Re Lear nel Paleolitico: Alla Scoperta dell’Etica Nascosta nei Nostri Antenati
Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi in un viaggio affascinante, un po’ filosofico e un po’ antropologico, alla ricerca delle radici più profonde di ciò che ci rende umani e, di conseguenza, di come dovremmo comportarci. Parliamo di etica, quella cosa complicata che cerca di farci “prosperare” al meglio, sia come individui che come società. Ma come facciamo a sapere cosa significa “prosperare” per un essere umano se non abbiamo un’idea chiara di che tipo di creatura siamo? Ecco il punto: l’etica segue l’ontologia, cioè il modo in cui definiamo l’essere umano stesso.
Nel corso della storia, abbiamo dato tante risposte alla domanda “Cos’è un umano?”. Molte sono risposte teologiche, che suggeriscono che siamo esseri misteriosi, quasi indefinibili, pieni di contraddizioni. Altre provano a identificarci tramite attributi specifici. Ma io voglio proporvi una prospettiva diversa, forse più radicale.
Noi, Cacciatori-Raccoglitori nel Profondo
Pensateci: noi, Homo sapiens comportamentalmente moderni, esistiamo da circa 45.000 anni. Per la stragrande maggioranza di questo tempo, diciamo fino a circa 10.000 anni fa (con variazioni geografiche, ovvio), siamo stati cacciatori-raccoglitori. Stiamo parlando di quasi l’80% della nostra storia “moderna”! Certo, poi è arrivata l’agricoltura, la sedentarietà, le città, internet… ma quanto in profondità ci hanno cambiato queste cose?
L’idea, che trovo molto potente, è che, proprio come la nostra fisiologia si è evoluta per adattarsi a quel tipo di vita (avete presente la popolarità della dieta Paleo?), anche la nostra “natura” fondamentale, la nostra costituzione psicologica e sociale, sia ancora quella dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore. La modernità potrebbe essere solo una vernice superficiale, un “rivestimento”. Se è così, allora studiare le caratteristiche essenziali di quelle persone potrebbe darci indizi preziosi su chi siamo *davvero* e, quindi, su cosa ci serve per prosperare.
Cinque Tratti Fondamentali dal Nostro Passato Remoto
Basandomi su studi e riflessioni (come quelle di Charles Foster, da cui prendo spunto), ho individuato cinque aspetti che mi sembrano particolarmente caratteristici e fondanti di quel periodo formativo, e che forse definiscono ancora la nostra “sostanza”:
1. Il Vagabondare (Wandering): I cacciatori-raccoglitori non erano stanziali. Avevano bisogno di conoscere vasti territori, di muoversi, di camminare. La stasi non era un’opzione. Ogni passo era un incontro con la novità, richiedeva attenzione, relazione con il luogo. Erano “sé stessi” in luoghi diversi, sviluppando un forte senso di sé ma anche un legame intimo e mutevole con l’ambiente. Questo vagare fisico, questa fatica della caccia e della raccolta, radicava la loro esistenza nel corpo, nell’embodiment. L’astrazione veniva dopo. Come suggeriscono studiosi come Iain McGilchrist, Lakoff e Johnson, persino il linguaggio e la ragione non sono processi puramente mentali, disincarnati, ma emergono dall’esperienza corporea, dalla metafora radicata nel nostro essere fisico nel mondo. La nostra “ragionevolezza” profonda non è un algoritmo, ma un sentire incarnato.
2. Relazione Intima con il Mondo Non-Umano: Per sopravvivere, dovevano essere naturalisti eccezionali. Conoscevano piante, animali, cicli naturali in un modo che noi abbiamo quasi dimenticato. Si sentivano parte della natura, non separati da essa. I confini erano porosi. Pensate agli sciamani che si trasformavano in animali, raffigurati nelle grotte: era una rappresentazione della verità darwiniana e dell’interconnessione ecologica. Questa connessione, oggi lo riscopriamo, è fondamentale per la nostra salute e felicità. Il Neolitico, con l’agricoltura e l’addomesticamento, ha iniziato a erigere muri tra noi e il resto del vivente, portando forse anche a gerarchie sociali (umano sopra animale, e poi forse uomo sopra donna?). I cacciatori-raccoglitori tendevano invece all’egualitarismo. Riconoscere la relazione significa riconoscere la dipendenza e la vulnerabilità come parti essenziali di chi siamo.
3. Senso di Sé, Storie ed Etica: Con l’uomo moderno emerge chiaramente il senso dell'”Io”. Lo vediamo nelle prime rappresentazioni della forma umana. Questo “Io” apre la porta alla relazione “Io-Tu”, che è la radice della responsabilità individuale e collettiva, e quindi dell’etica. Ma non solo: l'”Io” ha bisogno di collocarsi, di capirsi in relazione agli altri “Io” del gruppo e al cosmo intero. Come? Attraverso le storie. Siamo diventati creature che bramano significato, che riflettono sulla propria esistenza attorno al fuoco, raccontando. Le storie hanno un inizio, uno svolgimento, una fine: ci hanno infuso un senso di scopo, di direzione.
4. Istinto Metafisico: Il mondo materiale quotidiano non era tutto. C’era la sensazione (o la convinzione) che esistesse qualcos’altro. Le sepolture con corredi funerari, che compaiono proprio nel Paleolitico Superiore, sono considerate un segno distintivo dell’uomo moderno. Indicano la credenza in una vita oltre la morte, forse addirittura che i defunti avessero più potere dei vivi. Eravamo Homo religiosus forse ancor prima di essere Homo sapiens nel senso pieno del termine. La metafisica, il senso del sacro o del trascendente, era più importante della fisica per capire il mondo e il nostro posto in esso.
5. Simbolismo e Metafora: Questo periodo vede un’esplosione di simbolismo. Oggetti utili diventano anche belli, cose iniziano a “stare per” altre cose. La metafora, come sostengono Lakoff, Johnson e McGilchrist, non è un semplice abbellimento del linguaggio, ma il terreno stesso del pensiero. Nasce dall’esperienza incarnata, dalla nostra interazione fisica con il mondo. Il nostro cervello (in particolare l’emisfero destro) capisce il mondo attraverso analogie, connessioni, metafore. Questo modo di operare riflette ancora una volta l’interconnessione fondamentale di tutte le cose, quella che i cacciatori-raccoglitori percepivano così direttamente.
Dalla Biologia all’Etica: È Lecito il Salto?
Ok, abbiamo questi tratti ancestrali. Ma possiamo davvero derivare l’etica da qui? Non cadiamo nella “fallacia naturalistica”, quel famoso divario tra “ciò che è” (is) e “ciò che deve essere” (ought) di cui parlava Hume? Filosofi come Peter Hacker sostengono di no, o almeno che il legame è fortissimo. L’etica, dice Hacker, è radicata nella nostra biologia, nella nostra “animalità”. Caratteristiche come la nostra vulnerabilità, il bisogno di cure, il desiderio, l’aggressività, la cooperazione, la dipendenza dagli altri per sopravvivere e realizzarci… tutto questo rende la moralità non un optional, ma una necessità biologica per tenere insieme i gruppi sociali indispensabili alla nostra esistenza.
Anche Martha Nussbaum, con le sue dieci “capacità” fondamentali per la fioritura umana (vita, salute, integrità corporea, sensi, pensiero, immaginazione, ragione pratica, affiliazione, relazione con la natura, gioco, controllo sull’ambiente), traccia un quadro che risuona molto con le caratteristiche paleolitiche. Se queste sono capacità essenziali per prosperare, allora abbiamo il dovere etico di coltivarle in noi stessi e negli altri. L’obiezione di Hume regge se manca una premessa di valore condivisa, ma qui la premessa – che la fioritura umana basata su queste capacità sia un bene – mi sembra largamente accettata. Quindi, sì, penso sia legittimo e anzi necessario derivare l’etica dalla nostra biologia e dalla nostra storia evolutiva.
Il Mistero Irriducibile dell’Umano
Ma c’è un’ultima cosa, forse la più importante. Se mettiamo insieme questi pezzi – il vagabondare incarnato, la connessione profonda con la natura, l’io narrante e bisognoso di significato, l’istinto metafisico, il pensiero metaforico – cosa ne viene fuori? Non un ritratto chiaro e definito, ma qualcosa di complesso, sfuggente, quasi misterioso.
Questo non è un fallimento dell’analisi, ma forse la scoperta più vera. Teologi parlano dell’uomo fatto a *Imago Dei*, a immagine di un Dio indefinibile, e quindi intrinsecamente misterioso. Filosofi come Max Scheler, pur cercando di definire l’essenza umana (Homo sapiens, faber, religiosus), concludevano che siamo “divenire”, creature anfibie tra categorie, impossibili da inchiodare a una definizione.
E chi racconta meglio questo mistero? Gli artisti! Pensate a Shakespeare: i suoi personaggi sono grandi proprio perché sono contraddittori, sfaccettati, imprevedibili, mai riducibili a uno schema. Re Lear, Amleto, Falstaff… sono veri perché sono complessi, proprio come noi. Keats parlava di “Negative Capability”, la capacità di stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza l’ansia di afferrare fatti e ragioni a tutti i costi.
Cosa Implica Tutto Questo per l’Etica Oggi?
Se siamo fondamentalmente queste creature misteriose, radicate in un passato da cacciatori-raccoglitori, connesse al mondo in modi che abbiamo dimenticato, guidate da metafore e istinti profondi più che da freddi sillogismi… allora forse l’approccio standard della bioetica, con i suoi principi ben definiti (autonomia, beneficenza, ecc.), rischia di essere troppo riduttivo. Rischia di trattarci come macchine logiche o esseri completamente definibili, quando non lo siamo.
Forse, come suggerisce il testo che ha ispirato questa riflessione, gli eticisti dovrebbero imparare di più dagli artisti e dalla nostra preistoria. Dovrebbero abbracciare il mistero, l’incalcolabilità dell’essere umano. Il fatto stesso che siamo così complessi e misteriosi è forse la ragione più forte per trattarci – e trattare gli altri – con profondo rispetto e cautela morale.
Chissà, magari un giorno i trattati di bioetica diventeranno note a piè di pagina di Re Lear o delle pitture di Altamira. Sarebbe un bel paradosso, no? Ma forse ci avvicinerebbe di più a capire chi siamo e come dovremmo vivere.
Fonte: Springer