Ritratto fotografico intenso di una donna siriana rifugiata, obiettivo da 35mm, bianco e nero stile film noir, con profondità di campo che enfatizza la sua espressione resiliente, sullo sfondo sfocato delle tende e caravan del campo di Zaatari.

Voci da Zaatari: Viaggio nel Cuore della Resilienza delle Donne Siriane

Avete mai provato a immaginare cosa significhi vivere sospesi? Lasciare tutto – casa, affetti, certezze – per ritrovarsi in un luogo che non è casa, ma che lo diventa per forza? Ecco, oggi voglio portarvi con me in un viaggio, un po’ scomodo forse, ma necessario, dentro il campo profughi di Zaatari, in Giordania. Non per raccontarvi numeri o statistiche che già conoscete, ma per farvi sentire le voci, le speranze e le immense difficoltà delle donne siriane che lì vivono, o meglio, sopravvivono.

Quando si parla di rifugiati, spesso si cade in una generalizzazione che cancella le individualità. Si crea una distinzione netta tra “noi” e “loro”, gli “altri”. E i campi profughi, come Zaatari, diventano il simbolo fisico di questa esclusione: luoghi marginalizzati, spesso carenti di tutto, dove chi è fuggito da guerre e persecuzioni viene, in un certo senso, messo da parte. Ma Zaatari, ve lo assicuro, è un universo complesso, un microcosmo di umanità pulsante che merita di essere compreso, soprattutto attraverso gli occhi delle sue abitanti femminili.

Zaatari: Non Solo un Campo, ma una Città Nata dall’Emergenza

Immaginate una distesa di caravan e tende che si estende a perdita d’occhio. Zaatari è nato nel 2012, in piena crisi siriana, e oggi ospita oltre 85.000 persone. Quello che doveva essere un rifugio temporaneo si è trasformato in una sorta di città, con le sue strade, i suoi mercati improvvisati, le sue scuole e persino i suoi “quartieri”. La gestione è un intricato groviglio di organizzazioni internazionali, istituzioni giordane e dinamiche interne create dagli stessi rifugiati. C’è l’UNHCR, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, organizzazioni femminili internazionali, ma anche leader di strada nominati per gestire la pulizia o la distribuzione dell’acqua, e sceicchi tribali che risolvono dispute interne, portando con sé le gerarchie sociali della Siria che hanno lasciato.

Questa complessità, queste “poliarchie” come le definirebbe l’antropologa Katharina Inhetveen, mostrano come la vita nel campo sia un continuo negoziato tra cura e controllo. Sì, perché se da un lato si riceve assistenza, dall’altro si è costantemente monitorati. Ricordo una volta, nel 2017, di aver accompagnato una mia amica, Suhad, all’ufficio permessi per uscire dal campo. Un’attesa estenuante, un interrogatorio quasi surreale sul perché volesse uscire. Situazioni che ti sbattono in faccia la realtà: Zaatari è uno spazio di esclusione, dove la libertà di movimento è un lusso.

La Vita Quotidiana delle Donne: Una Lotta Continua

Ora, concentratevi sulle donne. Per loro, la vita a Zaatari è una sfida nella sfida. Partiamo dalle basi: le condizioni abitative. Vivere in caravan che non proteggono né dal freddo pungente del deserto né dal caldo torrido, con una cronica mancanza di privacy, è già di per sé logorante. Aggiungeteci la scarsità di risorse, la difficoltà ad accedere ai servizi essenziali, un’infrastruttura carente che rende l’ambiente insalubre e favorisce il diffondersi di malattie. La mancanza di elettricità costante, sebbene mitigata da un impianto solare dal 2017, rende le notti insicure. Narmin, una donna con cui sono rimasta in contatto via WhatsApp, mi raccontava di frequenti interruzioni di corrente e di come questo aumenti il rischio di molestie e violenze sessuali, specialmente al buio.

E la violenza, purtroppo, è un’ombra costante. L’UNHCR classifica la violenza di genere contro le rifugiate siriane in diverse fasi: prima della fuga, durante la fuga e nel paese ospitante. A Zaatari, il rischio di molestie sessuali o di essere costrette ad atti sessuali è alto, soprattutto per le donne sole. E non dimentichiamo la violenza domestica, che spesso si acuisce in contesti di stress e precarietà come quello di un campo profughi.

Ritratto fotografico di una donna siriana rifugiata nel campo di Zaatari, obiettivo da 35mm, duotono seppia e grigio, profondità di campo, che esprima resilienza e dignità nonostante le difficoltà, con lo sfondo leggermente sfocato delle caravan del campo.

Le donne con cui ho parlato mi hanno aperto un mondo di sofferenza, ma anche di incredibile forza. Molte hanno perso mariti, padri, fratelli in guerra. Si ritrovano improvvisamente capofamiglia, con la responsabilità di sfamare e crescere i figli. Pensate, circa il 30% delle famiglie a Zaatari, secondo l’UNHCR, è guidato da donne. Questo significa un doppio ruolo: madre e principale fonte di reddito, in un contesto dove le opportunità lavorative sono scarse e spesso mal pagate. E anche quando l’uomo è presente, le dinamiche di potere tradizionali faticano a cambiare, e la violenza domestica può persistere.

Istruzione Negata e Matrimoni Precoci: Un Futuro Rubato

Un altro tasto dolente è l’istruzione delle ragazze. Molte abbandonano la scuola intorno ai 14 anni. Le ragioni? Economiche, certo – spesso devono lavorare per aiutare la famiglia – ma anche sociali. La paura di molestie lungo il tragitto per la scuola, la convinzione radicata che il destino di una donna sia comunque quello di sposarsi e fare figli. “Tanto finirò per fare la casalinga, che io studi o no. Questo è il lavoro di una donna”, mi disse Umm Yahya, sposata a tredici anni. Il suo matrimonio, celebrato da uno sceicco perché la legge giordana non lo permetteva prima dei quindici anni, fu registrato solo dopo la nascita del suo primo figlio, a quattordici anni.

Il fenomeno dei matrimoni precoci è drammaticamente diffuso. Quasi due ragazze su cinque a Zaatari si sposano prima dei 18 anni, quasi il doppio della media globale. Dal 2019 c’è stato un aumento di quasi il 12%, con spose bambine anche di soli 12 anni. Le madri stesse, spesso, spingono per queste unioni precoci. “Ho fatto sposare mia figlia giovane perché non fosse esposta a molestie sessuali. Suo marito è responsabile per lei e per proteggerla”, mi confidò Suad, Umm Abdullah. Una scelta dettata dalla disperazione, dalla mancanza di sicurezza e dalla volontà di “proteggere l’onore della famiglia” in un ambiente dove la privacy è inesistente e i rischi percepiti sono altissimi.

Un Microcosmo Siriano: Tradizioni e Sfide

Nonostante tutto, Zaatari non è solo sofferenza. È anche un luogo dove i rifugiati hanno cercato di ricreare un frammento della loro Siria. Le strade del campo hanno nomi come Via Al-Hal, Via Latakia, persino Champs-Élysées, a ricordare le città lasciate alle spalle. Si è formato un “microcosmo” della società siriana, con le sue usanze, le sue regole, ma anche le sue sfide interne. Le organizzazioni giovanili volontarie, per esempio, sono state spesso supportate e finanziate dall’amministrazione del campo, coinvolgendo i giovani nella vita comunitaria.

Questa capacità di riorganizzarsi, di creare strutture sociali anche in condizioni estreme, è affascinante. Ma non deve farci dimenticare la natura intrinsecamente problematica dei campi profughi. Sono spazi pensati per l’emergenza che si cronicizzano, diventando soluzioni a lungo termine che perpetuano l’esclusione. La mia ricerca, basata su interviste qualitative, racconti e osservazioni dirette tra il 2016 e il 2017, e contatti proseguiti fino al 2024, ha cercato di far emergere proprio questo: le condizioni di vita reali, le dinamiche di genere, le strategie di sopravvivenza.

Fotografia di una giovane ragazza siriana in un'aula improvvisata nel campo di Zaatari, obiettivo da 35mm, bianco e nero, stile reportage, che catturi la sua espressione pensierosa e la precarietà dell'ambiente educativo, con dettagli di quaderni e lavagna.

Le storie di queste donne sono un pugno nello stomaco, ma anche una lezione di resilienza. Ci mostrano come migliorare le loro condizioni di vita non sia solo un atto di umanità, ma un investimento per il futuro di intere comunità. Integrare una prospettiva di genere nelle politiche umanitarie è fondamentale per capire le dinamiche di potere e discriminazione in contesti di rifugio.

Cosa Possiamo Imparare?

La mia esperienza a Zaatari mi ha insegnato che dietro la parola “rifugiato” ci sono persone, storie, sogni infranti e speranze tenaci. Le donne, in particolare, portano un peso enorme, ma sono anche agenti di cambiamento incredibili. Ascoltarle, comprendere le loro sfide – dalla povertà alla violenza, dalla mancanza di istruzione alla perdita di identità – è il primo passo per costruire soluzioni più sostenibili e inclusive.

Non si tratta solo di fornire aiuti materiali, ma di restituire dignità, opportunità e la possibilità di scegliere. Migliorare le infrastrutture, garantire sicurezza, promuovere l’istruzione e l’empowerment economico femminile, contrastare la violenza di genere: sono azioni concrete che possono fare la differenza. Zaatari, e i tanti campi come questo nel mondo, non dovrebbero essere buchi neri dove l’umanità viene dimenticata, ma luoghi dove si coltiva la speranza di un futuro diverso, un futuro in cui nessuna donna debba più scegliere tra la propria sicurezza e i propri sogni.

Spero che questo piccolo squarcio sulla vita delle donne di Zaatari vi abbia toccato. Perché solo comprendendo a fondo queste realtà possiamo sperare di cambiarle, un passo alla volta.

Fonte: Springer

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