Mente in Viaggio: Quando la Vacanza Diventa Emergenza Psichiatrica
Ah, viaggiare! Chi non ama staccare la spina, esplorare posti nuovi, immergersi in culture diverse? Che sia per lavoro o per puro piacere, partire è spesso sinonimo di avventura e scoperta. Ma, ammettiamolo, a volte l’esperienza può prendere una piega inaspettata, soprattutto per la nostra mente. Lo scombussolamento delle abitudini, lo stress del viaggio, l’impatto con ambienti sconosciuti… tutto questo può scatenare o peggiorare disturbi psicologici.
Viaggiare fa bene, ma a volte…
Parliamoci chiaro: i disturbi psichiatrici legati ai viaggi sono una realtà, e vanno dai disturbi d’ansia a quelli dell’umore, dall’abuso di sostanze fino alle psicosi vere e proprie. Pensateci: disidratazione, fuso orario (il famigerato jet lag!), cambiamenti nelle relazioni sociali, fattori di stress vari… sono tutti elementi che possono giocare un ruolo. Addirittura, alcune destinazioni sembrano avere un “potere” particolare, come nel caso della famosa “Sindrome di Gerusalemme”.
A volte, poi, il viaggio stesso è parte del problema, un comportamento patologico legato a un disturbo preesistente, come una fuga dissociativa o un viaggio motivato da deliri psicotici. Questo fenomeno, chiamato “viaggio patologico”, non è affatto raro, specialmente nei disturbi psicotici.
Insomma, i problemi di salute mentale sono tra le cause principali di malattia per chi viaggia. Stime recenti parlano di quasi 20 viaggiatori su 100.000 che necessitano di cure psichiatriche, e più di 8 che finiscono ricoverati. Persino durante i voli, le emergenze psichiatriche non sono così infrequenti (circa il 2-3% di tutte le emergenze mediche in volo). E indovinate un po’? Le malattie psichiatriche sono anche tra le cause più comuni di evacuazioni mediche.
Nonostante questi numeri, c’è ancora poca conoscenza su come vengano trattati i viaggiatori che finiscono in un ospedale psichiatrico all’estero. Come se la passano? Ricevono cure adeguate? Il loro percorso è diverso da quello dei pazienti locali? È un campo ancora poco esplorato, ma con implicazioni enormi per i singoli, per la sanità pubblica e per la psichiatria clinica.
Uno sguardo più da vicino: lo studio di Zurigo
Proprio per colmare questa lacuna, abbiamo deciso di vederci più chiaro. Ci siamo tuffati nell’analisi retrospettiva dei dati dell’Ospedale Psichiatrico Universitario di Zurigo, un grande centro in una città internazionale, perfetto per osservare questo fenomeno. Abbiamo esaminato le cartelle cliniche elettroniche dei viaggiatori ricoverati tra il 2013 e il 2020.
Per capire davvero le differenze, non bastava guardare solo i viaggiatori. Abbiamo usato una tecnica statistica chiamata “propensity score matching” per confrontare ogni viaggiatore con un paziente svizzero e un paziente migrante (residente in Svizzera ma senza cittadinanza elvetica). Questo ci ha permesso di isolare l’effetto dell'”essere viaggiatore”, tenendo conto di fattori come età, sesso, diagnosi, gravità della condizione all’ingresso, ecc. L’obiettivo? Capire se ci fossero differenze specifiche negli esiti del trattamento. Ed è la prima volta che uno studio del genere viene pubblicato, che io sappia!
Cosa abbiamo scoperto a Zurigo? Differenze significative
I risultati sono stati piuttosto illuminanti. Ecco i punti salienti:
- Ricoveri più “forzati”: I viaggiatori venivano ricoverati contro la loro volontà (ricovero obbligatorio) molto più spesso dei residenti svizzeri e dei migranti (quasi il 70% dei casi!). Questo suggerisce che spesso arrivano in ospedale in situazioni di emergenza acuta, magari con poca consapevolezza della propria condizione o rappresentando un rischio per sé o per altri, e senza una rete sociale locale che possa intervenire prima.
- Diagnosi prevalente: Più della metà dei viaggiatori (51.2%) aveva una diagnosi nello spettro della schizofrenia. Una percentuale decisamente alta, che supporta l’idea che persone con disturbi psicotici preesistenti siano più vulnerabili agli stress del viaggio (influenza patogena) o che il viaggio stesso sia una manifestazione della malattia (viaggio patologico).
- Trattamento focalizzato sull’emergenza: Durante il ricovero, ai viaggiatori veniva offerta principalmente “interventi di crisi” (quasi il 90%), ossia un supporto a breve termine per stabilizzare la situazione immediata. Ricevevano meno frequentemente psicoterapia individuale o di gruppo e terapie occupazionali rispetto ai pazienti locali. La terapia farmacologica, invece, era prescritta con frequenza simile. Sembra quasi che l’approccio sia: “stabilizziamoli il prima possibile per poterli rimandare a casa”.
Il nodo cruciale: durata del ricovero e dimissioni
Qui le differenze si fanno ancora più nette:
- Soggiorni lampo: La durata del ricovero per i viaggiatori era nettamente più breve: in media poco meno di 10 giorni, contro i quasi 25 giorni dei pazienti svizzeri e migranti. Una differenza enorme! La mediana era addirittura di soli 5 giorni per i viaggiatori.
- Miglioramento inferiore alla dimissione: Nonostante la gravità all’ingresso fosse simile tra i gruppi (misurata con scale come CGI-S e HoNOS), al momento della dimissione i viaggiatori mostravano un miglioramento clinico inferiore (punteggi CGI-I peggiori). Attenzione, questo non significa che non migliorassero affatto (tutti i gruppi mostravano un miglioramento significativo), ma il grado di miglioramento era minore rispetto agli altri.
- Più trasferimenti (alias rimpatri?): I viaggiatori venivano trasferiti ad altri ospedali molto più spesso (quasi il 30% contro il 7-8% degli altri). Abbiamo interpretato questo dato come un indicatore indiretto del rimpatrio: essendo l’ospedale di Zurigo un centro di riferimento completo, il trasferimento è spesso finalizzato a permettere al paziente di continuare le cure più vicino a casa, cioè nel proprio paese d’origine.
Cosa ci dice tutto questo? Implicazioni e riflessioni
Mettendo insieme i pezzi, emerge un quadro chiaro: i viaggiatori che necessitano di cure psichiatriche all’estero spesso si trovano in situazioni di emergenza grave. Il sistema sanitario, almeno nel caso studiato, sembra rispondere con un intervento rapido, focalizzato sulla stabilizzazione acuta, seguito da una dimissione o un rimpatrio il prima possibile.
Questo ha senso da un punto di vista logistico e forse anche economico (il rimpatrio è una procedura standard, anche se i costi e le coperture assicurative variano molto da paese a paese), ma solleva domande importanti sulla qualità e la completezza delle cure ricevute prima del rientro. Si rischia una dimissione prematura? La continuità terapeutica nel paese d’origine è garantita?
Il nostro studio suggerisce che bisogna fare di più. È fondamentale che gli operatori sanitari, specialmente nelle zone turistiche, siano formati per riconoscere e gestire queste crisi, tenendo conto anche delle specificità culturali. Servirebbero linee guida internazionali più chiare e standardizzate per il rimpatrio psichiatrico, che garantiscano sicurezza, etica e continuità delle cure. E, naturalmente, bisognerebbe affrontare la questione dei costi e delle coperture assicurative a livello internazionale.
Limiti e prospettive future
Come ogni ricerca, anche la nostra ha dei limiti. È uno studio retrospettivo, basato su dati clinici di routine, senza un follow-up dopo la dimissione/rimpatrio. Le misure di esito sono generali e non specifiche per diagnosi, e non abbiamo potuto approfondire il background culturale dei viaggiatori o il loro status assicurativo preciso. La durata del soggiorno riportata, inoltre, riflette solo il tempo passato nell’ospedale di Zurigo, non l’eventuale continuazione del ricovero nel paese d’origine.
Nonostante ciò, credo che questo lavoro getti una luce importante su un fenomeno complesso e finora poco compreso. È un primo passo per capire le sfide uniche che i viaggiatori affrontano quando la loro salute mentale vacilla lontano da casa.
La speranza è che questi risultati stimolino ulteriori ricerche e, soprattutto, portino a migliorare l’assistenza psichiatrica per questa popolazione vulnerabile. Perché viaggiare dovrebbe rimanere un’esperienza arricchente, non trasformarsi in un incubo psicologico gestito in emergenza. C’è ancora molta strada da fare per garantire che chiunque, ovunque si trovi, riceva le cure mentali di cui ha bisogno, nel modo più appropriato ed efficace possibile.
Fonte: Springer