Immagine simbolica che rappresenta le esperienze infantili avverse e le differenze di genere; due profili stilizzati, uno maschile e uno femminile, sovrapposti a uno sfondo che evoca un passato complesso e un futuro da costruire. Stile fotorealistico, obiettivo 35mm, profondità di campo, colori duotone blu e grigio per un'atmosfera riflessiva.

Esperienze Infantili Avverse: Maschi e Femmine le Vivono Uguale? Uno Sguardo a 18 Anni di Storia Familiare

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un argomento tosto, ma fondamentale: le Esperienze Infantili Avverse, o ACE (dall’inglese Adverse Childhood Experiences). Sono eventi difficili, a volte traumatici, che possono capitare durante l’infanzia e l’adolescenza – pensate ad abusi, negligenza, violenza domestica, divorzi conflittuali, problemi di dipendenza o salute mentale in famiglia. Perché ne parliamo? Perché, purtroppo, sono molto più comuni di quanto si pensi e lasciano un segno profondo sulla salute fisica e mentale per tutta la vita. Capire come funzionano, chi colpiscono di più e come si trasmettono (o meno!) tra generazioni è cruciale per poterle prevenire.

Recentemente mi sono imbattuto in uno studio tedesco davvero interessante, un progetto chiamato “Future Family”, che ha seguito 316 famiglie per ben 18 anni, da quando i figli erano all’asilo fino all’età adulta emergente (intorno ai 22 anni). La cosa affascinante è che hanno raccolto dati non solo dai figli, ma anche dalle madri (età media 54 anni) e dai padri (età media 57 anni), permettendoci di avere una visione unica su come queste esperienze si manifestano e si evolvono nel tempo, con un occhio di riguardo alle differenze tra maschi e femmine. E credetemi, le differenze ci sono eccome!

Ma cosa sono esattamente queste ACE e perché sono così importanti?

L’idea di studiare sistematicamente le ACE è partita da uno studio pionieristico negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90 (lo studio ACE CDC-Kaiser Permanente). Hanno intervistato quasi 17.000 persone su 10 tipi specifici di avversità infantili. I risultati? Scioccanti. Hanno rivelato non solo quanto fossero diffuse queste esperienze, ma anche il loro legame fortissimo con un sacco di problemi di salute da adulti: malattie fisiche come diabete e cancro, problemi di salute mentale come ansia, depressione, uso problematico di droghe e persino tentativi di suicidio.

Studi successivi in tutto il mondo hanno confermato questi dati. Una meta-analisi enorme ha stimato che nel 2015 oltre un miliardo di bambini tra i 2 e i 17 anni sono stati vittime di violenza! Un’altra ha rilevato che il 57% degli adulti intervistati aveva vissuto almeno una ACE, e il 13% ne aveva vissute quattro o più. Questo gruppo (≥ 4 ACE) è considerato particolarmente a rischio, perché la probabilità di sviluppare problemi di salute mentale e fisica aumenta drasticamente. Pensate che il rischio di tentato suicidio aumenta di 30 volte! Anche in Germania, dove è stato condotto lo studio di cui vi parlo, la situazione non è rosea: circa il 44% della popolazione riporta almeno una ACE, e il 9% ne ha vissute quattro o più, con conseguenze significative su depressione, ansia e soddisfazione di vita.

Donne e uomini: esperienze diverse?

Qui entriamo nel cuore dello studio tedesco. Una delle domande chiave era: ci sono differenze tra maschi e femmine nel modo in cui vivono le ACE? La risposta è un sonoro sì. Sia le madri che le figlie nello studio hanno riportato significativamente più ACE rispetto ai padri e ai figli. In particolare, le donne hanno riferito più frequentemente esperienze di abuso (emotivo, fisico, sessuale) e negligenza (emotiva e fisica).

Ritratto fotografico di una giovane donna (circa 22 anni) con espressione riflessiva, guardando fuori da una finestra in una stanza illuminata da luce naturale soffusa. Obiettivo 35mm, profondità di campo ridotta per sfocare leggermente lo sfondo, toni caldi e leggermente desaturati.

Questo dato è in linea con altre ricerche internazionali. Ad esempio, negli USA, il tasso di vittimizzazione è risultato più alto per le ragazze. Le donne sembrano essere più esposte a certi tipi di avversità come l’abuso sessuale, la negligenza emotiva e fisica, e vivere in famiglie con problemi di dipendenza o malattia mentale. Non solo: le donne nello studio tedesco avevano anche una probabilità significativamente maggiore di rientrare nel gruppo ad alto rischio (≥ 4 ACE) rispetto agli uomini. Questo fa delle donne una popolazione particolarmente vulnerabile.

Il trauma si eredita? La trasmissione tra generazioni

Un altro aspetto affascinante dello studio è l’analisi della trasmissione intergenerazionale. Ci si è chiesti: i figli vivono le stesse ACE dei loro genitori? I risultati sono complessi. Circa la metà dei giovani adulti ha sperimentato un numero simile di ACE rispetto ai propri genitori. Tuttavia, i tipi di ACE erano spesso diversi. In generale, le “tassi di trasmissione” per specifiche ACE da genitore a figlio erano piuttosto bassi. Questo significa che, fortunatamente, non c’è un destino segnato: un genitore che ha subito un certo tipo di abuso non necessariamente “passa” la stessa esperienza al figlio.

C’erano però delle eccezioni. La trasmissione sembrava leggermente più alta da madre a figlia per alcune ACE, come la negligenza emotiva, il divorzio/separazione dei genitori e, soprattutto, la presenza di un membro della famiglia incarcerato. Un’ACE che mostrava tassi di trasmissione da moderati ad alti in quasi tutte le combinazioni (madre-figlia, madre-figlio, padre-figlia, padre-figlio) era la presenza di malattia mentale in famiglia. Questo non sorprende, data la componente ereditaria e familiare di molti disturbi mentali.

Interessante notare che nel gruppo di genitori con 4 o più ACE, pochissimi figli rientravano nello stesso gruppo ad alto rischio. Forse, chi ha sofferto molto è diventato particolarmente attento a proteggere i propri figli? È un’ipotesi su cui riflettere. Comunque, il messaggio generale è che, sebbene esista una certa stabilità nel *numero* di ACE tra generazioni, c’è molta variabilità nei *tipi* di esperienze, e il ciclo si può interrompere.

Fotografia simbolica che mostra due silhouette, una di un adulto e una di un bambino, che si tengono per mano camminando verso un orizzonte incerto ma con un accenno di luce. Obiettivo grandangolare 24mm, leggero controluce, colori tenui.

Le conseguenze a lungo termine: chi soffre di più?

Lo studio ha confermato quello che già sapevamo: più ACE si vivono, peggiore è la salute mentale da adulti. Sia nei genitori che nei figli ormai giovani adulti, un numero maggiore di ACE era associato a più sintomi di ansia e depressione e a una minore soddisfazione di vita.

E le differenze di genere? Qui le cose si fanno sfumate. Abbiamo visto che le donne riportano più ACE. Coerentemente, nello studio, le madri riportavano livelli significativamente più alti di sintomi depressivi e ansiosi rispetto ai padri. Anche tra i giovani adulti, le figlie mostravano più sintomi d’ansia rispetto ai figli. Tuttavia, per i sintomi depressivi e la soddisfazione di vita, non c’erano differenze significative tra figli e figlie.

Ancora più interessante: nel gruppo ad alto rischio (≥ 4 ACE), sia maschi che femmine stavano decisamente peggio degli altri, con livelli di malessere psicologico da due a tre volte superiori rispetto a chi non aveva vissuto ACE. Anzi, in questo gruppo specifico, i figli maschi riportavano un disagio mentale leggermente *superiore* a quello delle figlie (anche se il campione piccolo invita alla cautela). Questo suggerisce una cosa importante: anche se le donne riferiscono più ACE, gli uomini che ne hanno vissute molte non sono affatto meno colpiti dalle conseguenze psicologiche, anzi!

Si può prevenire? Fattori di rischio e protezione

La buona notizia è che le ACE sono considerate prevenibili. Ma come? Lo studio ha cercato di identificare fattori precoci (valutati quando i bambini erano all’asilo) che potessero proteggere i figli dal vivere ACE crescendo. E qualcosa è emerso, soprattutto per le figlie. I fattori protettivi identificati sono stati:

  • Un maggiore status socio-economico della madre.
  • La partecipazione della madre a un programma di supporto alla genitorialità (il Triple P – Positive Parenting Program).
  • Meno problemi di internalizzazione (come ansia o depressione) nel bambino in età prescolare.

Questi risultati sono preziosi perché suggeriscono piste concrete per la prevenzione, in linea con le strategie già proposte altrove: rafforzare il supporto economico alle famiglie, promuovere competenze genitoriali positive e relazioni familiari solide. Il programma Triple P, in particolare, sembra promettente perché migliora le competenze dei genitori, la relazione genitore-figlio e la salute mentale dei bambini, sia a breve che a lungo termine. Relazioni sicure, stabili e nutrienti sono forse la chiave per spezzare i cicli di avversità.

Per i figli maschi, i risultati erano meno chiari, anche a causa del minor numero di padri partecipanti allo studio. Sembrava esserci un legame tra problemi di esternalizzazione (comportamenti aggressivi) in età prescolare e un maggior numero di ACE successive, ma il dato non era statisticamente forte. Questo sottolinea l’importanza di considerare entrambi i genitori e le dinamiche specifiche per maschi e femmine nello sviluppo di interventi preventivi efficaci.

Fotografia di una famiglia (padre, madre, figlio adolescente) che interagisce positivamente in un ambiente domestico luminoso e accogliente. Obiettivo 50mm, luce naturale, focus sui volti sorridenti, atmosfera calda.

Cosa ci portiamo a casa?

Questo studio tedesco, pur con i suoi limiti (campione non del tutto rappresentativo, dati retrospettivi per i genitori), ci offre spunti importantissimi.
Primo: le ACE sono una realtà diffusa con conseguenze serie e durature.
Secondo: ci sono chiare differenze di genere nel numero e nel tipo di ACE riportate, con le donne che ne riferiscono di più, soprattutto abusi e negligenza.
Terzo: nonostante le donne riportino più ACE, gli uomini che ne vivono molte soffrono un disagio psicologico altrettanto, se non a volte di più, significativo. L’impatto non sembra fare sconti a nessuno.
Quarto: la trasmissione intergenerazionale esiste, ma non è un destino ineluttabile. Il numero di ACE può essere simile tra generazioni, ma i tipi di esperienze cambiano, e molti cicli vengono interrotti.
Quinto: la prevenzione è possibile e passa attraverso il sostegno alle famiglie, il rafforzamento delle competenze genitoriali e la promozione di relazioni positive.

Capire queste dinamiche, tenendo conto delle specificità di genere e del ruolo di entrambi i genitori, è fondamentale per sviluppare strategie preventive davvero efficaci. Dobbiamo lavorare per creare ambienti familiari e sociali che proteggano i bambini e li aiutino a crescere sani e resilienti, indipendentemente dal loro sesso o dalla storia dei loro genitori. È una sfida enorme, ma ne vale assolutamente la pena.

Fonte: Springer

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