti hanno parlato di una crescita nella consapevolezza di sé, comprendendo meglio il proprio privilegio come futuri medici, e di uno sviluppo dell’empatia. Hanno smesso di “giocare al gioco della colpa”, riconoscendo che troppo spesso le persone vengono biasimate per le loro malattie o la loro sofferenza, quando le cause sono ben più profonde e sistemiche.
“Le arti liberali mi hanno dato quella dinamica di pensare alla persona in un contesto molto ampio e considerare le emozioni, il loro contesto sociale di vita, e tutto il resto”, ha detto una studentessa del quarto anno. “Come studentessa di medicina, questo mi aiuta anche quando incontro un paziente – conoscere il quadro molto ampio della persona.”
Paradossalmente, hanno riferito di essere cresciuti sia in fiducia che in umiltà. Fiducia nel porre domande, nell’essere curiosi, nel mettere in discussione spiegazioni superficiali. Umiltà nel riconoscere la complessità dei problemi e l’importanza di arrivare alle cause profonde. Il pensiero critico, affinato in quei primi mesi, è diventato uno strumento chiave. “Non sapevo nemmeno che si potessero vedere le cose in modo diverso”, ha ammesso uno studente del terzo anno. “Ogni volta che dici che qualcosa è cattivo, prova a metterti nei loro panni.”
Lavorare Insieme: La Squadra Prima di Tutto
Un altro tema ricorrente è stato il rafforzamento delle relazioni tra pari e delle capacità di lavoro di squadra. L’approccio pedagogico, con i suoi tanti lavori di gruppo e le discussioni aperte, ha insegnato agli studenti a rispettare le conoscenze e i contributi dei compagni, a migliorare le proprie capacità di comunicazione interpersonale e a collaborare efficacemente.
E la cosa fondamentale è che non vedevano queste competenze come qualcosa di astratto, ma come abilità integrali e necessarie per la loro futura pratica clinica e per il lavoro d’équipe in ospedale. “Ho imparato come connettermi o come relazionarmi con gli altri e come lavorare insieme agli altri come una squadra”, ha spiegato uno studente del primo anno. Un’altra studentessa, già al terzo anno, ha aggiunto: “È stato sorprendente scoprire quanto [l’esperienza delle arti liberali] possa essere rilevante nell’applicazione quando arrivi in ospedale – come avrai bisogno dei modi di comunicazione che hai imparato, del tipo di processo decisionale che userai.”

Dall’Aula alla Corsia: Un Impatto Clinico Concreto?
Ed eccoci al punto cruciale. Tutto questo bel bagaglio di pensiero critico, empatia e capacità relazionali si traduce poi in un modo diverso di fare il medico? Gli studenti che erano già passati alla fase clinica del loro percorso non hanno avuto dubbi: sì, quell’esperienza iniziale ha migliorato le loro capacità cliniche con i pazienti e nella comunità.
Hanno raccontato esempi concreti. Una studentessa del quinto anno, parlando di una paziente con mal di testa cronico, spiegava come l’approccio “liberal arts” l’avesse spinta a indagare oltre i sintomi fisici: “Forse non è solo emicrania; forse è il modo in cui suo marito la tratta. Forse è qualcosa di più profondo… abbiamo imparato a conoscere i determinanti sociali della salute. E ci è stato davvero insegnato come trattare e vedere i pazienti nel loro insieme e cercare davvero di affrontare la vera causa dei problemi.” Magari quella diarrea non è solo sua, ma un problema dell’intera comunità legato all’acqua.
Un altro studente, alle prese con un minatore affetto da sarcoidosi, rifletteva: “La maggior parte di noi guarda solo all’aspetto della malattia e alla scienza… Ma cerco di ricordare le lezioni [delle arti liberali] e penso, ok, quest’uomo… è un minatore… non possiamo semplicemente dirgli… ‘dovrà prendere ossigeno per il resto della sua vita’… Dobbiamo anche pensare a come gli diremo che non può tornare a lavorare nelle miniere? Come possiamo assicurarci che possa permettersi le medicine?”
Insomma, questo approccio sembra fornire agli studenti strumenti per pensare in modo più creativo, per affrontare le cause profonde delle malattie (spesso legate a ingiustizie economiche, socioculturali o politiche) e per diventare veri e propri sostenitori (advocate) dei bisogni dei pazienti e delle comunità emarginate. Vedono la malattia non come un’entità isolata, ma come “il risultato di molteplici forze sociali che agiscono contro il paziente”.
Allora, Qual è il Messaggio?
Questa esperienza alla UGHE, descritta dagli studenti come profondamente trasformativa, suggerisce che integrare le discipline umanistiche e le scienze sociali nella formazione medica, insieme a una pedagogia interattiva e una cultura istituzionale basata sull’equità, può avere effetti potentissimi. Può coltivare medici più empatici, riflessivi, critici, capaci di vedere il quadro generale e impegnati a promuovere l’equità sanitaria.
Certo, lo studio ha i suoi limiti: è stato condotto in una sola università, molto particolare e con risorse dedicate, e si basa sulla percezione degli studenti. Replicare il modello altrove potrebbe essere una sfida, soprattutto nel trovare docenti preparati sia sui contenuti che sul metodo. Tuttavia, i risultati sono incredibilmente incoraggianti.
In un’epoca in cui la tecnologia avanza a passi da gigante anche in medicina e l’accesso all’istruzione online è sempre più facile, diventa forse ancora più cruciale investire nell’umanizzazione della formazione. Come sottolineano i ricercatori, caratteristiche come la curiosità, la creatività, la compassione – e aggiungerei, la sensibilità alle questioni di giustizia sociale ed equità – saranno ciò che distinguerà il lavoro centrato sull’essere umano. E un approccio “liberal arts” alla medicina potrebbe essere una strada maestra per coltivare proprio queste qualità.
Forse, la ricetta per formare i medici di cui abbiamo davvero bisogno – non solo tecnicamente competenti, ma profondamente umani e impegnati per un mondo più giusto – passa anche da qui. Un’idea su cui riflettere, non trovate?
Fonte: Springer
