Disinformazione in Portogallo: Viaggio tra Fake News, Politica e Regole UE
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema scottante, uno di quelli che ormai ci ronza intorno quasi quotidianamente: la disinformazione. Sappiamo tutti quanto sia diventata pervasiva, specialmente online, e come eventi globali come la pandemia di COVID-19 o la guerra in Ucraina abbiano gettato benzina sul fuoco, aumentando le preoccupazioni per la nostra sicurezza e per la tenuta delle democrazie.
Ma cos’è esattamente la disinformazione? In parole povere, è la diffusione deliberata di notizie false o fuorvianti per influenzare le nostre opinioni e i nostri comportamenti, spesso per motivi politici o economici. È un fenomeno globale, certo, ma come si manifesta nei singoli paesi? Recentemente mi sono imbattuto in uno studio qualitativo molto interessante che ha acceso i riflettori sul Portogallo. Ha esplorato le dinamiche della disinformazione lì, valutando le vulnerabilità pubbliche e politiche e dando un’occhiata al quadro normativo. Gli autori hanno intervistato 15 esperti portoghesi di vari settori (governativo e non) alla fine del 2023, e quello che è emerso è davvero affascinante. Pronti a scoprire cosa succede nel paese lusitano? Andiamo!
Disinformazione “Fatta in Casa”: Livello Principiante?
Una delle prime cose che salta all’occhio dai racconti degli esperti è che la disinformazione prodotta internamente in Portogallo sembra essere, diciamo, ancora un po’ “acerba” rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea come Francia o Germania. Meno quantità e meno “sofisticazione”, dicono.
C’è stato un “prima e dopo COVID”, come sottolineano molti. La pandemia ha fatto da catalizzatore, intensificando la produzione e la diffusione di fake news, sia interne che esterne. Ricordate le battaglie online sul virus, sulle cure, sui vaccini? Ecco, in Portogallo è successo lo stesso, spesso alimentato da movimenti organizzati e fonti comuni che poi hanno semplicemente “riciclato” le stesse dinamiche per parlare della guerra in Ucraina, collegandosi magari a teorie cospirazioniste su presunte “agende globaliste”.
Ma il vero motore della disinformazione politica interna, secondo gli intervistati, sembra avere un nome: i movimenti di estrema destra populista, in particolare il partito Chega. La sua ascesa, culminata con l’ingresso in parlamento nel 2019, ha segnato un cambio di passo. La campagna elettorale di quell’anno era già stata caratterizzata da un’intensificazione di contenuti mirati a screditare figure politiche avversarie, soprattutto di sinistra.
Dopo le elezioni, la presenza mediatica quotidiana del leader di Chega ha spianato la strada a un’ondata (quasi una normalizzazione, per alcuni) di temi populisti sui social media. All’inizio, il cavallo di battaglia principale era la corruzione, spesso tirando in ballo o insinuando sospetti su politici rivali o giornalisti. Questa focalizzazione sulla corruzione è vista come una specificità portoghese rispetto al resto d’Europa, dove magari dominavano temi come xenofobia e immigrazione. In questo, il Portogallo sembrava più vicino a dinamiche latinoamericane, tipo quelle brasiliane.
Alcuni esperti ipotizzano che Chega possa aver importato il “know-how” da altre forze di estrema destra europee per le sue strategie di propaganda digitale, sfruttando pagine Facebook (ufficiali e non), profili falsi e gruppi social.
Un Cambio di Rotta: Dall’Interno all’Esterno (e Ritorno)
Negli ultimi anni, però, le cose sono cambiate. La disinformazione non solo si è intensificata, ma i temi hanno iniziato ad allinearsi maggiormente a quelli europei. Discorsi xenofobi e razzisti sono emersi con forza, alimentati dai recenti cambiamenti nei flussi migratori, sia in termini di volume che di provenienza. La crescente visibilità di questi “nuovi immigrati” si è riflessa sui social, con un aumento di contenuti e reazioni marcatamente ostili.
Attenzione però, non si può ridurre tutto all’estrema destra. Gli esperti sottolineano che anche persone comuni, giovani e meno giovani, non necessariamente legate a partiti specifici, si dimostrano suscettibili a certi discorsi e contribuiscono a diffonderli, magari via WhatsApp (indicato come uno dei canali principali).
Inoltre, c’è stata una diversificazione tematica. Si parla sempre più di “micro-temi frantumanti” come le questioni di genere e razza (con ispirazione “woke”, notano alcuni), l’attivismo ambientale e climatico. La guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente hanno ulteriormente polarizzato l’ecosistema online “domestico”.
Minacce Esterne: Il Portogallo è nel Mirino?
Quando si parla di disinformazione esterna, ci si riferisce a campagne orchestrate da Stati stranieri o entità esterne per minare gli interessi portoghesi. La Russia è identificata come la fonte principale, spesso con l’obiettivo di colpire altri stati e allineandosi ai movimenti di estrema destra europei per seminare sfiducia nelle istituzioni nazionali ed europee, nella democrazia e nello stato di diritto.
Tuttavia, c’è un consenso quasi unanime: il Portogallo non è considerato un bersaglio primario per queste campagne. Certo, fa parte dell’UE e della NATO, quindi viene toccato indirettamente dalle campagne più ampie (pensiamo a Brexit, alle elezioni europee, alla guerra in Ucraina). Ma le sue dimensioni ridotte, l’elettorato contenuto (circa 9.3 milioni), un sistema politico storicamente unificato (a differenza della Spagna, ad esempio) e la minore rilevanza strategica rispetto a giganti come Francia o Germania lo rendono meno appetibile.
Un esperto fa notare anche il ruolo degli “universi linguistici”. Sebbene il portoghese sia parlato in Brasile e in diversi paesi africani (dove la disinformazione russa e cinese è in aumento), gli interessi geopolitici ed economici di Mosca e Pechino in quelle aree sono diversi da quelli che riguardano il Portogallo. Questo “disallineamento” riduce ulteriormente l’interesse a prenderlo di mira specificamente.
Detto ciò, in senso lato, nessun paese NATO è davvero “periferico”, come dice un intervistato. Quindi, la guardia resta alta.
Punti Deboli e Punti di Forza: Le Vulnerabilità Portoghesi
Quali sono i fattori che rendono il Portogallo più o meno vulnerabile alla disinformazione? Gli esperti ne identificano diversi, un mix di elementi socio-demografici, culturali e legati al mondo dei media.
- Invecchiamento e Asimmetrie: Il Portogallo è un paese piccolo, con una popolazione che invecchia e forti disparità tra costa e interno. L’invecchiamento è un’arma a doppio taglio: da un lato, si associa a livelli di istruzione mediamente più bassi e quindi a minore alfabetizzazione digitale e mediatica (fattore di rischio). Dall’altro, si lega a una dieta mediatica più tradizionale, fedele ai media mainstream e scettica verso le novità (fattore protettivo).
- Rapporto con i Media: Gli portoghesi mostrano una fiducia relativamente alta nei media tradizionali (specialmente la TV, ancora fonte principale di notizie per molti) rispetto ai social media. Questo potrebbe renderli meno permeabili. Durante il COVID, ad esempio, nonostante la circolazione di fake news, la fiducia nelle autorità sanitarie è stata alta e la vaccinazione di massa ha avuto successo. Però, attenzione: questa fiducia si scontra con livelli storicamente bassi di consumo di notizie e lettura in generale, eredità forse della lunga dittatura (finita nel 1974) e del conseguente ritardo educativo.
- Crisi del Giornalismo: Questo è un punto dolente, comune a molti paesi ma sentito in modo acuto in Portogallo. La transizione al digitale è stata lenta e segnata dall’errore iniziale di offrire contenuti online gratuiti, svalutando l’informazione di qualità. Il crollo del modello di business tradizionale (via la pubblicità verso i social) ha portato a una grande precarietà nel settore: stipendi bassi (si parla di una media di 913€!), contratti instabili, redazioni “ringiovanite” con neolaureati privi del supporto di colleghi esperti, più vulnerabili alle pressioni. Questa crisi, secondo alcuni, ha reso i media più dipendenti da poteri economici e politici, favorendo logiche di “clickbait” a scapito di verifica, contesto ed etica.
Nonostante queste vulnerabilità, ci sono anche fattori di resilienza: la già citata fiducia nei media tradizionali, l’unità politica storica e una polarizzazione politica (finora) relativamente bassa, anche se in crescita.
Regolamentare la Disinformazione: Mission Impossible?
E veniamo alla regolamentazione. Come viene percepita dagli esperti? Emergono due assi principali:
1. Il Ruolo Guida dell’UE: C’è un ampio consenso sul fatto che l’UE debba guidare la lotta alla disinformazione. La natura globale e complessa del problema richiede un approccio unificato e coerente, specialmente contro le campagne transfrontaliere sponsorizzate da stati terzi. L’UE ha più risorse (finanziarie, tecniche, umane) e più peso politico per negoziare con le grandi piattaforme digitali (spesso extra-UE) e stabilire standard efficaci nel rispetto dei valori democratici. Gli esperti riconoscono i pilastri dell’azione UE: il Piano d’Azione contro la Disinformazione, i Codici di Buona Condotta (volontari prima, poi rafforzati), fino al recente Digital Services Act (DSA). L’obiettivo è sempre stato duplice: regolare le piattaforme (trasparenza, moderazione dei contenuti) e rafforzare la società (fact-checking, media literacy).
2. La Tensione tra Efficacia e Diritti Fondamentali: Qui le cose si complicano. La disinformazione può minare la libertà di espressione, ma anche le misure per combatterla rischiano di limitarla. Questo diritto è tutelato dalle leggi europee (Carta dei Diritti Fondamentali, CEDU) e non è assoluto, ma le restrizioni sono ammesse solo per motivi specifici (sicurezza nazionale, salute pubblica, ecc.) e devono essere necessarie e proporzionate. Censurare qualcosa solo perché è falso o fuorviante è considerato inaccettabile in democrazia.
Questa tensione spiega perché molti esperti sono cauti, a volte scettici, verso controlli legali troppo stringenti e perché appoggiano la strategia UE di coinvolgere le piattaforme nella moderazione dei contenuti. È un modo per affrontare il problema senza ricorrere alla censura diretta da parte degli Stati.
Una “linea rossa” fondamentale nel discorso degli esperti è la distinzione tra contenuto illegale e disinformazione non illegale. Se un contenuto è illegale (diffamazione, incitamento all’odio, negazionismo, ecc.), la necessità di reprimerlo è chiara e spetta agli Stati applicare le loro leggi. Ma la stragrande maggioranza della disinformazione politica o sociale non è illegale di per sé. “Mentire nello spazio pubblico non è illegale”, fa notare un esperto, “altrimenti dovremmo perseguire molti politici!”.
Il Digital Services Act (DSA): Passo Avanti o Confusione?
Il passaggio dal Codice di Buona Condotta (prima volontario, poi rafforzato) al DSA, che integra la disinformazione in un quadro giuridico vincolante pensato principalmente per i contenuti illegali, segna un cambiamento significativo.
Da un lato, il DSA è visto come un passo importante per una maggiore efficacia, imponendo obblighi e sanzioni alle piattaforme (specialmente quelle molto grandi, le VLOPs) che non rispettano le regole sulla gestione dei rischi sistemici (tra cui la disinformazione).
Dall’altro, però, ha suscitato critiche e riserve:
- Ambiguità: Alcuni temono che il DSA sfumi la distinzione cruciale tra disinformazione (spesso legale) e contenuto illegale, trattando la prima all’interno di concetti ampi come “rischio sistemico” o “risposta alle crisi”. Questo potrebbe portare le piattaforme a rimuovere contenuti in modo eccessivo per paura di sanzioni (over-removal).
- Mancanza di Chiarezza: Non è chiarissimo come il DSA si coordini con il Codice di Buona Condotta Rafforzato.
- Frammentazione: Il coinvolgimento diretto degli Stati nazionali nell’applicazione del DSA solleva preoccupazioni sulla coerenza dell’agenda europea, dato che alcuni Stati potrebbero avere tendenze a limitare la libertà di informazione.
“La disinformazione non è una questione di servizi digitali, ma di sovranità, di politica pura, che riguarda il cuore del nostro sistema politico”, afferma un partecipante, esprimendo un certo scetticismo sull’approccio del DSA.
Le Sfide Aperte: Piattaforme, Profitto e Prevenzione
Nonostante i progressi, tutti concordano che la disinformazione resta un problema persistente e la sua regolamentazione piena di dilemmi. C’è scetticismo sulla reale compatibilità tra i modelli di business delle piattaforme (basati su attenzione, click, pubblicità) e le misure richieste (trasparenza sui finanziamenti politici, demonetizzazione della disinformazione). “L’algoritmo è programmato per il profitto”, dice un esperto, “e la disinformazione spesso genera più engagement, quindi più profitto. È una questione di logica finanziaria”.
Inoltre, c’è il rischio di fare eccessivo affidamento sulle piattaforme private. Chi controlla i controllori? Le piattaforme non sono neutrali e i loro interessi potrebbero confliggere con l’interesse pubblico. Serve una supervisione rigorosa.
E il Portogallo? Un’Agenda Nazionale Latitante
A livello nazionale, gli esperti lamentano la mancanza di un’agenda politica coerente per combattere la disinformazione in Portogallo. Mancano:
- Un Piano d’Azione Nazionale (ci si coordina con quello UE, ma non c’è una strategia specifica).
- Una definizione legale di disinformazione (un tentativo nel 2021 è fallito per incostituzionalità, sollevando timori per la libertà d’espressione).
- Un aggiornamento della Legge sulla Stampa, inadeguata all’era digitale. Non è chiaro come regolare i contenuti online, specialmente quelli prodotti da entità che si spacciano per testate giornalistiche senza esserlo.
- La nomina del coordinatore nazionale per il DSA è arrivata in ritardo, simbolo di una scarsa priorità data al tema.
L’Autorità Regolatoria per i Media (ERC) ha un ruolo, ma poteri e risorse limitati nel contesto digitale. Serve un quadro normativo che chiarisca le competenze e distingua il giornalismo da altro.
La Via Maestra: Prevenzione ed Educazione
Date le difficoltà della regolamentazione legale e i rischi per i diritti fondamentali, non sorprende che gli esperti portoghesi puntino forte su misure preventive ed educative. “L’approccio essenziale è agire a monte”, dice uno di loro, “investendo massicciamente nella media literacy nelle scuole e nella società in generale”. Bisogna aiutare le persone a capire l’ecosistema online, a riconoscere fonti credibili e a distinguere i contenuti affidabili da quelli spazzatura.
Vengono apprezzati gli sforzi nazionali in linea con l’UE (programmi di alfabetizzazione mediatica, centri di ricerca come OberCOM e MediaLab, collaborazioni internazionali come IBERIFIER).
Un’altra preoccupazione chiave, come già detto, è la crisi strutturale del giornalismo. È fondamentale migliorare le condizioni di lavoro e sostenere i valori giornalistici. Molti ritengono inevitabile esplorare forme di sostegno finanziario pubblico per garantire il pluralismo, superando i tabù e aprendo un dibattito serio, magari guardando alla futura Legge Europea sulla Libertà dei Media.
In Conclusione: Un Problema Complesso, Una Sfida Continua
Questo studio ci offre uno spaccato prezioso sulla situazione portoghese. La disinformazione interna è meno “evoluta” che altrove ma in crescita, trainata dal populismo e ora allineata ai temi europei. Il paese non è un bersaglio primario esterno, ma è esposto indirettamente. Ha punti di forza (fiducia nei media tradizionali, unità politica) ma anche debolezze (crisi del giornalismo, bassa alfabetizzazione mediatica in alcune fasce).
La regolamentazione è un campo minato, in bilico tra la necessità di agire e la protezione delle libertà fondamentali. L’approccio UE è visto come necessario ma non privo di criticità, specialmente con il DSA. A livello nazionale, manca una strategia chiara.
La strada indicata dagli esperti è quella della prevenzione, dell’educazione e del sostegno a un giornalismo forte e indipendente. La disinformazione è un fenomeno complesso e probabilmente destinato a restare. Affrontarlo richiede un approccio multidimensionale, costante monitoraggio e un dibattito pubblico informato. Un lavoro lungo, ma essenziale per la salute delle nostre democrazie.
Fonte: Springer