Due persone, un ricercatore e un paziente, in una conversazione calma e rispettosa in un ambiente accogliente e luminoso. Luce naturale, obiettivo da 35mm, profondità di campo, colori tenui, per evocare empatia, ascolto e la delicatezza delle interviste in cure palliative.

Ascoltare con il Cuore (e la Mente): L’Arte dell’Empatia nelle Interviste Palliative, Senza Dimenticare Se Stessi

Avete mai pensato a cosa significhi davvero entrare in punta di piedi nella vita di qualcuno che sta affrontando un momento così delicato come le cure palliative? Non parlo solo di medici o infermieri, ma anche di noi ricercatori, quando cerchiamo di comprendere più a fondo queste esperienze attraverso le interviste. Recentemente, mi sono imbattuto in uno studio qualitativo che mi ha fatto riflettere profondamente sull’importanza di essere “empatici, accomodanti, non solo con la persona con cui parli, ma anche con te stesso”. E credetemi, quest’ultima parte è tutt’altro che scontata.

Quando si conducono ricerche, specialmente con gruppi considerati “vulnerabili” come i pazienti in cure palliative e i loro familiari, l’approccio deve essere incredibilmente sensibile. La ricerca qualitativa, in questo contesto, è uno strumento potentissimo: ci permette di esplorare le profondità emotive, esistenziali e le esperienze vissute che i numeri da soli non potrebbero mai raccontare. Ci offre una visione olistica dei bisogni, dei valori e delle preferenze dei pazienti. Ma, come potete immaginare, sollevare il velo su temi così intensi può scatenare reazioni emotive forti, sia nei partecipanti che, sì, anche in noi ricercatori.

La Vulnerabilità: Una Questione di Contesto, Non un’Etichetta

Spesso si etichettano i pazienti in cure palliative come “vulnerabili” e bisognosi di protezione. Se da un lato è vero, dall’altro lo studio sottolinea come la vulnerabilità non sia una caratteristica intrinseca di un gruppo, ma piuttosto un fenomeno stratificato e dipendente dal contesto. Deriva da un intreccio di fattori sociali, economici e politici. È fondamentale riconoscere questa complessità per evitare che le pratiche etiche rafforzino categorizzazioni statiche. Anzi, la vulnerabilità può emergere anche nel ricercatore stesso, evidenziando quanto sia cruciale la riflessività in tutto il processo.

C’è una sorta di tensione palpabile: da un lato, la necessità di proteggere chi partecipa alla ricerca; dall’altro, l’urgenza di raccogliere dati preziosi per migliorare l’assistenza. Qui entrano in gioco i principi etici fondamentali: consenso informato, protezione della confidenzialità e della privacy, onestà, integrità e, soprattutto, l’obbligo di evitare danni. Bilanciare l’autonomia dei partecipanti con il loro bisogno di protezione è un bel dilemma etico!

Le Sfide sul Campo: Fatica, Concentrazione e la Qualità dei Dati

Intervistare pazienti in condizioni palliative presenta sfide uniche. La fatica e la difficoltà di concentrazione possono essere significative, rendendo complesso per loro fornire risposte dettagliate, quelle risposte che sono oro colato per un’analisi scientifica approfondita. Per questo, servono intervistatori ben addestrati, con una solida conoscenza metodologica. Non ci si improvvisa.

Lo studio che ho letto ha identificato quattro temi principali, costantemente interconnessi, che sono cruciali per bilanciare le esigenze dei partecipanti con le richieste della ricerca qualitativa. Questi sono: la relazione, la comunicazione, l’autoriflessione e il contesto della ricerca. Approfondiamoli un po’.

1. La Relazione: Il Cuore Pulsante dell’Intervista

Nella ricerca qualitativa, specialmente su temi così delicati, la relazione tra ricercatore e partecipante è tutto. Una relazione di fiducia permette conversazioni più profonde e oneste, elevando la qualità dei dati. Ma come si costruisce questa fiducia? Con apertura, onestà e apprezzamento per la serietà della situazione del paziente. Un elemento chiave è il coinvolgimento attivo del paziente: il suo punto di vista deve essere sempre prioritario, i suoi bisogni e preferenze rispettati. Come ha detto un consulente per il lutto intervistato nello studio: “Penso si tratti sempre di spazio, tempo e, tra virgolette, una controparte comprensiva. In altre parole, orecchie aperte e un cuore aperto”.

Oltre alla fiducia, è vitale riconoscere il paziente nella sua interezza e accettare i suoi bisogni. Dobbiamo sintonizzarci sulla sua prospettiva, mettendo da parte la nostra. L’orientamento ai bisogni significa comprendere le sue idee e desideri senza imporre i nostri standard. L’accettazione è la chiave. Un medico ha sottolineato: “Capisco quali sono le sue preoccupazioni e i suoi desideri quando non parto dalla mia qualità della vita e non dalla mia idea della sua qualità della vita, ma quando arrivo effettivamente al livello di comunicazione in cui si tratta davvero di lui e non di me”.

Questo richiede empatia e sensibilità. L’empatia è mettersi nei panni emotivi del paziente; la sensibilità è trattare con delicatezza i suoi bisogni emotivi e fisici, senza perdere la necessaria distanza professionale. È un equilibrio sottile: vicinanza per far sentire il paziente compreso, ma anche distanza per proteggersi emotivamente e rimanere professionali. Qui emerge la citazione che dà il titolo allo studio: “Che tu sia empatico non solo con l’altra persona, ma anche empatico con te stesso… Essere empatici, essere accomodanti. Ma non solo con la persona con cui stai parlando, ma anche con te stesso”. Parole sante, direi.

Un primo piano delicato di due mani che si stringono, una più anziana e fragile, l'altra che offre supporto e ascolto. Luce soffusa, bianco e nero, profondità di campo, obiettivo da 35mm per ritratti, a simboleggiare l'empatia, la fiducia e la connessione umana in un contesto di cura palliativa.

2. La Comunicazione: Oltre le Parole

Una comunicazione onesta e rispettosa, alla pari, è il veicolo principale per realizzare questi aspetti. Non è solo uno scambio di informazioni, ma un modo per costruire fiducia, comprendere bisogni e stabilire una connessione empatica. Onestà, autenticità e comunicazione paritaria sono essenziali. Il paziente deve essere percepito come un partner alla pari nel dialogo. Come ha detto un coordinatore: “Penso sia importante essere aperti e onesti e dire al paziente, quando dice che al momento va così male, che va male, e non necessariamente indorare la pillola. Che ci sia semplicemente una comunicazione onesta”.

E non dimentichiamoci della comunicazione non verbale! Espressioni facciali, gesti, postura, contatto visivo: questi segnali sottili possono rivelare più delle parole. Un medico ha raccontato: “Presto attenzione ai segnali che la persona mi invia, alla sua situazione emotiva, al suo umore, ai suoi desideri, alle sue preoccupazioni. Faccio domande. Faccio pause nella conversazione. Cerco di non dominare la conversazione, ma di dare loro lo spazio di cui hanno bisogno”. Ovviamente, anche noi ricercatori comunichiamo non verbalmente, quindi dobbiamo essere consapevoli dei nostri segnali.

Quando percepiamo segnali non verbali, dobbiamo essere pronti a reagire con flessibilità e spontaneità. Questo significa saper deviare dal copione per rispondere ai bisogni e alle emozioni del momento. È un continuo bilanciamento tra l’orientamento ai bisogni e la raccolta di dati di qualità. “Ho una struttura interna di ciò che voglio sapere e sì, poi penso avanti, ma ovviamente rispondo a ciò che dicono i pazienti. E questo è così importante o così interessante […] e devi trovare un compromesso in qualche modo affinché entrambi ne usciamo bene”, ha spiegato un altro medico.

3. L’Autoriflessione: Guardarsi Dentro per Guardare Meglio Fuori

Qui tocchiamo un nervo scoperto, ma fondamentale. Una buona autoriflessione prima, durante e dopo queste conversazioni è cruciale per una raccolta dati di alta qualità che rispetti i bisogni di tutti. Come ricercatori, dovremmo riflettere sulle nostre esperienze con l’argomento. Questo è un processo continuo, non qualcosa da fare solo una volta prima di iniziare uno studio. Attraverso il confronto con la propria finitezza e le esperienze in questo contesto, si può sviluppare un atteggiamento palliativo fondamentale. Un consulente per il lutto ha osservato: “Credo che la maggior parte, o si spera tutti, coloro che lavorano in queste aree siano, da un lato, molto competenti e qualificati professionalmente e abbiano, si spera, tutti affrontato le proprie esperienze e le esperienze che hanno a che fare con l’addio, il lutto e la morte. E se lo hanno fatto, […] hanno sviluppato un tale atteggiamento per sé stessi, e non può essere distaccato da sé stessi”.

Questo atteggiamento influenza l’intero processo di ricerca. Durante la raccolta dati, la consapevolezza del proprio atteggiamento e delle proprie percezioni ci mette di fronte alla sfida della sopportazione. La realtà non sempre coincide con ciò che desideriamo o percepiamo come buono. Nel processo di ricerca, questo significa anche sostenere e sopportare la situazione e il mondo emotivo del partecipante. “E molti di noi hanno un’idea di cosa sia bello e cosa no, cosa sia ragionevole e cosa no. Ognuno ha la propria idea, e spesso accade che ci discostiamo molto da questo e che si debba sopportarlo personalmente – questo è stato effettivamente un processo di apprendimento per me, e non credo che accada dall’oggi al domani. […] E accetto anche che la situazione non possa essere cambiata al momento perché è quello che la persona vuole”, ha condiviso un coordinatore. Per rimanere capaci di agire in modo appropriato, dovremmo considerare in anticipo come affronteremmo punti di vista diversi.

Oltre al proprio atteggiamento palliativo, è necessario prestare attenzione alle proprie emozioni e praticare l’igiene mentale. Questo può avvenire scambiando esperienze e punti di vista con i colleghi del team di ricerca e riflettendo sui propri bisogni, come fare una passeggiata dopo l’intervista.

Un ricercatore seduto a una scrivania con taccuino e penna, guarda pensieroso fuori da una finestra. Luce naturale che entra dalla finestra, colori tenui, duotone seppia e grigio, obiettivo da 50mm, per trasmettere un senso di introspezione, autoriflessione e la necessità di elaborazione emotiva dopo interviste intense.

4. Il Contesto della Ricerca: La Cornice che Sostiene Tutto

Tutti i fattori menzionati sono influenzati da misure esterne e preparatorie che strutturano e supportano il processo di ricerca. Il contesto della ricerca comprende aspetti strutturali e organizzativi, inclusi il contesto temporale e geografico, nonché la preparazione e il follow-up.

La flessibilità temporale è regina: bisogna considerare lo stato di salute e la routine quotidiana dei pazienti quando si pianificano gli orari delle interviste. Meglio prevedere del tempo extra. Questo permette un’atmosfera calma, senza fretta, e la possibilità di integrare pause se necessario. “Noti che le pause si allungano o, o, o. Che poi dici semplicemente che faremo una pausa o chiedi semplicemente all’altra persona: ‘Come va per te in questo momento?’ Dovremmo fare una pausa? Dovremmo forse riprenderla un’altra volta?”, suggerisce uno specialista in educazione sociale. Tuttavia, un lasso di tempo ampio dovrebbe essere definito in anticipo per creare aspettative realistiche.

Per quanto riguarda il contesto geografico, l’importante è che il partecipante si senta sicuro. La conversazione dovrebbe avvenire in un luogo senza interruzioni; chiudere una porta può aiutare a creare e mantenere una base di fiducia. Spesso, le conversazioni avvengono a casa del paziente, ma queste accortezze sono utili anche se l’intervista si svolge in un hospice. Un medico ha detto: “Penso che l’ambiente dovrebbe essere così e cerco sempre di assicurarmi che le conversazioni che ho siano in una stanza chiusa o in un’area chiusa dove si possa effettivamente raggiungere la riservatezza in modo che le influenze esterne non interferiscano con la conversazione”. Qualcuno ha persino menzionato la posizione seduta come fattore da considerare! Non c’è un giusto o sbagliato, ognuno deve capire cosa preferisce. Piccoli aspetti che possono avere un grande impatto sul benessere di tutti e, di conseguenza, sul risultato.

La preparazione personale del ricercatore è un altro tassello. Immediatamente prima di un’intervista, dovremmo fare un check-in con noi stessi e prestare attenzione ai nostri bisogni. Soddisfarli in anticipo ci permette di concentrarci sull’interlocutore. Una sorta di rituale può aiutare ad approcciare la situazione con calma e mente lucida. “Certo, devo prestare attenzione a come sto personalmente. Devo sviluppare rituali per prendermi il mio tempo. Intendo anche prendermi tempo mentalmente per questa conversazione, per questo paziente. In altre parole, devo cercare di mettere da parte tutto il resto e concentrarmi solo sul paziente in questa conversazione, in questa comunicazione”, ha spiegato un medico. Altri esempi di rituali? Un respiro profondo, una breve passeggiata, indossare certi abiti.

I rituali giocano un ruolo importante anche nel follow-up. Prima di tutto, la conversazione va documentata. Ma anche i propri sentimenti dovrebbero essere riflessi e documentati. Dopo l’intervista, altro check-in con se stessi: di cosa ho bisogno ora? Il contenuto e il contesto di queste interviste possono essere estenuanti. Lo scambio con i colleghi o la supervisione collegiale devono essere garantiti durante tutto il processo di ricerca. È l’unico modo per assicurare sicurezza strutturale ai ricercatori e, di conseguenza, ai pazienti e ai loro familiari. Un coordinatore ha condiviso la sua valvola di sfogo: “E io ho effettivamente una valvola di sfogo, mi siedo in macchina dopo e mi piace sempre ascoltare musica ad alto volume (ride). Questa è la mia valvola di sfogo per rilassarmi”.

Un Equilibrio Delicato ma Necessario

Lo studio mette in luce come questi aspetti – relazione, comunicazione, autoriflessione, inseriti nel contesto della ricerca – siano profondamente intrecciati. L’orientamento ai bisogni, la fiducia, l’accettazione e l’empatia attraversano tutti i temi. Emerge chiaramente la grande tensione tra le sfide della ricerca (qualitativa) e le sfide insite nelle cure palliative. È necessario trovare e mantenere un equilibrio per condurre una raccolta dati di alta qualità e, contemporaneamente, soddisfare le esigenze dei pazienti palliativi e dei loro familiari.

La paura che i pazienti, già vulnerabili, vengano ulteriormente appesantiti dalla partecipazione alla ricerca può essere contrastata tenendo conto di questi aspetti. In definitiva, la sfida principale per noi ricercatori è creare un buon equilibrio tra i requisiti della ricerca qualitativa e quelli del soddisfacimento dei bisogni dei pazienti. E l’aspetto chiave, come avrete capito, è l’orientamento ai bisogni – i bisogni dei pazienti, ma anche i nostri.

Certo, lo studio ha i suoi limiti, come un campione non vastissimo, anche se è stata raggiunta una saturazione dei contenuti. E gli intervistati erano professionisti sanitari, non ricercatori. Ma il messaggio fondamentale resta: per preparare e condurre attività di ricerca nel contesto delle cure palliative, è imprescindibile un confronto attivo con la (propria) finitezza della vita, per sviluppare un atteggiamento palliativo fondamentale e raggiungere una costante autoriflessione. Formazione mirata in cure palliative e abilità comunicative sono essenziali. Non è un percorso facile, ma è l’unico che ci permette di ascoltare davvero, con il cuore e con la mente.

Fonte: Springer

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