Un globo terrestre antico e leggermente usurato appoggiato su documenti storici che simboleggiano trattati di decolonizzazione, con una mano che offre una moneta verso il logo delle Nazioni Unite in background, il tutto illuminato da una luce soffusa. Fotografia still life, lente macro 80mm, alta definizione, illuminazione controllata per enfatizzare le texture.

Decolonizzazione e Contributi ONU: L’Eredità Inaspettata che Spinge a Donare di Più

Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di una questione che mi ha fatto davvero riflettere, un aspetto delle relazioni internazionali che spesso passa inosservato ma che, a ben guardare, svela dinamiche sorprendenti. Vi siete mai chiesti perché alcuni stati, specialmente quelli emersi dal processo di decolonizzazione, sembrano più “generosi” di altri quando si tratta di finanziare organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite? Beh, la risposta potrebbe nascondersi proprio nel modo in cui questi stati sono nati.

Ho letto uno studio affascinante che scava a fondo in questa faccenda, concentrandosi sui contributi finanziari volontari al sistema ONU. E la tesi principale è piuttosto controintuitiva: pare che gli stati con un’eredità di decolonizzazione più travagliata, quella che gli esperti chiamano “decolonizzazione negligente” (derelict decolonization), tendano a versare contributi finanziari maggiori. Sembra un paradosso, vero? Uno si aspetterebbe che stati nati in contesti difficili abbiano meno risorse o meno voglia di partecipare attivamente. E invece…

Perché alcuni Stati donano più di altri all’ONU?

Prima di addentrarci nel cuore della questione, facciamo un passo indietro. Perché uno stato dovrebbe fare contributi volontari all’ONU? Non bastano quelli obbligatori? La verità è che i contributi volontari, specialmente quelli “vincolati” (cioè destinati a specifici programmi o progetti), offrono agli stati donatori una leva importante per influenzare l’agenda dell’ONU. È un modo per dire la propria, per indirizzare le risorse dove si ritiene più opportuno, spesso allineando gli obiettivi dell’organizzazione con i propri interessi nazionali.

Pensateci: nel 2017, i contributi volontari rappresentavano ben il 65,43% del budget totale del sistema ONU, una cifra enorme che supera di gran lunga i contributi obbligatori. Molti Fondi Speciali e Programmi delle Nazioni Unite, quelli che magari interessano di più i paesi del Sud Globale, dipendono proprio da queste donazioni volontarie. E la maggior parte di questi fondi sono “earmarked”, cioè con una destinazione precisa. Ad esempio, per l’UNICEF si parla del 78%, per l’UNHCR del 79%, per l’UNDP dell’83% e per il WFP addirittura del 93%! Questo ci dice molto sulla natura strategica di queste donazioni.

Ma cosa spinge uno stato a “sganciare la grana” volontariamente? Gli studi indicano principalmente due fattori: la disponibilità economica (più sei ricco, più puoi permetterti di donare) e le sostanze politiche, cioè la volontà di raggiungere specifici obiettivi politici attraverso il finanziamento. Spesso, si tratta di allineare gli interessi nazionali con gli obiettivi delle missioni, che siano di peacekeeping, di sviluppo economico o di promozione dei diritti umani.

L’ombra lunga della decolonizzazione: una questione di “nascita”

E qui entra in gioco la nostra eredità coloniale. Per gli stati nati dalla decolonizzazione, le organizzazioni internazionali, e l’ONU in particolare, hanno sempre avuto un’importanza cruciale. Molti di questi “nuovi” stati, come sottolineava già Jackson nel 1991, erano una sorta di “quasi-stati” dal punto di vista della sovranità effettiva: avevano un riconoscimento giuridico internazionale, ma mancavano di solide strutture statali costruite dal basso. Spesso, la loro sovranità doveva essere “condivisa” con attori internazionali.

Le Nazioni Unite, quindi, diventavano un partner fondamentale per supportare e compensare la debole capacità politica e la legittimità di questi stati appena indipendenti. Immaginate Seretse Khama, l’ex presidente del Botswana, che nel suo primo discorso all’Assemblea Generale ONU sottolineava quanto fosse vitale l’ONU per stati piccoli e poveri come il suo, sia come fonte di finanziamenti e assistenza tecnica, sia come piattaforma per far sentire la propria voce al mondo. L’ONU permetteva contatti altrimenti difficili da stabilire e offriva risorse preziose.

Questi nuovi stati hanno usato strategicamente i contributi volontari per accedere a risorse e assistenza tecnica che andavano a diretto beneficio della loro governance interna e dei loro sforzi di state-building. Non erano solo destinatari passivi di aiuti, ma investitori strategici!

Tuttavia, non tutte le decolonizzazioni sono state uguali. Lemke e Carter (2016) parlano di “tipi di nascita” diversi. La “decolonizzazione negligente” descrive il ritiro improvviso della potenza colonizzatrice, che lascia un vuoto di potere e governance. Questi stati non hanno avuto modo di sviluppare una solida capacità di mobilitare la popolazione e le risorse, né hanno avuto accordi preliminari che garantissero una transizione ordinata. Si tratta, in pratica, della forma più debole di statualità.

Un'aula dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, vuota ma illuminata, con le bandiere dei paesi membri sullo sfondo. In primo piano, una mano che deposita con cura delle monete in un salvadanaio trasparente a forma di globo terrestre. Lente: Prime 35mm. Dettagli: Profondità di campo ridotta per mettere a fuoco la mano e il salvadanaio, sfondo leggermente sfocato, bianco e nero con un leggero viraggio seppia per un'atmosfera storica ma attuale.

Al contrario, ci sono “nascite” relativamente più positive:

  • Nascita per accordo: stati come Singapore, pronti all’autogoverno dopo una lunga preparazione.
  • Secessione non violenta: una transizione pacifica all’indipendenza.
  • Secessione violenta: stati come l’Eritrea, nati da una lotta armata che, per quanto dura, ha forgiato una certa capacità statale.

L’ipotesi, quindi, è che gli stati nati da una decolonizzazione negligente, avendo una maggiore necessità di supporto esterno per consolidare la propria capacità statale e legittimità, valutino di più le risorse internazionali e siano quindi più propensi a fare contributi volontari all’ONU. È un investimento strategico per attrarre quell’assistenza cruciale per costruire strutture amministrative e rafforzare la propria posizione. Questo contrasta con l’idea comune che solo gli stati più capaci contribuiscano; qui si sostiene che proprio la debolezza spinga a contribuire, per compensare.

Un esempio? L’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile (ICAO). Nel 2015, molti ex-colonie con eredità negative (come la Somalia) facevano contributi volontari per ospitare progetti volti a stabilire meccanismi fondamentali per la regolamentazione dell’aviazione, investimenti critici per la loro statualità. Paesi con eredità positive, invece, contribuivano per miglioramenti tecnici o progetti non essenziali, o per iniziative internazionali al di fuori dei propri confini.

I numeri non mentono: cosa dice l’analisi?

Lo studio ha analizzato i dati di 95 ex colonie, mandati e dipendenze tra il 1997 e il 2015. E i risultati sembrano confermare la teoria. Gli stati nati da una “decolonizzazione negligente” tendono ad aumentare i loro contributi finanziari volontari all’ONU. Questo è particolarmente interessante se si considera che, ovviamente, la ricchezza materiale (misurata dal GNI) aumenta i contributi. Ma, anche tenendo conto di questo, l’eredità della decolonizzazione negligente – spesso associata a esiti politici negativi come sconfitte in guerra o fallimenti statali – spinge comunque a contribuire di più.

In media, tra il 1997 e il 2015, i paesi con una storia di decolonizzazione negligente hanno versato contributi volontari all’ONU circa quattro volte superiori rispetto a quelli con eredità più positive e un livello simile di GNI pro capite. Questo suggerisce che questi stati si rivolgono all’ONU facendo contributi volontari come un modo strategico per ospitare assistenza esterna e rafforzare la capacità e la legittimità statale.

E non è un fenomeno solo recente. Analizzando i contributi volontari al Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) tra il 1980 e il 1989, un periodo in cui molte ex colonie avevano da poco ottenuto l’indipendenza, emerge un quadro simile: gli stati nati con eredità negative facevano contributi volontari per attirare risorse internazionali nei loro paesi.

Due casi a confronto: Cambogia e Vietnam

Per capire meglio, guardiamo a due vicini del Sud-est asiatico: Cambogia e Vietnam. Entrambi colonizzati dalla Francia, condividono una geografia simile e molte necessità di sviluppo. Tuttavia, la loro “nascita” è stata diversa. La Cambogia ha attraversato una “decolonizzazione negligente”, mentre il Vietnam è emerso da una “secessione violenta”. Ci si aspetterebbe quindi che la Cambogia, con una capacità politica e una legittimità inizialmente più deboli, valorizzasse di più le risorse internazionali.

E infatti, i dati sui contributi volontari tra il 2014 e il 2023 mostrano che la Cambogia ha contribuito di più del Vietnam, nonostante l’economia vietnamita sia circa 15 volte più grande! Inoltre, i contributi cambogiani erano per lo più “earmarked”, cioè destinati a scopi specifici all’interno del paese. Ad esempio, fondi significativi all’OMS sono stati usati per migliorare l’accesso a medicine essenziali e vaccini in Cambogia. Contributi all’UNICEF sono andati a programmi di salute e nutrizione interni. Il programma “Better Factories Cambodia” dell’ILO, finanziato anche con contributi cambogiani, mira a migliorare le condizioni di lavoro nell’industria tessile locale.

Una mappa antica del Sud-est asiatico, con focus su Cambogia e Vietnam, illuminata da una lampada da tavolo. Accanto alla mappa, due piccole pile di monete di diversa altezza, quella più alta accanto alla Cambogia. Lente: Macro 100mm. Dettagli: Alta definizione sui dettagli della mappa e delle monete, illuminazione controllata per creare un'atmosfera da studio, focus selettivo.

I contributi cambogiani, quindi, appaiono come investimenti strategici per affrontare problemi interni, supplementando la capacità statale. Il Vietnam, al contrario, ha fatto meno contributi volontari e per lo più non vincolati, suggerendo un orientamento meno focalizzato sullo sviluppo interno tramite questi canali.

Cosa ci insegna tutto questo?

Questa ricerca, secondo me, è importantissima per diverse ragioni. Innanzitutto, ci mostra come le eredità coloniali plasmino ancora oggi il comportamento degli stati sulla scena globale. Non si tratta solo di impatti interni, ma di vere e proprie traiettorie diverse nell’impegno con le organizzazioni internazionali.

Poi, mette in discussione l’idea che solo gli stati forti e ricchi siano i principali contributori. Certo, la loro parte la fanno, ma scopriamo che anche stati con capacità politiche e legittimità più deboli, a causa di una “decolonizzazione negligente”, sono attori proattivi. Non sono solo destinatari passivi di aiuti, ma investono attivamente per compensare le carenze interne e accelerare il loro state-building. Questo ci dà una visione più sfumata del ruolo degli stati del Sud Globale nella governance globale.

Infine, ci fa riflettere sulla struttura dei finanziamenti ONU, sempre più orientata verso contributi volontari e spesso vincolati. Se gli stati con eredità di decolonizzazione difficili usano questi contributi per le loro priorità interne, la linea tra il bene pubblico internazionale e l’interesse nazionale si fa sempre più sottile. Le agenzie ONU diventano quasi dei “canali” per trasferire risorse statali verso agende nazionali.

Insomma, la prossima volta che sentiremo parlare di aiuti e contributi internazionali, forse guarderemo la cosa con occhi diversi, pensando a quelle “radici storiche” che, ancora oggi, influenzano chi dà, quanto dà, e perché. Una lezione affascinante su come il passato continui a modellare il nostro presente e futuro globale.

Fonte: Springer

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