Errore in Azione: Decifrare il ‘Perché’ Biologico dei Nostri Obiettivi
Avete mai pensato a come fanno gli esseri viventi, dalle più piccole cellule ai complessi organismi come noi, a “sapere” cosa fare? Sembra quasi scontato: un uccello costruisce il nido per le uova, uno scoiattolo accumula cibo per l’inverno, persino il nostro corpo sa come far coagulare il sangue dopo una ferita. Chiamiamo questo fenomeno comportamento finalizzato (o goal-directedness, se vogliamo fare i fighi con l’inglese). Eppure, per quanto intuitivo, spiegare *come* funzioni davvero è un bel rompicapo filosofico e scientifico.
Ecco, oggi voglio portarvi in un viaggio affascinante per esplorare un modo nuovo e, secondo me, molto più utile, di guardare a questi comportamenti. L’idea centrale? Dimentichiamoci per un attimo di cercare intenzioni, coscienza o chissà quali processi mentali complessi. Concentriamoci invece su due aspetti chiave che emergono chiaramente quando osserviamo la natura all’opera: la normatività e l’azione.
Ma Cos’è Davvero un Comportamento Finalizzato?
Partiamo dalla base. Il buon senso ci dice che la vita è piena di scopi. Ma come possiamo definire scientificamente un’attività “diretta a uno scopo”? Molti ci hanno provato, spesso finendo per descrivere il fenomeno in termini di persistenza (l’organismo continua a provare finché non raggiunge l’obiettivo) o plasticità (cambia strategia se la prima non funziona). Altri hanno tirato in ballo concetti come “programmi genetici” o stati mentali simili a credenze e desideri.
Il problema, secondo me, è che spesso si confonde il fenomeno stesso (cosa osserviamo) con la sua possibile spiegazione (perché accade). È un po’ come dire che per essere “finalizzato”, un sistema *deve* avere un’intenzione. Ma siamo sicuri? E se definissimo prima cosa intendiamo per “comportamento finalizzato”, indipendentemente da come viene generato?
Qui entrano in gioco la normatività e l’azione. Pensateci: un’azione finalizzata può andare bene o male. Può essere efficace, appropriata, corretta, oppure inefficace, inappropriata, sbagliata. Questi non sono giudizi morali, ma descrizioni di quanto un organismo se la cava nel suo ambiente. La normatività, in questo senso biologico, è proprio questa possibilità intrinseca di “fare giusto” o “fare sbagliato” rispetto a un obiettivo, come la sopravvivenza o la riproduzione.
E l’azione? Beh, è il comportamento concreto diretto verso oggetti o eventi nell’ambiente: cibo, partner, predatori, materiale per il nido. L’azione deve soddisfare requisiti normativi: deve iniziare al momento giusto, non quando non serve, deve essere efficace, precisa. Ad esempio, la coagulazione del sangue deve avvenire solo quando c’è una ferita e rapidamente, altrimenti o rischiamo un’emorragia o una trombosi.
Quindi, la mia proposta è questa: un comportamento è finalizzato quando un sistema biologico compie azioni che sono normativamente regolate (possono essere corrette o sbagliate) per raggiungere un certo risultato nel suo ambiente. Semplice, no? Ma potentissimo.
Entrano in Scena i ‘Marcatori’
Ora viene il bello. Come fa un sistema biologico a sapere *quando* e *come* agire correttamente? Prendiamo l’esempio della coagulazione del sangue (emostasi). L’obiettivo è fermare l’emorragia dopo una ferita. L’azione chiave è l’attivazione delle piastrine. Ma cosa attiva le piastrine? Non è la ferita in sé! Sarebbe troppo complesso e variabile.
Invece, le piastrine vengono attivate da una proteina chiamata collagene, che normalmente è nascosta ma viene esposta quando un vaso sanguigno si rompe. Anzi, per essere precisi, non è nemmeno l’intera molecola di collagene, ma una piccola sequenza di amminoacidi ripetuta su di essa (il famoso GPO triplet). Questa sequenza è un marcatore (marker).
Un marcatore è un’entità fisica che indica in modo affidabile la presenza di un oggetto o evento ambientale che richiede un’azione. Non è l’evento stesso, ma un suo segnale. Pensateci: è molto più facile e veloce per le piastrine riconoscere una semplice sequenza di amminoacidi piuttosto che valutare la complessità di una ferita.
Questo concetto di marcatore è fondamentale e lo troviamo ovunque:
- Fine del pasto (sazietà): Non smettiamo di mangiare quando i nutrienti sono arrivati a tutte le cellule (ci vorrebbero ore!), ma quando segnali come la distensione dello stomaco (un marcatore) indicano al cervello che abbiamo ingerito abbastanza cibo.
- Ricerca del cibo: Un animale non “vede” il valore nutrizionale di un oggetto, ma risponde a marcatori come l’odore, il colore o la forma, che sono stati associati (geneticamente o per esperienza) al cibo.
I marcatori devono essere affidabili, accurati e tempestivi. Devono attivare l’azione quando serve e non quando non serve. E qui si apre un mondo…
L’Importanza di Sbagliare (e di Imparare)
Proprio perché i sistemi biologici si basano su marcatori, e non direttamente sugli eventi reali, sono intrinsecamente inclini all’errore.
- Un coagulo può formarsi su una placca aterosclerotica (che espone marcatori simili a quelli di una ferita) anche senza lesioni, causando un infarto. Questo è un errore di misidentificazione.
- Il sistema immunitario può attaccare cellule del corpo che presentano marcatori simili a quelli di un patogeno (malattie autoimmuni).
Allo stesso modo, il fenomeno del mimetismo si basa sui marcatori:
- Un cuculo imita il canto dei piccoli della specie ospite (marcatore) per farsi nutrire.
- Un fiore imita l’aspetto di un insetto ferito (marcatore visivo) per attrarre mosche impollinatrici.
Senza marcatori, né gli errori né il mimetismo sarebbero possibili!
Un’altra proprietà affascinante dei marcatori è la loro relativa arbitrarietà fisica. Ciò che conta non è la struttura esatta del marcatore, ma che funzioni! Una piccola variazione nella sequenza GPO potrebbe essere irrilevante se attiva comunque la coagulazione al momento giusto (corretto). Un’altra piccola variazione potrebbe invece renderla inefficace o iperattiva (errore). E una terza variazione potrebbe addirittura essere vantaggiosa in certe condizioni ambientali. Non possiamo capirlo solo guardando la chimica, dobbiamo vedere l’effetto sull’azione finalizzata.
Questa arbitrarietà è la chiave per l’apprendimento associativo. Se un marcatore può avere forme diverse pur indicando la stessa cosa, allora è possibile *imparare* nuovi marcatori dall’esperienza. Pensate al condizionamento classico: un suono neutro (campanello) viene associato ripetutamente al cibo. Alla fine, il suono stesso diventa un marcatore acquisito (stimolo condizionato) che scatena la salivazione o la ricerca di cibo. Questo permette agli organismi di adattarsi a ambienti variabili durante la loro vita, non solo attraverso la lenta selezione naturale che agisce sui marcatori ereditari. Incredibile, vero? I meccanismi neurali, come quelli che coinvolgono la dopamina, sembrano giocare un ruolo cruciale sia nel valutare i marcatori innati sia nell’acquisire quelli nuovi, associandoli a ricompense o punizioni.
Standard Interni: Costruire e Imparare Prima di Agire
Finora abbiamo parlato di azioni dirette a obiettivi immediati nell’ambiente. Ma che dire di quei comportamenti finalizzati il cui scopo è creare qualcosa che servirà *dopo*? Pensiamo alla costruzione del nido da parte di un uccello. L’obiettivo finale è proteggere le uova e far crescere i pulcini, ma l’obiettivo intermedio è costruire un nido *corretto*.
Come fa l’uccello a sapere se il nido è “giusto” mentre lo costruisce? Non può aspettare di vedere se i pulcini sopravvivono! Deve avere uno standard interno di correttezza. Deve lavorare confrontando la struttura che sta assemblando con questo standard. Gli errori sono deviazioni da questo standard, e le correzioni mirano a riavvicinarsi ad esso.
Questo vale per la costruzione del nido, ma anche per processi come l’apprendimento del canto negli uccelli. Un giovane fringuello zebra impara il canto imitando il padre. Pratica migliaia di volte, e il suo cervello (tramite la dopamina, ancora lei!) “premia” le vocalizzazioni che si avvicinano di più al modello paterno (lo standard interno). Non c’è una ricompensa esterna immediata, la valutazione è tutta interna.
Questo concetto di standard interno è potentissimo perché ci avvicina a comportamenti umani complessi come imparare a suonare uno strumento, scrivere o danzare. Anche in questi casi, lavoriamo verso uno standard di correttezza, spesso indipendentemente da un beneficio immediato per la sopravvivenza.
Tirando le Somme
Quindi, cosa ci portiamo a casa da questo viaggio? L’idea che per capire davvero i comportamenti finalizzati in biologia, dobbiamo partire dalla loro normatività (la possibilità di essere giusti o sbagliati) e dal ruolo centrale dell’azione nell’ambiente. L’introduzione del concetto di marcatore ci aiuta a spiegare come queste azioni vengano innescate e regolate in modo efficiente, ma anche perché siano possibili errori e mimetismi. Ci mostra anche come l’apprendimento possa creare nuovi marcatori, permettendo flessibilità e adattamento. Infine, l’idea di uno standard interno apre la porta alla comprensione di comportamenti complessi orientati a obiettivi intermedi.
Focalizzarci su questi aspetti – normatività, azione, marcatori, standard interni – ci fornisce, secondo me, una base molto più solida e fertile per studiare scientificamente i meccanismi alla base della miriade di comportamenti finalizzati che rendono la vita così incredibilmente dinamica e… beh, finalizzata! Non si tratta di trovare “intenzioni” nascoste, ma di descrivere e comprendere come la vita, a tutti i livelli, agisce per raggiungere i suoi scopi, sbagliando e imparando lungo la strada.
Fonte: Springer