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Il Tuo DNA Svela Quanti Anni Hai Davvero? L’Età Epigenetica e il Rischio di Mortalità

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi affascina tantissimo e che sta rivoluzionando il modo in cui pensiamo all’invecchiamento e alla nostra salute: l’età epigenetica. Sembra fantascienza, vero? Eppure, il nostro DNA custodisce segreti che vanno ben oltre il colore dei nostri occhi o la predisposizione a certe caratteristiche. Esiste un “orologio” interno, scritto nelle modifiche chimiche del nostro DNA, che può dirci molto di più sulla nostra salute e sul nostro rischio di mortalità rispetto alla semplice età anagrafica.

Recentemente mi sono imbattuto in uno studio americano davvero interessante, pubblicato su Springer, che ha messo a confronto cinque diversi “indicatori” di questa età epigenetica per capire quali fossero i migliori nel predire il rischio di morte, sia per cause generiche che specifiche, in persone con più di 50 anni. E i risultati, ve lo dico, sono piuttosto sorprendenti!

Ma cos’è esattamente l’età epigenetica?

Prima di tuffarci nello studio, facciamo un passo indietro. Tutti conosciamo l’età cronologica (CA), quella che festeggiamo ogni anno con una torta. Ma il nostro corpo invecchia a un ritmo diverso, influenzato da stile di vita, ambiente, genetica e, appunto, epigenetica. L’epigenetica studia quelle modifiche chimiche (come la metilazione del DNA, o DNAm) che non cambiano la sequenza del DNA stesso, ma ne influenzano l’attività, accendendo o spegnendo geni.

Pensate a queste modifiche come a dei post-it attaccati sul libro del nostro DNA: non cambiano il testo, ma dicono alle nostre cellule quali capitoli leggere e quali saltare. Con il tempo, questi “post-it” cambiano, e alcuni schemi sono stati associati all’invecchiamento biologico (BA). Gli scienziati hanno quindi creato degli algoritmi, chiamati stimatori dell’età basati sulla metilazione del DNA (DNAmAges) o “orologi epigenetici”, che analizzano questi schemi di metilazione per calcolare un’età biologica.

A volte, l’età biologica calcolata da questi orologi è superiore a quella cronologica. Questa differenza viene chiamata Accelerazione dell’Età Epigenetica (EAA) e, come potete immaginare, avere un’EAA positiva (cioè essere biologicamente “più vecchi” della propria età anagrafica) non è generalmente una buona notizia.

Lo studio: cinque orologi a confronto

Lo studio in questione ha preso in esame quasi 2000 adulti americani over 50, partecipanti al National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) tra il 1999 e il 2002. I ricercatori hanno calcolato la loro età epigenetica usando cinque diversi orologi:

  • HorvathAge e HannumAge: considerati orologi di “prima generazione”, molto correlati all’età cronologica.
  • PhenoAge, GrimAge e GrimAge2: orologi di “seconda generazione”, progettati specificamente per predire l’età biologica e il rischio di mortalità, incorporando anche biomarcatori clinici.

Hanno poi seguito questi partecipanti fino alla fine del 2019, registrando chi era deceduto e per quale causa (mortalità totale, cardiovascolare, non cardiovascolare). L’obiettivo era vedere quale EAA, calcolata con i diversi orologi, fosse il miglior “indovino” del destino dei partecipanti.

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I risultati: GrimAge e GrimAge2 sul podio

Ebbene, tutti e cinque gli indicatori di EAA hanno mostrato un’associazione significativa con il rischio di mortalità. Ma la vera notizia è che AAGrimAge e AAGrimAge2 (l’accelerazione calcolata con GrimAge e GrimAge2) si sono rivelati nettamente superiori!

Questi due indicatori hanno mostrato una correlazione positiva e lineare con il rischio di morte. Cosa significa? Semplice: più alta era l’accelerazione dell’età misurata con GrimAge o GrimAge2, più alto era il rischio di morire, sia per cause generiche che specifiche (cardiovascolari e non).

Per darvi un’idea concreta:

  • Ogni 5 anni di aumento in AAGrimAge corrispondeva a un +44% di rischio di mortalità totale, +33% di rischio cardiovascolare e +54% di rischio non cardiovascolare.
  • Ogni 5 anni di aumento in AAGrimAge2 corrispondeva a un +40% di rischio di mortalità totale, +33% di rischio cardiovascolare e +47% di rischio non cardiovascolare.

Impressionante, vero? Sembra proprio che questi due orologi riescano a catturare qualcosa di fondamentale nel processo di invecchiamento biologico legato al rischio di morte.

E gli altri orologi? Una storia diversa

Interessante anche il comportamento degli altri tre indicatori: AAHorvathAge, AAHannumAge e AAPhenoAge. Per la mortalità totale e quella non cardiovascolare, la loro associazione non era lineare, ma a forma di “J”. In pratica, il rischio di morte rimaneva più o meno stabile fino a un certo punto di accelerazione (un “punto di inflessione”), per poi aumentare bruscamente. È come se questi orologi fossero meno sensibili a piccole accelerazioni, ma segnalassero un pericolo quando l’invecchiamento biologico “sfora” una certa soglia.

Per quanto riguarda la mortalità cardiovascolare, solo AAHannumAge ha mostrato una correlazione positiva significativa, mentre AAHorvathAge e AAPhenoAge non sembravano predittori affidabili in questo specifico ambito, almeno in questo studio.

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Predire le cause specifiche: un puzzle complesso

Lo studio è andato ancora più a fondo, analizzando cause di morte più specifiche. Qui il quadro si complica ulteriormente, suggerendo che orologi diversi potrebbero essere più adatti a predire rischi specifici:

  • Malattie cardiache: AAGrimAge e AAGrimAge2 sono i migliori predittori.
  • Malattie cerebrovascolari (ictus): AAHannumAge sembra il più indicato.
  • Malattie respiratorie: Tutti e cinque gli orologi mostrano associazioni, ma AAGrimAge e AAGrimAge2 spiccano con aumenti di rischio del 137% e 132% per ogni 5 anni di EAA!
  • Malattie renali: AAHannumAge, AAPhenoAge, AAGrimAge e AAGrimAge2 sono tutti associati a un rischio maggiore.
  • Cancro: AAHannumAge e AAGrimAge mostrano un’associazione significativa.

Questo ci dice che non esiste un “orologio perfetto” per tutto, ma a seconda del rischio che si vuole valutare, potrebbe essere più utile sceglierne uno specifico.

Cosa ci portiamo a casa da tutto questo?

Secondo me, questo studio è importantissimo per diverse ragioni.
Innanzitutto, conferma che l’età epigenetica, e in particolare la sua accelerazione, è un biomarcatore potente del nostro stato di salute e del rischio di mortalità, molto più informativo della semplice età anagrafica.

In secondo luogo, ci dice che GrimAge e GrimAge2 sono strumenti particolarmente promettenti per identificare precocemente le persone a maggior rischio, permettendo interventi mirati per promuovere un invecchiamento più sano. Immaginate un futuro in cui un semplice esame del sangue possa dirci se il nostro corpo sta invecchiando troppo in fretta e dove intervenire!

Infine, ricordiamoci che l’epigenetica è dinamica. A differenza della sequenza del DNA, le modifiche epigenetiche possono cambiare in risposta allo stile di vita e all’ambiente. Questo apre scenari affascinanti: monitorare l’EAA potrebbe diventare uno strumento per valutare l’efficacia di interventi anti-invecchiamento o per personalizzare le terapie.

Certo, come ogni studio, anche questo ha i suoi limiti (ad esempio, i dati sull’età epigenetica sono stati raccolti solo all’inizio, e la popolazione è americana). Serviranno ulteriori ricerche per confermare questi risultati in popolazioni diverse e per capire se possiamo davvero “resettare” il nostro orologio epigenetico.

Ma la strada è tracciata: l’età epigenetica non è più solo un concetto da laboratorio, ma uno strumento con un potenziale enorme per la medicina predittiva e personalizzata. Chissà, forse un giorno controlleremo la nostra EAA come oggi controlliamo il colesterolo!

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Fonte: Springer

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