Long COVID: Non è solo questione di polmoni! Un viaggio tra corpo, mente e fattori di rischio
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che, purtroppo, tocca ancora molti di noi o persone che conosciamo: i postumi del COVID-19. Non parlo solo della tosse che non passa, ma di quell’insieme di sintomi fisici, cognitivi e psicologici che possono persistere per mesi, a volte anche un anno, dopo essere stati dimessi dall’ospedale. È una condizione complessa, spesso chiamata “Long COVID” o “sindrome post-COVID”, e capirne le cause è fondamentale.
Recentemente mi sono imbattuto in uno studio affascinante che ha cercato di fare proprio questo: analizzare i fattori di rischio per questi sintomi persistenti, adottando un approccio che mi piace definire “a tutto tondo”, ovvero biopsicosociale. Perché, vedete, non siamo fatti a compartimenti stagni: il nostro corpo, la nostra mente e il contesto sociale in cui viviamo sono strettamente interconnessi, soprattutto quando si tratta di recuperare da una malattia tosta come il COVID-19.
Cosa ci dice questo studio specifico?
Lo studio in questione ha seguito 126 pazienti che erano stati ricoverati per COVID-19 in un ospedale olandese (il VieCuri Medical Centre) tra il 2020 e il 2022. Questi pazienti sono stati rivalutati a 3 e 12 mesi dalle dimissioni. Cosa hanno guardato i ricercatori? Un po’ di tutto:
- Test di funzionalità polmonare
- TAC ai polmoni
- Analisi della composizione corporea (bioimpedenza)
- Questionari dettagliati sui sintomi fisici, cognitivi (come problemi di memoria o concentrazione) e psicologici (ansia, depressione, stress post-traumatico).
L’obiettivo era duplice: capire quanto fossero frequenti e gravi questi sintomi nel tempo e identificare quali fattori (biologici, psicologici, legati alla malattia stessa o preesistenti) aumentassero il rischio di non stare ancora bene a un anno di distanza.
I sintomi che non se ne vanno: una fotografia della situazione
I risultati sono piuttosto eloquenti e, direi, confermano quello che molti sospettavano. Anche a distanza di un anno dalle dimissioni:
- Circa un terzo dei pazienti (31-32%) riportava ancora sintomi fisici da moderati a gravi.
- Un buon quarto (26-27%) lamentava molteplici sintomi cognitivi (avete presente la famosa “nebbia mentale”? Ecco).
- Una percentuale non trascurabile (14-18%) mostrava sintomi clinicamente rilevanti di depressione o stress post-traumatico (PTSS).
L’unica nota leggermente positiva? I sintomi d’ansia sembravano diminuire significativamente tra i 3 e i 12 mesi (dal 22% al 12%). Per il resto, la situazione a un anno non era molto diversa da quella a tre mesi, suggerendo una certa cronicizzazione dei problemi per una fetta importante di ex pazienti. Questo ci fa capire che il recupero può essere un percorso lungo e non lineare.

Chi rischia di più? I fattori biopsicosociali in gioco
Ed eccoci al cuore della questione: perché alcuni continuano a stare male per così tanto tempo? Lo studio ha identificato diversi fattori di rischio, che possiamo raggruppare logicamente:
- Condizioni preesistenti: Avere già malattie respiratorie croniche (come BPCO o asma) o soffrire di molteplici comorbidità (cioè più malattie croniche insieme, misurate con un indice chiamato Charlson Comorbidity Index) aumentava significativamente il rischio di sintomi persistenti. Anche un BMI (indice di massa corporea) più elevato era associato a più sintomi cognitivi.
- Gravità della malattia e fattori legati al COVID: Essersi ammalati durante la terza ondata pandemica (quando circolavano prevalentemente le varianti Beta/Gamma) sembrava associato a esiti peggiori a lungo termine rispetto alla prima ondata (variante “wild-type”). Inoltre, avere ancora anomalie polmonari visibili alla TAC a 3 mesi era un fattore di rischio, così come una ridotta capacità polmonare totale (TLC). La dispnea (fame d’aria) a 3 mesi era un forte predittore di sintomi fisici persistenti.
- Fattori fisici, cognitivi e psicologici a 3 mesi: Qui l’interconnessione è evidente. Avere più sintomi fisici, cognitivi, ansia, depressione o PTSS già a 3 mesi dalle dimissioni era fortemente associato ad avere gli stessi problemi (o problemi simili) anche a 12 mesi. Ad esempio, i sintomi cognitivi a 3 mesi predicevano quelli a 12 mesi; l’ansia a 3 mesi prediceva l’ansia a 12 mesi, e così via. Questo suggerisce che questi problemi, se non affrontati precocemente, tendono a cronicizzare.
- Strategie di coping (come affrontiamo le difficoltà): Anche se analizzate separatamente, alcune strategie mentali sembravano avere un ruolo. La tendenza a “ruminare” sui problemi o a “catastrofizzare” (pensare sempre al peggio) era associata a più sintomi. Curiosamente, anche l'”accettazione” era associata a esiti peggiori in questo studio, un dato un po’ controintuitivo su cui torneremo. Strategie come il “positive refocusing” (concentrarsi su aspetti positivi) o il “mettere le cose in prospettiva” sembravano invece protettive.
Non solo biologia: L’importanza della mente e del contesto
Quello che trovo davvero potente di questo studio è come dimostra che limitarsi a guardare i polmoni o i parametri biologici non basta. Quando i ricercatori hanno aggiunto i fattori psicologici e cognitivi (misurati a 3 mesi) ai loro modelli statistici, la capacità di predire come sarebbe stato il paziente a 12 mesi è aumentata enormemente.
Pensate alla fatica (fatigue): è uno dei sintomi più comuni del Long COVID. Inizialmente, sembrava associata a peggiori esiti, ma quando si teneva conto anche della depressione o dell’ansia, questa associazione spariva. Questo non significa che la fatica non sia reale, anzi! Ma suggerisce che è profondamente intrecciata con il nostro stato mentale ed emotivo. Potrebbe esistere un circolo vizioso in cui i sintomi fisici peggiorano l’umore e l’ansia, e questi a loro volta amplificano la percezione dei sintomi fisici e la fatica stessa.

Lo studio menziona anche altri fattori, non misurati direttamente qui ma noti dalla letteratura, che possono influenzare il recupero: la “riserva cognitiva” (la capacità del nostro cervello di resistere ai danni), lo stile di vita (attività fisica, dieta) e il supporto sociale percepito. Avere una buona rete sociale, sentirsi supportati, può fare davvero la differenza nel recupero psicologico.
Riguardo all'”accettazione” come fattore di rischio, è un dato interessante. Di solito, l’accettazione è vista come una strategia adattiva. Gli autori ipotizzano che, nel contesto di incertezza della pandemia, accettare la situazione potesse portare a sentimenti di impotenza e disperazione, magari senza un impegno attivo a vivere secondo i propri valori nonostante le limitazioni. È un punto che merita ulteriori approfondimenti.
Cosa possiamo fare? L’approccio biopsicosociale in pratica
Le implicazioni di tutto questo sono chiare. Se vogliamo aiutare davvero le persone con Long COVID, dobbiamo adottare questo sguardo biopsicosociale fin da subito.
Significa:
- Screening precoce: Identificare presto i pazienti a rischio (quelli con malattie preesistenti, sintomi psicologici o cognitivi già a 3 mesi) è cruciale, perché abbiamo visto che i sintomi tendono a persistere.
- Valutazione completa: Non limitarsi ai test fisici, ma valutare attivamente anche la sfera cognitiva e psicologica.
- Trattamenti personalizzati e multidisciplinari: L’approccio “taglia unica” non funziona. Serve un piano di cura personalizzato, basato sulla specifica combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali del singolo paziente. Questo spesso richiede un team di specialisti (pneumologo, fisioterapista, psicologo, neurologo, terapista occupazionale…).
Ci sono già evidenze che approcci riabilitativi multidisciplinari, che includono ad esempio terapia cognitivo-comportamentale (CBT) ed esercizio fisico graduale, possono ridurre la severità dei sintomi, migliorare la gestione della malattia e aumentare la partecipazione alle attività quotidiane. La CBT, in particolare, si è dimostrata efficace nell’alleviare la fatica post-COVID.

In conclusione, questo studio ci ricorda che il Long COVID è una realtà complessa e sfaccettata. I sintomi persistenti non sono “solo nella testa” né “solo nel corpo”, ma il risultato di un’interazione intricata tra biologia, psicologia e contesto. Capire questi fattori di rischio e adottare un approccio integrato è la chiave per offrire cure più efficaci e migliorare la qualità di vita di chi ancora lotta con le conseguenze a lungo termine del virus. È un percorso che richiede ascolto, comprensione e un intervento mirato su tutti i fronti.
Fonte: Springer
