Doppia Fragilità: Donne Ex Detenute tra Malattia Mentale, Dipendenze e Rischio di Ricaduta
Parliamoci chiaro: quando pensiamo al carcere, spesso l’immagine che ci viene in mente è prevalentemente maschile. Eppure, c’è un universo femminile dietro le sbarre, un mondo spesso invisibile e carico di complessità uniche. Oggi voglio portarvi con me in un viaggio dentro una realtà delicata e poco esplorata: quella delle donne che escono di prigione e si trovano ad affrontare non solo la sfida del reinserimento, ma anche il peso di disturbi mentali gravi e problemi di dipendenza.
Mi sono imbattuto in uno studio norvegese recente, pubblicato su Springer Nature, che getta una luce potente su questo tema. Il titolo è tecnico – “Substance use disorders, severe mental illness and risk of reoffending among women released from prison: a national cohort study” – ma il messaggio è forte e chiaro: per queste donne, la strada verso una vita fuori dal crimine è particolarmente in salita.
Un’Indagine Approfondita nel Contesto Norvegese
Quello che rende questo studio particolarmente interessante è la sua portata. Non si tratta di un piccolo gruppo, ma di un’analisi retrospettiva su tutte le donne rilasciate dalle carceri norvegesi tra il 2011 e il 2019. Immaginate la mole di dati! I ricercatori hanno incrociato le informazioni del registro penitenziario norvegese (nPRIS) con altri registri nazionali, come quello sanitario (NPR) e quello statistico (SSB). Questo ha permesso di seguire ogni donna per due anni dopo il rilascio, monitorando eventuali nuovi reati.
L’obiettivo era capire se avere una storia clinica di malattia mentale grave (SMI), di disturbi da uso di sostanze (SUD), o una combinazione di questi problemi, aumentasse il rischio di ricadere nel crimine. E non un crimine qualsiasi: hanno distinto tra reati violenti, reati legati alla droga e altri tipi di reati.
Chi sono queste donne? I profili a rischio
Lo studio ha identificato alcuni profili specifici, basandosi sulle diagnosi registrate prima dell’ingresso in carcere:
- SUD-SMI: Donne con una storia sia di disturbo da uso di sostanze (esclusa la nicotina) sia di malattia mentale grave (psicosi, disturbo bipolare, depressione maggiore, psicosi indotta da sostanze, disturbo borderline o antisociale di personalità).
- SMI: Donne con una storia di malattia mentale grave, ma senza disturbi da uso di sostanze.
- SUD-OMI: Donne con disturbo da uso di sostanze e altre malattie mentali (diverse da quelle classificate come gravi), ma senza storia di psicosi indotta da sostanze.
- POLY-SUD: Donne con una storia di dipendenza da più sostanze (esclusa la nicotina) o diagnosi generica di dipendenza multipla, ma senza storia di malattie mentali (né gravi né altre).
Questi gruppi sono stati confrontati con una popolazione di riferimento: donne uscite dal carcere senza una storia clinica riconducibile a questi profili complessi.
Cosa succede dopo il rilascio? I numeri della ricaduta
I risultati sono, francamente, preoccupanti. Circa la metà (il 50%!) delle donne nello studio aveva una storia clinica riconducibile a uno dei profili a rischio (SUD-SMI, SMI, SUD-OMI, POLY-SUD). E questo si traduceva in un rischio maggiore di tornare a commettere reati.
Ecco i punti salienti, tenendo conto anche di altri fattori di rischio noti (come precedenti penali, status socio-economico, ecc.):
- Le donne con SUD-SMI (dipendenza + malattia mentale grave) avevano una probabilità significativamente più alta di commettere reati violenti (oltre il doppio del rischio rispetto al gruppo di riferimento) e reati legati alla droga (anche qui, rischio più che raddoppiato).
- Anche le donne con SUD-OMI (dipendenza + altra malattia mentale) mostravano un rischio aumentato per reati violenti (quasi il doppio) e reati legati alla droga (circa una volta e mezza).
- Le donne con POLY-SUD (dipendenza multipla) avevano anch’esse un rischio maggiore per reati violenti (quasi il doppio) e, in modo particolarmente marcato, per reati legati alla droga (rischio due volte e mezzo superiore).
- Curiosamente, le donne con SMI (solo malattia mentale grave, senza SUD) non mostravano un rischio aumentato per reati violenti o legati alla droga, ma avevano una probabilità significativamente più alta (più di due volte e mezza) di commettere altri tipi di reati (non violenti e non legati alla droga).
Un dato che fa riflettere: sebbene le donne con SUD-SMI o POLY-SUD costituissero circa un quarto del totale, erano responsabili di quasi la metà (46% e 45% rispettivamente) dei reati violenti e di quelli legati alla droga osservati nei due anni successivi al rilascio.
Oltre i numeri: cosa significa tutto questo?
Questi dati confermano qualcosa che forse intuivamo, ma che ora vediamo nero su bianco: la comorbidità psichiatrica, cioè la presenza contemporanea di disturbi mentali e dipendenze, è un fattore di rischio enorme per le donne che escono dal carcere. Non si tratta solo di “cattive abitudini” o “scelte sbagliate”. Parliamo di condizioni mediche complesse, spesso radicate in storie di traumi, deprivazione e marginalizzazione.
Lo studio sottolinea come le donne in carcere presentino tassi elevatissimi di problemi di salute mentale e dipendenze, spesso superiori a quelli degli uomini. In Norvegia, ad esempio, quasi il 40% delle donne detenute ha una storia di vita con entrambe le problematiche, contro il 24% degli uomini. Viene da chiedersi se il sistema giudiziario e penitenziario sia attrezzato per gestire questa complessità.
È interessante notare la differenza nel profilo di ricaduta per le donne con sola SMI. Il fatto che il loro rischio sia legato a reati “altri”, non violenti o di droga, suggerisce che la dinamica sia diversa quando non c’è la componente della dipendenza attiva. Questo, secondo me, rafforza l’idea che l’uso di sostanze sia un motore potentissimo nel ciclo della criminalità, specialmente quella più grave.
Un sistema che fatica? Il contesto sociale e politico
Lo studio norvegese non si ferma ai numeri, ma invita a riflettere sul contesto. Negli ultimi anni, in Norvegia (e non solo), si è assistito a una riduzione dei posti letto nei servizi di salute mentale pubblici e a un uso crescente di sanzioni alternative al carcere. Questo potrebbe aver portato a una sorta di “selezione” nelle carceri, dove finiscono le persone con i problemi più gravi o meno adatte ad altre misure. Una conseguenza, forse non voluta, è proprio l’aumento della prevalenza di disturbi psichiatrici tra i nuovi ingressi in carcere, specialmente tra le donne.
C’è il rischio che problemi che richiederebbero cure psichiatriche vengano invece “criminalizzati”. Se una persona con gravi problemi di salute mentale non trova adeguato supporto fuori, è più probabile che finisca coinvolta nel sistema giudiziario.
La prigione come bivio: rischio o opportunità?
È un paradosso. Da un lato, l’esperienza carceraria può essere traumatica e peggiorare le vulnerabilità preesistenti. Dall’altro, rappresenta una “finestra di opportunità” unica per intercettare queste donne, diagnosticare i loro problemi e iniziare un percorso di cura. Ma questo richiede risorse, personale formato e un approccio integrato che tratti sia la salute mentale sia la dipendenza.
I programmi di reinserimento post-rilascio sono cruciali. Senza un supporto continuo – terapeutico, abitativo, lavorativo – il rischio di ricaduta è altissimo. Lo studio evidenzia come fattori quali basso status socio-economico, precedenti reati, traumi cranici, autolesionismo, ADHD e PTSD siano molto diffusi in questa popolazione e contribuiscano al rischio.
Uno sguardo onesto: i limiti dello studio
Come ogni ricerca, anche questa ha i suoi limiti. Basarsi sui dati dei registri sanitari significa che si “vedono” solo le diagnosi ufficialmente registrate. È probabile che la prevalenza reale dei disturbi sia sottostimata. Inoltre, non si è potuto tener conto di fattori importanti come la gravità dei sintomi al momento del rilascio, l’aderenza ai trattamenti o la qualità dei programmi di supporto ricevuti.
Guardare avanti: cosa possiamo fare?
Il messaggio chiave di questo studio è potente: le donne con malattie mentali gravi e/o disturbi da uso di sostanze sono sovrarappresentate tra chi ricade nel crimine dopo il carcere. Ignorare questa realtà significa condannare molte di loro a un ciclo continuo di reati e detenzione, con costi umani e sociali enormi.
Cosa serve? Secondo me, e alla luce di questi dati, è fondamentale:
- Potenziare i servizi di salute mentale pubblici, per evitare che il carcere diventi l’unica risposta a problemi psichiatrici.
- Valutare strategie di diversione dal carcere per chi ha problemi complessi di salute mentale, indirizzandole verso percorsi di cura.
- Garantire cure integrate (salute mentale e dipendenze) di alta qualità all’interno delle carceri e, soprattutto, nel delicato momento del rilascio e del reinserimento.
- Adottare un approccio sensibile al genere e al trauma, riconoscendo le specifiche vulnerabilità e i percorsi di vita delle donne.
- Investire in ricerca per capire meglio quali interventi funzionano davvero per questo gruppo specifico.
Queste donne rappresentano una minoranza vulnerabile e spesso dimenticata. È ora di ascoltare le loro storie, comprendere le loro difficoltà e costruire percorsi di speranza e recupero reali. Non è solo una questione di giustizia, ma di umanità.
Fonte: Springer