Senzatetto: Quelle Voci Che il Sistema Non Vuole Sentire
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di un tema che mi sta molto a cuore, qualcosa che spesso vediamo ma su cui raramente ci soffermiamo a riflettere davvero: come parliamo dei senzatetto. Sì, avete capito bene, non tanto della condizione in sé – che è indiscutibilmente una brutta bestia legata a disuguaglianze sociali, privazioni ed esclusioni – ma del discorso che costruiamo attorno a queste persone. Vi siete mai chiesti chi definisce la “realtà” dei senzatetto? E come queste definizioni influenzano poi l’aiuto che (non) ricevono?
Le Etichette del Passato (e del Presente?)
Guardando indietro, storicamente, le persone senza dimora non sono mai state semplicemente definite dalla mancanza di un tetto. Anzi! Sono state incasellate in figure sociali ben precise, spesso cariche di stigma: mendicanti, vagabondi, il famoso “lumpenproletariat” di Marx ed Engels, poi “inferiori” da una prospettiva biologistico-psichiatrica, “asociali” durante il nazismo, e fino agli anni ’80 i “Nichtsesshafte” (non-stanziali), termine che evocava una presunta e patologica “pulsione al vagabondaggio”.
Cosa accomuna tutte queste etichette? Due cose, fondamentalmente:
- Segnano un confine netto tra i “normali” e i “devianti”, i “meritevoli” e gli “immeritevoli”, insomma, tra chi è povero “senza colpa” e chi “per colpa propria”.
- Individualizzano il problema: la colpa della condizione di senzatetto viene attribuita all’individuo, alle sue disposizioni, ai suoi errori. Questo, ovviamente, finisce per legittimare non solo la loro condizione, ma anche misure repressive e disciplinari, persino all’interno dei sistemi di aiuto.
Negli anni ’90, l’abbandono del termine “Nichtsesshafte” e l’adozione di “Wohnungslose” (senzatetto) è stato visto come un cambio di paradigma, un allontanamento da queste visioni patologizzanti. Ma siamo sicuri sia andata proprio così?
Un Cambiamento Apparente? L’Ombra della “Incapacità Abitativa”
Mentre ci si allontanava dal concetto di “non-stanziale”, emergeva un’altra figura, più subdola: quella del senzatetto (maschio) affetto da “Wohnunfähigkeit“, ovvero “incapacità abitativa”. Un concetto che, sebbene oggi sia considerato problematico nel discorso specialistico ufficiale, sembra persistere sotto traccia, nel gergo degli operatori sociali e nelle strutture del sistema di aiuto. È come se fosse il fantasma del vecchio “Nichtsesshafte”, che si rifiuta di sparire. Studi empirici lo confermano, ma stranamente, queste ricerche faticano a entrare nel dibattito principale. E questo ci porta a chiederci: come funziona davvero questo discorso? Quale “sapere” viene accettato e quale ignorato?
Chi Parla Davvero? Il Divario tra Ricerca e Pratica
Se diamo un’occhiata al dibattito attuale, notiamo una cosa curiosa. Nonostante si lamenti spesso la scarsità di ricerche sulla homelessness (anche se negli ultimi vent’anni sono aumentate, spesso grazie a tesi di dottorato di operatori sociali), queste ricerche – soprattutto quelle qualitative, che danno voce alle prospettive dei diretti interessati, alle loro strategie di sopravvivenza – trovano pochissimo spazio nelle pubblicazioni che contano davvero nel settore.
Quali sono allora i testi di riferimento? Principalmente pubblicazioni che arrivano dalla pratica stessa: manuali, articoli su riviste di settore come “wohnungslos” (la rivista della BAG W, l’associazione federale tedesca per l’aiuto ai senzatetto), scritti in gran parte da operatori. E quando si citano studi scientifici, si prediligono quasi esclusivamente quelli quantitativi. Perché? Spesso per dare un supporto “numerico” (prevalenza di malattie psichiche, numero di senzatetto, ecc.) alle proprie descrizioni e interpretazioni dei problemi, ignorando di fatto le analisi qualitative che potrebbero offrire una visione diversa, più sfumata.
Anche la ricerca accademica, a sua volta, tende a orientarsi su questo “discorso della pratica”, mancando spesso di sviluppare ricerche di base autonome. Il rischio? Prendere per “fatti oggettivi” quelle che sono in realtà esperienze e interpretazioni filtrate dalla prospettiva (legittima, ma parziale) degli operatori sociali.

La Trappola della Patologizzazione: Malattia Mentale e Dipendenze
All’interno di questo discorso dominato dalla pratica, quali spiegazioni prevalgono? Accanto a quelle strutturali (povertà, mancanza di alloggi), c’è una forte tendenza a individualizzare. Si parla di utenti “poco collaborativi”, “demotivati”, “non autonomi”, a cui si nega persino la capacità di lavorare o abitare.
Ma la tendenza più forte, che sembra aver sostituito l'”incapacità abitativa”, è quella di descrivere i senzatetto come persone affette da malattie psichiche e/o dipendenze. Si parla di “multi-problematicità”, di “Systemsprenger” (persone che mandano in tilt il sistema). L’origine e la persistenza della homelessness, così come le difficoltà nella collaborazione con i servizi, vengono spiegate attraverso una presunta altissima prevalenza di disturbi psichici e dipendenze.
Questa narrazione è attraente perché usa un linguaggio pseudo-scientifico e sembra supportata da studi medici. Si citano spesso ricerche che mostrerebbero tassi altissimi di disturbi psichici e dipendenze tra i senzatetto, come il famoso studio SEEWOLF. Questo studio, ad esempio, riporta che il 93,3% dei senzatetto intervistati avrebbe avuto un disturbo psichico almeno una volta nella vita. Impressionante, vero?
Peccato che, nella fretta di confermare ciò che nella pratica “non desta dubbi”, ci si dimentichi di leggere questi dati con spirito critico:
- Spesso non si distingue tra prevalenza nell’arco della vita (altissima per definizione) e prevalenza attuale (molto più bassa).
- Non si considera cosa viene etichettato come “disturbo psichico”: gran parte riguarda il consumo di sostanze (soprattutto alcol e cannabis) etichettato come “dipendenza”, seguito da disturbi affettivi (come episodi depressivi) e disturbi d’ansia o reazioni a stress acuto.
- La rappresentatività dello studio è dubbia: è stato condotto in strutture di accoglienza, metà delle quali specifiche per persone con problemi psichici! Ovvio che si trovino tassi alti in quel campione. Chi non usa i servizi non viene conteggiato.
- Si ignora che etichettare un consumo come “dipendenza” o un vissuto come “malattia psichica” non è un atto neutro, ma una costruzione sociale, legata a norme e giudizi. Siamo sicuri che certi comportamenti o stati d’animo non siano piuttosto reazioni comprensibili a una vita estremamente dura e precaria, invece che malattie intrinseche?
Pensiamoci: vivere per strada, subire umiliazioni anche nell’accedere ai servizi, non è forse psicologicamente devastante? E il consumo di sostanze non potrebbe essere, a volte, una strategia di coping o persino un modo per affermare un minimo di autonomia in un sistema percepito come controllante?
Perché Ignorare le Voci? Le Ragioni Nascoste
Non sto negando che tra i senzatetto ci siano persone che soffrono di disturbi psichici o dipendenze. Sarebbe cinico ignorare il peso psicologico della homelessness. Il punto è un altro: l’assunto che la maggioranza dei senzatetto sia “malata” o “dipendente” e che questa sia la causa principale della loro condizione è una semplificazione pericolosa e stigmatizzante.
Studi come quelli sull’Housing First dimostrano il contrario: persone etichettate come “difficili” o “multi-problematiche”, una volta ottenuto un alloggio stabile, non solo riescono a mantenerlo, ma possono anche affrontare meglio i loro problemi e migliorare la loro vita. Sembra quasi che sia la mancanza di casa a esacerbare i problemi, non viceversa!
Allora, perché queste prospettive alternative, ben note nelle scienze sociali, e le ricerche qualitative che danno voce ai diretti interessati vengono sistematicamente ignorate nel discorso della pratica? Una spiegazione convincente è che queste narrazioni individualizzanti e patologizzanti abbiano una funzione di “sollievo” per gli operatori sociali. Di fronte a limiti strutturali enormi (mancanza di case, discriminazione sul mercato immobiliare) su cui hanno poco potere, attribuire il “fallimento” dell’intervento alle caratteristiche individuali dell’utente (“non collabora”, “è malato”) permette di gestire la frustrazione e legittimare il proprio ruolo.
Inoltre, non dimentichiamo gli interessi istituzionali. Molte organizzazioni che gestiscono i servizi hanno interesse a mantenere lo status quo, a giustificare l’esistenza e l’espansione delle proprie strutture (spesso residenziali), e la narrazione della “multi-problematicità” serve anche a questo scopo.
Verso un Ascolto Autentico
Se vogliamo capire davvero la homelessness e sviluppare aiuti più efficaci ed equi, dobbiamo fare uno sforzo. La ricerca sociale ha il compito non solo di analizzare le strutture, ma anche di dare voce alle prospettive degli utenti, spesso messe a tacere. Dobbiamo riconoscere le descrizioni degli operatori per quello che sono – prospettive importanti ma parziali, influenzate dal loro ruolo e dalle difficoltà quotidiane – e metterle a confronto con quelle di chi vive la homelessness sulla propria pelle.
La vera sfida, forse, è capire come la scienza del lavoro sociale possa non solo produrre conoscenza critica, ma anche riuscire a “raggiungere” e influenzare davvero la pratica, superando quelle resistenze che sembrano così radicate. Perché solo ascoltando tutte le voci, soprattutto quelle più deboli, potremo sperare di uscire dal labirinto delle etichette e costruire percorsi di aiuto realmente emancipatori.
Fonte: Springer
