Gelsi Turbo: Come il DNA Extra Potenzia la Fotosintesi (e Perché Dovrebbe Interessarci!)
Amici appassionati di scienza e natura, ben ritrovati! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio affascinante nel mondo dei gelsi, piante che forse conoscete principalmente come fonte di cibo per i bachi da seta, ma che nascondono segreti genetici e fisiologici davvero sorprendenti. Immaginate di poter “potenziare” una pianta, renderla più efficiente nel catturare l’energia solare e produrre di più. Beh, sembra che la natura, a volte, ci dia già qualche dritta su come fare, e una di queste si chiama ploidia.
Ma cosa diavolo è questa “ploidia”?
Prima di addentrarci nel cuore della scoperta, facciamo un piccolo ripasso di biologia, ma tranquilli, sarò breve e indolore! La ploidia si riferisce al numero di set di cromosomi presenti nelle cellule di un organismo. Noi umani, ad esempio, siamo diploidi (indicato come 2n), il che significa che abbiamo due set di cromosomi, uno ereditato da ciascun genitore. Alcune piante, però, possono avere più di due set: possono essere triploidi (3n, tre set), tetraploidi (4n, quattro set) e così via. Questo “extra” genetico può avere effetti notevoli sull’aspetto e sulle funzioni della pianta.
Nel nostro caso, i protagonisti sono due varietà di gelso: la ‘guisang6hao’ (che chiameremo per comodità GS6), una varietà triploide (3x = 42 cromosomi), e la ‘guisangyou12’ (GSY12), una varietà diploide (2x = 28 cromosomi). Entrambe sono coltivate principalmente nella regione di Guangxi, in Cina, un’area importantissima per la sericoltura. L’idea alla base dello studio che vi racconto è stata quella di capire se e come questo diverso “corredo” cromosomico influenzi una delle funzioni vitali più importanti per una pianta: la fotosintesi clorofilliana.
GS6 vs GSY12: una sfida a colpi di… foglie!
I ricercatori hanno messo a confronto queste due varietà, analizzando un sacco di parametri. E indovinate un po’? La varietà triploide GS6 ha mostrato i muscoli!
Innanzitutto, le sue foglie erano più grandi e spesse. Pensate che la GS6 aveva foglie con una lunghezza e larghezza medie di 30.2 cm × 27.3 cm, contro i 25.6 cm × 20.3 cm della GSY12. Anche il peso per centimetro quadrato era più del doppio nella GS6 (4.75 g·100 cm–2 contro 2.25 g·100 cm–2).
Ma non è solo una questione di dimensioni. Anche a livello microscopico, la GS6 si è distinta:
- Spessore della foglia maggiore
- Nervatura principale più spessa
- Epidermide (la “pelle” della foglia) più spessa
- Tessuto a palizzata (quello super specializzato per la fotosintesi) più spesso
- Tessuto spugnoso (importante per gli scambi gassosi) più spesso
- Maggiore densità di stomi (le “bocche” della foglia che regolano l’ingresso di CO2) sull’epidermide inferiore.
In pratica, la foglia della GS6 sembrava strutturalmente più “attrezzata” per fare il suo lavoro. Le cellule dell’epidermide superiore e inferiore della GS6 erano più grandi e disposte in modo più lasso, mentre quelle della GSY12 erano più compatte e regolari. Anche gli stomi della GS6 apparivano più aperti rispetto a quelli della GSY12, che erano per lo più chiusi.
Performance fotosintetiche: GS6 batte GSY12 1.2 a 0!
Quando si è andati a misurare l’efficienza fotosintetica vera e propria (il tasso fotosintetico netto, Pn), la GS6 ha mostrato tassi superiori di circa 1.2 volte rispetto alla GSY12. Entrambe le varietà mostravano un andamento bimodale durante il giorno, con due picchi di attività (alle 10:00 e alle 14:00) e una sorta di “pausa pranzo” fotosintetica a mezzogiorno, fenomeno comune in molte piante. Tuttavia, il picco massimo di Pn della GS6 (19.42 µmol·m−2·s−1) era significativamente più alto di quello della GSY12 (16.10 µmol·m−2·s−1).
Non solo: la GS6 manteneva una concentrazione interna di CO2 (Ci) e una conduttanza stomatica (Gs) – che indica quanto gli stomi sono aperti – costantemente più alte. Anche il tasso di traspirazione (Tr) era maggiore nella GS6, e di conseguenza, l’efficienza d’uso dell’acqua (WUE), che è il rapporto tra fotosintesi e traspirazione, seguiva lo stesso andamento della fotosintesi, con picchi più alti per la GS6.
E la clorofilla? Anche qui, GS6 in vantaggio! Aveva contenuti significativamente maggiori di clorofilla totale, clorofilla a, clorofilla b e carotenoidi. Più pigmenti significa una maggiore capacità di catturare la luce solare. Tutti questi dati indicavano chiaramente che la GS6 aveva una marcia in più nella fotosintesi.
Dentro il codice genetico: il trascrittoma svela i segreti
Per capire cosa succedeva a livello molecolare, i ricercatori hanno analizzato il trascrittoma, cioè l’insieme di tutti i geni che vengono “accesi” (trascritti in RNA) in un dato momento nelle foglie. Hanno confrontato l’espressione genica tra GS6 e GSY12 e hanno trovato ben 4511 geni espressi differentemente (DEGs)! Di questi, 1821 erano più attivi (up-regolati) nella GS6 e 2690 meno attivi (down-regolati) rispetto alla GSY12.
La cosa super interessante è che, analizzando le funzioni di questi geni, è emerso che molti di quelli up-regolati nella GS6 erano coinvolti proprio nella fotosintesi! Parliamo di geni legati a:
- Processi biosintetici della clorofilla
- Raccolta della luce (light harvesting)
- Funzionamento dei fotosistemi I e II (i complessi proteici che catturano la luce)
- Trasporto degli elettroni durante la fotosintesi
- Fissazione del carbonio (il processo che trasforma la CO2 in zuccheri)
Ad esempio, ben 64 geni su 73 identificati come cruciali per la fotosintesi erano significativamente più espressi nella GS6. Tra questi, geni per le subunità dei fotosistemi, proteine leganti la clorofilla (le famose “antenne” che catturano la luce) e enzimi chiave del ciclo di Calvin, come la sedoeptulosio-1,7-bisfosfatasi (SBPase) e la fruttosio-1,6-bisfosfatasi (FBPase), fondamentali per la rigenerazione del RuBP (il primo accettore di CO2) e per il bilancio del carbonio. Un gene che codifica per la plastocianina, una proteina contenente rame essenziale nella catena fotosintetica, era addirittura 5.39 volte più attivo nella GS6! È come se la GS6 avesse il “turbo genetico” per la fotosintesi.
E i metaboliti? La chimica conferma
Non contenti, gli scienziati hanno esaminato anche il metaboloma, cioè l’insieme dei piccoli composti chimici (metaboliti) presenti nelle foglie. Hanno identificato 604 metaboliti espressi differentemente (DEMs) tra le due varietà: 246 più abbondanti nella GS6 e 358 meno abbondanti.
Anche qui, sorpresa (ma non troppo!): tra i metaboliti più abbondanti nella GS6, molti erano legati al metabolismo delle purine, dei nucleotidi e, guarda caso, alla fissazione del carbonio negli organismi fotosintetici.
In particolare, quattro metaboliti significativamente più abbondanti nella GS6 e correlati alla fotosintesi erano:
- D-sedoeptulosio-7-fosfato
- Acido malico
- D-fruttosio 6-fosfato
- Protoclorofillide (un precursore della clorofilla)
Questi risultati si sposano perfettamente con i dati del trascrittoma. Ad esempio, una maggiore attività dei geni per enzimi come la FBPase porta a una maggiore produzione di D-fruttosio-6-fosfato nella GS6.
Un altro dato interessante: un metabolita chiamato pirofeoforbide a, che è un prodotto intermedio della degradazione della clorofilla a, era significativamente meno abbondante nella GS6. Questo suggerisce che la clorofilla a nella GS6 potrebbe essere più stabile e degradarsi più lentamente rispetto a quella nella GSY12. Più clorofilla attiva, più fotosintesi!
Cosa ci insegna tutto questo?
Beh, questa ricerca è una vera miniera d’oro! Ci dice che un aumento del livello di ploidia, come nel caso del gelso triploide GS6, può portare a:
- Una struttura fogliare più robusta e adatta alla cattura della luce e agli scambi gassosi.
- Un aumento del contenuto di clorofilla.
- Una maggiore espressione di geni chiave per la fotosintesi, sia per la cattura della luce che per la fissazione del carbonio.
- Un profilo metabolico che supporta una maggiore efficienza fotosintetica e una migliore stabilità della clorofilla.
In sostanza, i gelsi triploidi sembrano avere una capacità fotosintetica potenziata, un migliore utilizzo dell’energia luminosa e un maggiore accumulo di clorofilla.
Queste scoperte sono importantissime perché forniscono una base tecnica e teorica per l’innovazione varietale e il miglioramento genetico del gelso. Selezionare piante con queste caratteristiche potrebbe portare a varietà di gelso con una maggiore efficienza fotosintetica, che si traduce in una maggiore accumulazione di biomassa. Questo significa più foglie per i bachi da seta (un toccasana per l’industria sericola!) e potenzialmente maggiori rese di materie prime per altre industrie che usano il gelso, come quella farmaceutica e alimentare.
Identificare geni e metaboliti associati a queste performance superiori apre la strada a tecniche di breeding assistito da marcatori molecolari o persino all’editing genetico per accelerare la creazione di nuove varietà super-performanti. Certo, ci sono delle sfide, come l’influenza dei fattori ambientali su questi tratti, ma la strada è tracciata!
Insomma, la prossima volta che vedrete una foglia di gelso, pensate a quanta scienza e a quanta potenza si nascondono dietro la sua capacità di trasformare la luce del sole in vita. E chissà, forse un giorno avremo gelsi “turbo” grazie a studi come questo!
Fonte: Springer
]] GSY12
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento tosto ma super importante per chi, come me, si occupa di malattie del fegato: le varici gastroesofagee. Sono quelle vene un po’ “dispettose” che si formano nell’esofago e nello stomaco quando il fegato non lavora come dovrebbe, specialmente in caso di cirrosi. Il problema grosso è che possono sanguinare, e quando lo fanno, sono guai seri.
In un nostro precedente studio, avevamo messo il dito sulla piaga: il carcinoma epatocellulare avanzato (quel brutto tumore al fegato, per intenderci) era un fattore prognostico negativo bello pesante dopo il trattamento endoscopico di queste varici. Ma ci ronzava in testa una domanda: e per i pazienti che, per fortuna, non hanno questo tumore in stadio avanzato? Cosa influenza la loro sopravvivenza dopo che li abbiamo trattati con l’endoscopia?
Così, ci siamo messi sotto e abbiamo analizzato i dati di 263 pazienti con malattie croniche del fegato, ma senza carcinoma epatocellulare avanzato, che avevano ricevuto una terapia endoscopica per le loro varici gastroesofagee. Volevamo capire quali fossero i veri “game changer” per la loro prognosi.
Cosa Sono le Varici Gastroesofagee e Perché Sono un Problema?
Prima di tuffarci nei risultati, facciamo un piccolo ripasso. L’ipertensione portale è una complicanza comune della cirrosi epatica. Immaginate la vena porta, che porta il sangue dall’intestino al fegato, come un’autostrada. Se c’è un ingorgo nel fegato (a causa della cirrosi), la pressione in questa “autostrada” aumenta. Questo porta a una serie di problemi, tra cui:
- Ascite (liquido nell’addome) o versamento pleurico
- Encefalopatia epatica (confusione dovuta alle tossine non filtrate dal fegato)
- Splenomegalia (milza ingrossata)
- E, appunto, le varici gastroesofagee.
Queste varici sono come delle vene varicose, ma nell’esofago e nello stomaco. Circa la metà dei pazienti con cirrosi le sviluppa, e il rischio aumenta con la gravità della malattia epatica (misurata ad esempio con la classificazione di Child-Pugh). Pensate che solo il 40% dei pazienti in Child-Pugh A ha varici, ma ben l’85% di quelli in Child-Pugh C! E non è finita: queste varici possono crescere, con un tasso di conversione da piccole a grandi dell’8-12% all’anno. Il vero incubo è quando sanguinano: il sanguinamento da varici esofagee è una delle principali cause di malattia e morte nei pazienti con cirrosi, con una mortalità che, nonostante i progressi, resta alta (11-40%).
La Nostra Indagine: Chi Sopravvive di Più e Perché?
Torniamo al nostro studio. Abbiamo seguito questi 263 pazienti, che avevano ricevuto un trattamento endoscopico per le loro varici tra il gennaio 2013 e il dicembre 2022. Per “carcinoma epatocellulare avanzato” intendevamo quello in stadio C secondo la classificazione BCLC (Barcelona Clinic Liver Cancer). Le varici gastriche considerate erano quelle cardiali, escludendo quelle del fornice gastrico isolato.
Ebbene, dopo il trattamento endoscopico, i tassi di sopravvivenza globale cumulativa per questi pazienti (senza carcinoma epatocellulare avanzato, ricordiamolo!) sono stati del 90.28% a 1 anno, 79.17% a 3 anni e 69.56% a 5 anni. Non male, direi!
Ma quali fattori facevano la differenza? Tenetevi forte, perché qui arriva il bello. Dopo aver analizzato un sacco di variabili (età, sesso, causa della malattia epatica, consumo continuo di alcol, classe Child-Pugh, piastrine, indici come APRI e FIB-4, grado ALBI, e la presenza di carcinoma epatocellulare non avanzato), l’analisi multivariata ha tirato fuori i suoi assi nella manica. I fattori prognostici significativamente associati alla sopravvivenza sono risultati essere:
- Età
- Eziologia (la causa della malattia epatica, ad esempio alcol, epatite B o C, steatoepatite non alcolica)
- Grado Albumin-Bilirubin (ALBI)
Un altro dato importantissimo: la presenza di un carcinoma epatocellulare non avanzato non è risultata associata alla prognosi in questo gruppo di pazienti. Questo è un punto cruciale! Significa che se il tumore al fegato non è in stadio avanzato, altri fattori giocano un ruolo più determinante sulla sopravvivenza dopo il trattamento delle varici.

Il nostro ospedale ha una strategia di trattamento ben definita. In caso di sanguinamento, facciamo un’emostasi primaria con la legatura endoscopica delle varici (EVL). Se l’emostasi endoscopica è difficile, usiamo il tubo di Sengstaken-Blakemore. Dopo l’emostasi in urgenza, se il paziente è in buone condizioni generali, non ha altre malattie gravi, ha una funzione epatica soddisfacente (Child-Pugh A o B) e non ha un carcinoma epatocellulare avanzato, procediamo con un trattamento endoscopico curativo aggiuntivo. Nei casi preventivi, trattiamo i pazienti con varici di forma (F) 2 o con segni rossi (RCS) 2 o superiori. Prima di iniziare il trattamento endoscopico, eseguiamo un’ecografia endoscopica. Se ci sono vene paraesofagee lievi o moderate, facciamo una scleroterapia iniettiva endoscopica (EIS) con una miscela di etanolamina oleato al 5%/iopamidolo per via intravascolare e aetossisclerolo all’1% per via extravascolare, seguita da coagulazione con argon plasma. Se le vene paraesofagee sono severe o è difficile iniettare la miscela, eseguiamo una EVL appena sopra la giunzione esofago-gastrica e aggiungiamo la coagulazione con argon plasma. I pazienti in cattive condizioni generali, con gravi malattie sottostanti, scarsa funzione epatica (Child-Pugh C) o carcinoma epatocellulare avanzato non ricevono trattamenti aggiuntivi e vengono seguiti per eventuali risanguinamenti. È importante notare che in Giappone le procedure TIPS (shunt portosistemico intraepatico transgiugulare) non sono coperte dall’assicurazione e vengono eseguite raramente.
Il Grado ALBI: Un Protagonista Inatteso (ma non troppo!)
Parliamo un attimo del grado ALBI. La classificazione di Child-Pugh è stata usata per anni per valutare la funzione epatica, ma ha i suoi limiti. Ad esempio, la valutazione dell’ascite e dell’encefalopatia epatica può essere soggettiva. Il grado ALBI, proposto da Johnson e colleghi, è un modello che valuta la funzione epatica nei pazienti con carcinoma epatocellulare usando solo i livelli di bilirubina e albumina nel siero – dati oggettivi, quindi! Si calcola con una formula specifica e stratifica i pazienti in tre gradi (1, 2 e 3), dove il grado 3 indica una peggiore funzione epatica.
Nel nostro studio, il grado ALBI ha mostrato la migliore correlazione con la prognosi. I pazienti con ALBI grado 1 o 2 avevano tassi di sopravvivenza cumulativa a 1, 3 e 5 anni rispettivamente del 95.93%, 84.31% e 77.07%. Al contrario, quelli con ALBI grado 3 avevano tassi di sopravvivenza decisamente inferiori: 74.28%, 64.31% e 42.33%. Questo suggerisce che una peggiore funzione epatica (riflessa da un ALBI grado 3) rende più probabile l’insufficienza epatica e più difficile controllare un eventuale carcinoma epatocellulare, peggiorando la prognosi.
Anche l’indice APRI (Aspartate Aminotransferase to Platelet Ratio Index), un altro marcatore di fibrosi epatica, è emerso come significativo nell’analisi multivariata, ma il grado ALBI sembrava avere una marcia in più.
Abbiamo anche fatto un’analisi di sensibilità, includendo tutti i fattori nell’analisi multivariata senza una preselezione basata sui risultati del test log-rank, e i risultati sono stati confermati: grado ALBI, età ed eziologia rimanevano i fattori chiave. Anche un’analisi dei rischi competitivi per le cause di morte (principalmente insufficienza epatica e carcinoma epatocellulare) ha dato risultati simili.
Cosa Significa Tutto Questo in Soldoni?
Il messaggio fondamentale che ci portiamo a casa da questo studio è che, nei pazienti senza carcinoma epatocellulare avanzato, gestire l’eventuale carcinoma epatocellulare (anche se non avanzato) e mantenere una funzione epatica sufficiente sono cruciali per la sopravvivenza a lungo termine dopo il trattamento endoscopico delle varici gastroesofagee. Il fatto che un carcinoma epatocellulare non avanzato non sia emerso come fattore prognostico diretto è una notizia importante: ci dice che se riusciamo a tenerlo sotto controllo, non impatta negativamente sulla sopravvivenza legata alle varici in questo specifico gruppo.
L’età e la causa della malattia epatica sono fattori che, purtroppo, non possiamo modificare più di tanto, ma sulla funzione epatica (e quindi sul grado ALBI) possiamo lavorare! Preservare la funzione epatica e implementare terapie antivirali (quando indicate, ad esempio per epatite B o C) sono essenziali.

Limiti dello Studio e Prospettive Future
Come ogni studio che si rispetti, anche il nostro ha dei limiti. Primo, la valutazione della forma delle varici e del grado di sviluppo delle vene paraesofagee, che influenzano le indicazioni e le strategie di trattamento, si basa sul giudizio soggettivo del medico che esegue l’esame pre-trattamento. Quindi, potrebbero esserci stati dei bias di selezione o di osservazione. Servirebbero studi prospettici per ovviare a questo.
Secondo, le evidenze a supporto dell’uso del grado ALBI per indicazioni diverse dal carcinoma epatocellulare sono ancora limitate. Quindi, la sua affidabilità in contesti diversi dal tumore al fegato è ancora da esplorare a fondo. Il nostro studio è il primo, a nostra conoscenza, a valutare la relazione tra grado ALBI e fattori prognostici dopo trattamento endoscopico per varici gastroesofagee in pazienti senza carcinoma epatocellulare avanzato.
Per rendere questi risultati ancora più solidi, avremmo bisogno di:
- Uno studio di validazione prospettico del grado ALBI nel predire gli esiti.
- Uno studio multicentrico per confermare i nostri risultati.
- Un’indagine sugli esiti specifici del trattamento in base al grado ALBI.
Insomma, la ricerca non si ferma mai! Ma ogni piccolo passo avanti ci aiuta a capire meglio come prenderci cura dei nostri pazienti e offrire loro le migliori possibilità di una vita lunga e di qualità, nonostante le sfide poste dalle malattie del fegato.
Fonte: Springer