Dottorato al Femminile: Perché Siamo Meno Soddisfatte? Uno Sguardo Globale
Ciao a tutte! Oggi voglio parlarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore e che, scommetto, tocca molte di noi che si sono avventurate (o stanno pensando di farlo) nel tortuoso ma affascinante mondo del dottorato di ricerca. Avete mai avuto la sensazione che, per noi donne, questo percorso sia un po’ più in salita rispetto ai nostri colleghi maschi? Non è solo una sensazione, purtroppo. Mi sono imbattuta in uno studio imponente, pubblicato su Springer Nature, che ha coinvolto ben 6372 dottorandi e dottorande da 108 Paesi diversi. Il titolo è diretto: “Le studentesse di dottorato sono meno soddisfatte delle esperienze di candidatura al dottorato?”. E la risposta, ahimè, sembra essere un sì.
La dura realtà dei numeri: soddisfazione in calo
Partiamo dai dati nudi e crudi. Lo studio, basato sul “Nature Global Doctoral Student Survey” del 2019, rivela che noi donne tendiamo ad avere un tasso di soddisfazione generale più basso durante il dottorato rispetto agli uomini. Ma non solo: la probabilità che la nostra soddisfazione diminuisca nel corso degli studi è superiore del 3.88% rispetto a quella dei colleghi maschi. Non è una differenza da poco, se pensiamo a quanto sia già impegnativo e stressante questo percorso per chiunque.
Ma perché succede questo? Cosa rende l’esperienza del dottorato potenzialmente meno gratificante per noi? Lo studio non si ferma alla constatazione, ma cerca di scavare più a fondo per capire i meccanismi che stanno dietro a questa disparità. E quello che emerge è un quadro complesso, fatto di sfide specifiche che noi donne affrontiamo più frequentemente.
Discriminazione e Molestie: fantasmi ancora presenti
Sembra incredibile doverne parlare ancora oggi, ma due dei fattori chiave identificati dallo studio sono la discriminazione di genere e le molestie sessuali. I risultati sono piuttosto scioccanti: noi dottorande abbiamo una probabilità superiore del 12.35% di incontrare discriminazioni basate sul genere e del 6.81% in più di subire molestie sessuali rispetto ai dottorandi maschi.
Questi dati fanno riflettere. L’ambiente accademico, che dovrebbe essere un luogo di crescita intellettuale, apertura e parità, si rivela ancora troppo spesso un terreno fertile per pregiudizi e comportamenti inaccettabili. Professori che ci considerano meno capaci “perché donne”, difficoltà a integrarsi in network informali dominati da uomini, stereotipi duri a morire… tutto questo contribuisce a creare un clima che mina la nostra fiducia, il nostro benessere e, di conseguenza, la nostra soddisfazione per il percorso che stiamo facendo. Pensateci: come si può essere pienamente soddisfatte e produttive se ci si sente sminuite, marginalizzate o, peggio ancora, molestate?

L’eterno dilemma: equilibrio vita-lavoro
Altro punto cruciale emerso dalla ricerca è la maggiore difficoltà che incontriamo nel raggiungere un equilibrio tra vita accademica e vita privata (il famoso work-life balance). Questo non sorprenderà molte di noi, specialmente chi ha una famiglia o responsabilità di cura. Lo studio conferma che, a causa di aspettative sociali e culturali ancora molto radicate, spesso il carico delle responsabilità familiari e domestiche ricade maggiormente sulle nostre spalle.
Conciliare le scadenze della ricerca, la scrittura della tesi, gli esperimenti in laboratorio con la gestione della casa, la cura dei figli o di altri familiari diventa una vera e propria impresa eroica. Questo “doppio fardello”, come lo chiamano i ricercatori, drena tempo ed energie preziose che potrebbero essere dedicate allo studio, generando stress e frustrazione. E indovinate un po’? Questo impatta negativamente sulla nostra soddisfazione complessiva. Mentre magari un collega maschio può dedicarsi quasi anima e corpo alla ricerca, noi ci troviamo spesso a dover fare i salti mortali, sentendoci magari in colpa se trascuriamo un fronte o l’altro.
Non siamo tutte uguali: chi soffre di più?
La ricerca fa anche un passo in più, analizzando se ci sono gruppi di dottorande particolarmente vulnerabili. Ebbene sì. La situazione peggiora ulteriormente per chi si trova a lavorare troppo (lo studio definisce “overwork” lavorare più di 50 ore settimanali – e sappiamo quante lo fanno!) e per chi proviene da Paesi a basso o medio-basso reddito.
Le dottorande “sovraccariche” di lavoro mostrano livelli di soddisfazione ancora più bassi. Probabilmente perché l’eccessivo carico accademico rende quasi impossibile quel famoso equilibrio vita-lavoro, amplificando lo stress e l’esaurimento. Per quanto riguarda le colleghe provenienti da contesti economici meno favoriti, è probabile che entrino in gioco fattori come minori risorse a disposizione, sistemi di supporto meno sviluppati e, forse, una persistenza maggiore di stereotipi di genere tradizionali che rendono la vita accademica ancora più complicata.

Cosa ci dice tutto questo? Il modello JD-R e le implicazioni
Lo studio utilizza un modello teorico interessante, il Job Demands-Resources (JD-R), solitamente applicato al mondo del lavoro, per leggere questi risultati. In pratica, il dottorato viene visto come un “lavoro”. Le “richieste” (Job Demands) sono gli aspetti che richiedono sforzo e consumano energia: nel nostro caso, la discriminazione, le molestie, il carico di lavoro eccessivo, la difficoltà a conciliare vita privata e accademica. Le “risorse” (Job Resources) sono invece gli elementi che ci aiutano a raggiungere gli obiettivi e a stare bene: un buon supervisore, supporto dai colleghi, finanziamenti adeguati, ecc.
Secondo questo modello, quando le richieste sono troppo alte e le risorse scarseggiano (come sembra accadere più spesso per noi donne, a causa dei fattori visti prima), l’energia si esaurisce, la motivazione cala e la soddisfazione crolla. Questo non è solo un problema di “sentirsi bene”: una bassa soddisfazione può portare a minore produttività scientifica, problemi di salute mentale (e le dottorande sono già più a rischio!), e persino all’abbandono del percorso accademico o alla scelta di carriere non accademiche dopo il dottorato. Un danno per noi, ma anche per l’intera comunità scientifica che perde talenti.
Allora che si fa? Piste per il cambiamento
La buona notizia è che conoscere il problema è il primo passo per affrontarlo. Lo studio non si limita a denunciare, ma offre anche spunti pratici per migliorare la situazione. Le università e le istituzioni hanno un ruolo cruciale. Ecco alcune raccomandazioni emerse:
- Implementare politiche serie e rigorose contro la discriminazione di genere e le molestie sessuali, con meccanismi di segnalazione chiari e sanzioni efficaci. Tolleranza zero.
- Aumentare la consapevolezza di questi problemi tra docenti e supervisori attraverso formazione specifica.
- Fornire supporto pratico per aiutare le dottorande a bilanciare vita accademica e responsabilità familiari: servizi di childcare accessibili, flessibilità negli orari, possibilità di permessi.
- Monitorare e gestire i carichi di lavoro, assicurandosi che non diventino eccessivi o insostenibili, specialmente per noi donne che potremmo avere meno “margine” a causa di altri impegni.
- Nei Paesi a basso e medio reddito, sono necessari sforzi mirati per rafforzare le iniziative di parità di genere, le tutele legali e l’accesso a risorse e opportunità.

Certo, la ricerca ha i suoi limiti (ad esempio, non analizza le differenze tra discipline scientifiche) e serviranno ulteriori studi, magari longitudinali, per capire ancora meglio le dinamiche. Ma i risultati di questa indagine globale sono un campanello d’allarme che non possiamo ignorare.
Personalmente, leggere questi dati mi ha dato una sorta di amara conferma a sensazioni che ho provato e che ho sentito esprimere da tante colleghe. Ma mi ha dato anche la speranza che, mettendo in luce queste disparità in modo così evidente e su scala così vasta, si possa finalmente spingere per un cambiamento reale. Perché il talento non ha genere, e tutte noi meritiamo di poter vivere l’esperienza del dottorato – con tutte le sue sfide, certo – in un ambiente equo, supportivo e davvero gratificante.
E voi, cosa ne pensate? Vi ritrovate in questi risultati? Parliamone!
Fonte: Springer
