Respirare al Lavoro: Fidarsi di Ciò che Diciamo o di Ciò che Dicono gli Esperti? Un Dilemma per la Salute
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta molto a cuore e che, secondo me, non riceve l’attenzione che merita: l’aria che respiriamo sul posto di lavoro e come questa possa influire sulla nostra salute respiratoria, in particolare sulle malattie ostruttive croniche delle vie aeree, come la famigerata BPCO (Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva).
Sappiamo tutti che il fumo di sigaretta è il cattivo numero uno quando si parla di BPCO, ma vi siete mai chiesti quanto conti l’esposizione a vapori, gas, polveri e fumi (che chiameremo VGDF per comodità) proprio lì, dove passiamo gran parte delle nostre giornate? Beh, sembra che conti parecchio, forse fino al 15% dei casi totali, e addirittura oltre il 30% nei non fumatori! Eppure, troppo spesso, questo rischio viene sottovalutato o non diagnosticato correttamente.
Il Mistero dell’Aria che Respiriamo al Lavoro
Il punto è: come facciamo a sapere *davvero* a cosa siamo esposti? Qui le cose si complicano. Pensate a chi lavora in agricoltura, nell’industria manifatturiera, nelle miniere… l’esposizione a polveri organiche, vapori chimici e altre sostanze potenzialmente dannose è quasi all’ordine del giorno. Respirare queste cose, giorno dopo giorno, anno dopo anno, può portare a seri problemi respiratori.
Il problema principale è misurare questa esposizione in modo affidabile. Non esiste un metodo “perfetto”, una sorta di “bacchetta magica”. Nei grandi studi sulla popolazione, si usano principalmente due approcci:
- L’autovalutazione: Si chiede direttamente ai lavoratori, tramite interviste o questionari, se pensano di essere stati esposti a VGDF. Questo metodo ci dà un’idea della percezione individuale del rischio, della consapevolezza che una persona ha del proprio ambiente di lavoro.
- Le Matrici Esposizione-Lavoro (JEM – Job-Exposure Matrix): Qui entrano in gioco gli esperti di salute occupazionale. Creano delle “mappe” che associano a ogni tipo di lavoro (classificato con codici specifici) un livello di esposizione stimato a diverse sostanze. È un metodo più oggettivo, che non dipende dai ricordi o dalle percezioni individuali.
Entrambi i metodi hanno pro e contro. L’autovalutazione può essere influenzata da tanti fattori: magari non ci ricordiamo bene esposizioni passate (chi se lo ricorda cosa respirava 10 anni fa?), oppure potremmo inconsciamente minimizzare o esagerare il rischio (bias di richiamo o di desiderabilità sociale). Quanto siamo consapevoli dei pericoli reali? Se non sappiamo che una certa polvere è dannosa, magari non la segnaliamo.
D’altro canto, le JEM, pur essendo più “scientifiche”, rischiano di semplificare troppo. Mettono tutti i lavoratori con la stessa qualifica nello stesso calderone, senza tener conto delle differenze specifiche tra un’azienda e l’altra, delle mansioni precise svolte da quella persona, o delle misure di protezione individuali adottate. È un po’ come dire che tutti i cuochi sono esposti allo stesso modo ai fumi, senza considerare se lavorano in una piccola trattoria o in una grande mensa industriale con sistemi di aspirazione all’avanguardia.
Chiedere o Classificare? Lo Studio di Amburgo Cerca Risposte
Proprio per cercare di capirci qualcosa di più su queste differenze, mi sono imbattuto in uno studio molto interessante, condotto nell’ambito dell’Hamburg City Health Study (HCHS) in Germania. I ricercatori hanno preso i dati di migliaia di lavoratori tra i 45 e i 74 anni, raccolti tra il 2016 e il 2020.
Hanno fatto due cose fondamentali:
- Hanno misurato l’ostruzione delle vie aeree (AO – Airway Obstruction, un segno chiave della BPCO) usando la spirometria, e l’hanno definita secondo due criteri internazionali diversi: i criteri GOLD (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease) e i criteri GLI (The Global Lung Function Initiative). Questi criteri differiscono un po’ nel modo in cui stabiliscono cosa è “normale” e cosa no, specialmente considerando età, sesso, altezza ed etnia.
- Hanno valutato l’esposizione lavorativa a VGDF sia chiedendolo direttamente ai partecipanti (autovalutazione con un semplice “sì” o “no”) sia usando una JEM specifica, chiamata ACE JEM (Airborne Chemical Exposure Job-Exposure Matrix), adattata ai codici professionali tedeschi.
L’obiettivo era proprio confrontare i risultati: l’autovalutazione e la JEM concordano nel classificare chi è esposto e chi no? E quale dei due metodi (o entrambi, o nessuno?) mostra un legame più forte con l’ostruzione delle vie aeree, definita secondo i criteri GOLD o GLI?
Sorpresa! Ciò che Diciamo Conta (a Volte)
E qui arrivano i risultati che mi hanno fatto riflettere. Prima di tutto, la concordanza tra quello che le persone *dicevano* di essere esposte e quello che la JEM *prevedeva* per il loro lavoro è risultata piuttosto bassa (il famoso indice Kappa era solo 0.29, che indica un accordo “modesto”). In pratica, spesso le due valutazioni non coincidevano. Solo il 12.3% era classificato come esposto da entrambi i metodi, mentre quasi il 60% era classificato come non esposto da entrambi. C’era quindi un bel po’ di “zona grigia”.
Un dato curioso: la consapevolezza dell’esposizione sembrava essere più bassa sia tra i lavoratori con qualifiche molto basse sia tra quelli con qualifiche molto alte. Forse i primi non hanno abbastanza informazioni sui rischi, e i secondi si sentono troppo sicuri o sottovalutano l’esposizione in ambienti apparentemente meno “pericolosi”? È un’ipotesi.
Ma la vera sorpresa è arrivata quando hanno analizzato il legame con l’ostruzione delle vie aeree.
- Usando i criteri GOLD: né l’autovalutazione né la JEM hanno mostrato un’associazione statisticamente significativa con un aumentato rischio di ostruzione. C’era una leggerissima tendenza, ma nulla di certo.
- Usando i criteri GLI: qui le cose cambiano! L’autovalutazione (cioè, il fatto che una persona *dicesse* di essere stata esposta) è risultata associata a un rischio significativamente più alto di avere un’ostruzione delle vie aeree (un Odds Ratio di 1.48, che significa quasi il 50% di rischio in più!). Questa associazione rimaneva significativa anche dopo aver tenuto conto di altri fattori come età, sesso, fumo, ecc. Invece, la valutazione basata sulla JEM continuava a non mostrare alcuna associazione significativa.
In pratica: secondo questo studio, e usando i criteri GLI, sembra che la *percezione* dell’esposizione da parte del lavoratore sia un indicatore di rischio più forte rispetto alla classificazione “oggettiva” data dalla JEM per quel tipo di lavoro.
Perché Tanta Differenza? Ipotesi sul Tavolo
Come mai questa discrepanza? È affascinante provare a capirlo.
Una possibilità è che i criteri GLI, essendo più personalizzati (tengono conto di età, sesso, altezza, etnia per definire la normalità), siano più sensibili nel cogliere gli effetti precoci o più sfumati dell’esposizione lavorativa rispetto ai criteri GOLD, che usano una soglia fissa (FEV1/FVC 10 anni sembrava addirittura protettivo secondo i criteri GLI!) potrebbe essere un “sopravvissuto”, cioè una persona intrinsecamente più resistente o meno esposta ai fattori di rischio peggiori. Questo può mascherare i veri rischi a lungo termine.
Guardando al Futuro: Come Proteggerci Meglio?
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Secondo me, la lezione principale è che valutare il rischio respiratorio sul lavoro è dannatamente complicato e non possiamo affidarci a un unico metodo. Né la sola autovalutazione (troppo soggettiva?) né la sola JEM (troppo generica?) sembrano dare un quadro completo, e persino i criteri diagnostici che usiamo possono portare a conclusioni diverse!
Probabilmente, la strada migliore è quella di integrare diversi approcci:
- Ascoltare attentamente la storia lavorativa raccontata dal lavoratore.
- Utilizzare le JEM come uno strumento di base, ma con cautela.
- Quando possibile, effettuare misurazioni ambientali dirette sul posto di lavoro.
- Considerare analisi biologiche (biomarcatori di esposizione o effetto).
- Utilizzare criteri diagnostici sensibili e appropriati.
Serve un approccio multidisciplinare, che coinvolga medici del lavoro, igienisti industriali, epidemiologi e, naturalmente, i lavoratori stessi. Solo così potremo avere una stima più accurata dei rischi e sviluppare strategie di prevenzione davvero efficaci.
Questo studio tedesco, pur con i suoi limiti (campione prevalentemente urbano, dati mancanti su alcuni aspetti come l’intensità del fumo, possibile bias di partecipazione), apre una finestra importante su queste complessità. Ci ricorda che dietro le statistiche ci sono persone che respirano l’aria del proprio lavoro ogni giorno, e capire cosa c’è in quell’aria e come influisce sulla loro salute è fondamentale.
Dobbiamo migliorare le nostre “lenti” per vedere questo rischio nascosto e agire di conseguenza, con interventi mirati e politiche di salute e sicurezza sul lavoro che tengano conto delle specificità di ogni contesto. La salute dei polmoni dei lavoratori non può essere lasciata al caso o a stime approssimative.
Fonte: Springer