Finanziamenti alla Ricerca Negati: Quando il Sogno Australiano si Scontra con la Dura Realtà
Amici della scienza e curiosi di come gira il mondo della ricerca, oggi voglio portarvi dietro le quinte, in un angolo spesso poco illuminato ma cruciale: quello delle richieste di finanziamento per la ricerca che non vanno a buon fine. Sì, perché per ogni studio rivoluzionario che vediamo pubblicato, per ogni scoperta che cambia le nostre vite, ci sono decine, se non centinaia, di idee brillanti che si arenano per mancanza di fondi. E l’Australia, terra di canguri e innovazione, non fa eccezione.
Immaginatevi la scena: siete un ricercatore, magari giovane e pieno di belle speranze, o una ricercatrice con anni di esperienza alle spalle. Avete un’idea, un progetto che potrebbe davvero fare la differenza nel campo della salute, dell’educazione, o per la società in generale. Passate settimane, mesi, a scrivere la vostra proposta di finanziamento. È un lavoro immenso, che richiede tempo, energie, investimenti economici e spesso la collaborazione di un intero team. E poi? Poi, nella maggior parte dei casi, arriva un “no”. In Australia, in media, solo il 10-20% delle domande di finanziamento ottiene il via libera. Una percentuale che fa riflettere, vero?
Recentemente mi sono imbattuto in una scoping review, una sorta di mappatura della letteratura esistente, che ha cercato di fare luce proprio su questo fenomeno in Australia, analizzando studi pubblicati tra il 1980 e il 2022. E quello che emerge è un quadro complesso e, per certi versi, un po’ sconfortante.
Cosa ci dice questa “radiografia” australiana?
Innanzitutto, c’è da dire che non ci sono tantissimi studi specifici su questo tema. La review ne ha identificati solo cinque, pubblicati tra il 1992 e il 2016. Quattro di questi si concentravano sui ricercatori a inizio carriera (i cosiddetti early career researchers) e uno sulle accademiche donne. Nonostante il numero limitato di studi, sono emersi temi ricorrenti e molto significativi.
Le cause principali per cui una domanda di finanziamento viene respinta sembrano ruotare attorno a quattro macro-aree:
- Il profilo del ricercatore: qui entrano in gioco fattori come le caratteristiche socio-demografiche (genere, background culturale, interruzioni di carriera), il track record (cioè lo storico delle pubblicazioni e dei finanziamenti ottenuti in passato), l’esperienza di ricerca e, non da meno, l’esperienza nella stesura stessa delle domande di finanziamento.
- I processi di valutazione delle domande: il famoso peer review (la revisione tra pari), il profilo dei valutatori e i commenti che forniscono.
- Il supporto istituzionale: quanto l’università o l’ente di ricerca supporta attivamente i propri ricercatori.
- Il coinvolgimento governativo: le politiche di finanziamento e l’ammontare di fondi destinati alla ricerca.
E gli impatti? Beh, quelli si sentono eccome, sia sui ricercatori che sui progetti stessi.
L’impatto sui ricercatori: un fardello pesante
Quando una domanda viene respinta, per un ricercatore non è solo una delusione professionale. Le conseguenze possono essere profonde:
- Insicurezza lavorativa: soprattutto per chi ha contratti a termine, legati proprio ai finanziamenti.
- Tempo e sforzi sprecati: ore e ore di lavoro che sembrano finite nel nulla.
- Scoraggiamento e frustrazione: sentimenti come disillusione, confusione, delusione sono all’ordine del giorno. Alcuni arrivano a dubitare delle proprie capacità.
Pensate che uno studio ha riportato come alcuni ricercatori, specialmente donne, arrivino a considerare di abbandonare la carriera accademica a causa di questi insuccessi.

E i progetti di ricerca? Che fine fanno?
Anche qui, gli scenari sono diversi:
- Abbandono: l’idea, per quanto valida, viene messa in un cassetto. E questo significa meno scoperte, meno innovazione.
- Riproposizione: si tenta di nuovo, magari con lo stesso ente finanziatore o con uno diverso, apportando modifiche alla proposta.
- Si va avanti comunque: alcuni ricercatori, spinti dalla passione, decidono di portare avanti il progetto con risorse limitate o senza fondi, ma questo ovviamente impatta sui tempi e sulla portata della ricerca. Immaginatevi dover fare un “grande progetto” con i ritmi di “mezza giornata a settimana”.
Un’occhiata più da vicino alle cause: il “Matthew Effect” e non solo
Parliamoci chiaro, ottenere finanziamenti è diventato iper-competitivo. L’Australia, ad esempio, nel 2019 destinava l’1.7% del suo PIL alla ricerca e sviluppo, mentre l’OCSE raccomanda almeno il 2.7%. Meno fondi, più competizione. E in questa giungla, chi ha già un buon track record tende ad avere più successo, un fenomeno noto come “effetto San Matteo” (a chi ha, sarà dato). Questo mette in difficoltà soprattutto i giovani ricercatori, che hanno bisogno di fondi per costruirsi quel track record! Un bel paradosso, no?
Poi c’è la questione dell’esperienza nella scrittura delle domande (grant writing). È una vera e propria abilità, quasi un’arte, che si impara col tempo e con la pratica. E se non la possiedi, le chance diminuiscono.
Un altro punto dolente emerso dalla review riguarda il processo di peer review. A volte i valutatori non sono esperti specifici del settore della proposta, i loro commenti possono essere percepiti come ingiusti, poco utili o addirittura offensivi. Frasi come “un inveterato frequentatore di conferenze” rivolte a un giovane ricercatore lasciano il segno. E quando i commenti sono contraddittori o poco costruttivi, la frustrazione sale alle stelle. C’è chi ha definito il sistema una “lotteria”.
Anche le istituzioni giocano un ruolo. La mancanza di infrastrutture adeguate, di supporto amministrativo, di fondi interni per “fare gavetta” e costruire un curriculum possono pesare enormemente.
E non dimentichiamo il governo. Non solo per l’ammontare dei fondi, ma anche per eventuali interferenze. Nel 2022, ad esempio, sei domande di finanziamento per la ricerca umanistica, già approvate dal peer review, sono state bloccate da un veto politico. Capite bene come questo possa minare la fiducia nel sistema.
La questione di genere: un divario ancora presente
Un aspetto che mi ha colpito particolarmente è la disparità di genere. Studi, sia australiani che internazionali, mostrano come le ricercatrici donne, specialmente quelle più giovani, abbiano tassi di successo inferiori rispetto ai colleghi maschi a parità di età o esperienza. Le interruzioni di carriera, spesso legate a responsabilità familiari (cura dei figli, assistenza a familiari malati), impattano maggiormente sulle donne, limitando il tempo da dedicare alla ricerca e quindi alla costruzione del track record. Anche se enti come l’Australian Research Council (ARC) hanno introdotto misure per tenere conto di queste interruzioni, il problema persiste.
L’ARC e il National Health and Medical Research Council (NHMRC) stanno cercando di colmare questo divario. L’NHMRC, ad esempio, ha annunciato che dal 2023, per alcuni bandi (Investigator Grants), ci sarà un finanziamento paritario per candidati uomini, donne e non-binari a metà e fine carriera. Un passo avanti importante!

Cosa possiamo imparare e cosa serve ancora?
Questa review, seppur basata su studi non recentissimi, ci offre spunti preziosi. È chiaro che il sistema di finanziamento alla ricerca ha delle criticità che vanno affrontate. Migliorare la trasparenza e l’oggettività del peer review, fornire feedback più costruttivi, supportare maggiormente i giovani ricercatori e le ricercatrici, e investire di più nella ricerca sono passi fondamentali.
Le istituzioni possono fare molto, offrendo formazione sulla scrittura delle domande di finanziamento (grantsmanship), mentorship e supporto per creare collaborazioni. La collaborazione, infatti, può aiutare a migliorare la qualità delle proposte e a rafforzare il track record.
Certo, gli studi analizzati hanno qualche anno sulle spalle, e il panorama della ricerca è in continua evoluzione. Per questo, come sottolineano gli autori della review, servono studi più recenti per capire le esperienze vissute oggi dai ricercatori australiani, le loro strategie per far fronte agli insuccessi (coping strategies) e il tipo di supporto istituzionale che ricevono o di cui avrebbero bisogno.
Personalmente, credo che la resilienza sia una dote fondamentale per chi fa ricerca, ma non può essere l’unica risposta. Un sistema che valorizzi il talento, che supporti l’innovazione e che sia più equo è nell’interesse di tutti. Perché ogni “no” a un progetto valido è un’opportunità persa per la conoscenza e per il progresso della società.
E voi, cosa ne pensate? Avete esperienze dirette o indirette con questo mondo? Fatemelo sapere nei commenti!
Fonte: Springer
