Foto grandangolare, obiettivo 24mm, di un gruppo eterogeneo di figure in silhouette che puntano il dito verso una singola figura isolata sotto un riflettore in una grande sala vuota, illuminazione drammatica, messa a fuoco nitida.

Abbiamo Davvero il Diritto di Punirci a Vicenda? La Giustizia Sociale Fai-da-Te Sotto la Lente

Quante volte ci siamo imbattuti in storie di gogna mediatica online? O abbiamo sentito parlare di “cancel culture”? Situazioni in cui una persona fa qualcosa che viene percepito come sbagliato – magari un commento infelice, un comportamento considerato offensivo – e improvvisamente si ritrova sommersa da critiche feroci, viene isolata, a volte perde persino il lavoro o amicizie importanti. Ecco, questa è quella che potremmo chiamare punizione sociale: una sanzione inflitta non da un tribunale o da un’autorità ufficiale, ma dalla gente comune, dall'”opinione pubblica”, da noi.

Parliamoci chiaro, queste forme di punizione possono fare davvero male. Non si tratta solo di una critica costruttiva. Spesso parliamo di umiliazione profonda, quella che ti lascia cicatrici psicologiche, che può portare a depressione, ansia acuta, persino pensieri terribili. Pensiamo all’isolamento sociale: essere esclusi dal proprio gruppo, sentirsi soli contro tutti. Fa male, fisicamente e mentalmente. E poi c’è la perdita di reti sociali fondamentali, come amicizie o contatti professionali. Insomma, non è uno scherzo.

La forma più chiacchierata ultimamente è proprio la gogna pubblica online. Ne parlano filosofi, giornalisti, ne parliamo noi al bar o sui social. È stata usata per denunciare molestie sessuali, comportamenti razzisti, violazioni di norme sanitarie (ricordate le polemiche sulle mascherine?). Ma la domanda che mi ronza in testa è: cosa ci dà il diritto di farlo? Cosa giustifica il fatto che noi, come singoli individui o come folla online, possiamo infliggere un danno così pesante a qualcun altro?

Perché lo Facciamo? La Difesa delle Norme Sociali

Una risposta che va per la maggiore è quella che potremmo chiamare la “Visione del Rinforzo delle Norme”. In pratica, l’idea è che la punizione sociale sia giustificata perché serve a far rispettare regole importanti per la nostra convivenza. Pensiamo alle norme contro il razzismo o il sessismo. Quando critichiamo pubblicamente qualcuno che si comporta male, stiamo dicendo: “Ehi, questa cosa non si fa!”.

Questa visione sottolinea diverse funzioni utili della punizione sociale:

  • Deterrenza: Vedere qualcuno punito può scoraggiare altri dal fare lo stesso.
  • Espressione: È un modo per la comunità di riaffermare i propri valori e dire “noi crediamo in questo”.
  • Comunicazione: È un messaggio diretto a chi ha sbagliato, una pressione morale per fargli capire l’errore e, magari, cambiare atteggiamento.

E devo dire che ha senso. È importante difendere certi valori. Molti filosofi concordano sul fatto che far rispettare le norme sia uno scopo valido. Però, c’è un “ma”. Anzi, più di uno.

Molti si preoccupano che queste punizioni, specialmente la gogna online, diventino sproporzionate. Un errore magari piccolo viene amplificato a dismisura, con conseguenze devastanti e incontrollabili. È difficile dosare la “pena” quando a partecipare sono migliaia di persone sconosciute tra loro. Ma io voglio concentrarmi su un altro problema, forse ancora più fondamentale.

Ritratto fotografico ravvicinato di una persona angosciata, illuminata solo dalla luce di uno smartphone in una stanza buia, obiettivo 35mm, profondità di campo, duotono blu e grigio.

Ma Chi ci Dà il Permesso? Il Nodo dell’Autorità

Anche ammesso che far rispettare una norma sia un obiettivo lodevole, questo spiega *perché* vogliamo punire, ma non spiega *perché noi*, come privati cittadini, abbiamo il diritto di infliggere un danno serio a qualcun altro. Pensateci: se vedo qualcuno rubare, normalmente non mi metto a picchiarlo per “punirlo” (a meno che non sia per fermarlo nell’immediato, cioè per autodifesa). Di solito, pensiamo che sia compito dello Stato, della polizia, dei tribunali, gestire queste cose.

Se io ho il diritto a non subire certi danni (come l’umiliazione pubblica, l’isolamento forzato), il fatto che ci sia un buon motivo per infliggermeli (tipo, far rispettare una norma) non basta. Serve anche spiegare perché proprio tu hai il permesso di farlo e perché io ho perso il mio diritto a non essere danneggiato in quel modo (cioè, sono diventato “passibile” di punizione).

Prendiamo l’esempio del pugilato: se salgo sul ring con te, accetto il rischio di essere preso a pugni *da te*. Ma se uno spettatore a caso salta sul ring e mi colpisce, quello non è giustificato. Il mio “consenso” era specifico. Allo stesso modo, anche se qualcuno ha fatto qualcosa di sbagliato, perché un passante qualsiasi o un’orda anonima online dovrebbe avere il diritto di distruggergli la vita?

Questo è quello che chiamo la sfida dell’autorità: dobbiamo spiegare come dei semplici individui acquisiscano l’autorità morale di imporre punizioni sociali severe, specialmente quelle che ledono interessi fondamentali come la salute mentale, la reputazione, le relazioni sociali.

“Se l’è Meritato!” – La Perdita dei Diritti

Una risposta intuitiva è: “Chi sbaglia perde il diritto a non essere danneggiato”. Suona bene, no? In parte è vero, ma non risolve il problema dell’autorità. Il fatto che io perda un diritto non significa automaticamente che *chiunque* possa calpestarlo.

Pensiamo all’autodifesa: se qualcuno mi attacca ingiustamente, perde il suo diritto a non essere colpito, ma lo perde *rispetto a me* (o a chi mi difende) e solo nella misura necessaria a fermare l’attacco. Un terzo non coinvolto non può intervenire a caso per “punire” l’aggressore dopo che il pericolo è passato. Quindi, la “perdita dei diritti” da sola non basta a giustificare che chiunque possa ergersi a giudice e giustiziere.

“Sapeva a Cosa Andava Incontro” – La Rinuncia ai Diritti

Un’altra idea è che le persone, intraprendendo certe attività, “rinuncino” implicitamente al loro diritto a non essere criticate o punite socialmente. Un artista che pubblica un’opera sa che verrà criticato. Un politico che si candida pure. Un’azienda che vende un prodotto accetta le recensioni.

Questo può valere per la critica, ma regge per la gogna online devastante? Se faccio un commento infelice in privato con amici, e vengo registrato a mia insaputa e sbattuto sui social, ho davvero “rinunciato” al mio diritto a non essere umiliato pubblicamente e magari licenziato? Sembra strano. Soprattutto, ci sono diritti fondamentali – come quello alla salute mentale, a non essere isolati socialmente – che difficilmente si può pensare di “rinunciare” involontariamente, solo perché si è commesso un errore. Non è come accettare le regole di un gioco.

Still life astratto, obiettivo macro 90mm, con pezzi frammentati di una statua classica rappresentante la giustizia (come bilance o benda) sparsi su una superficie scura, alto dettaglio, messa a fuoco precisa, illuminazione drammatica controllata.

“È Così che Funzionano le Regole!” – Norme e Autorità

Alcuni filosofi suggeriscono che ci sia un legame concettuale tra l’esistenza di una norma (specialmente morale) e il diritto di farla rispettare. L’idea è che una norma sociale o morale dia intrinsecamente a tutti i membri della comunità lo “status” per agire in suo nome. Si parla di “autorità rappresentativa” o del legame tra norme e “atteggiamenti reattivi negativi” (come il biasimo, il risentimento).

È plausibile che abbiamo il diritto di esprimere disapprovazione, di biasimare chi sbaglia. Fa parte del considerarci reciprocamente responsabili moralmente. Ma c’è un salto logico enorme tra l’esprimere biasimo (magari anche in privato) e l’infliggere danni gravissimi come l’umiliazione pubblica di massa o l’ostracismo. Il fatto che io possa “rimproverarti” moralmente non implica automaticamente che io possa scatenarti contro l’inferno mediatico. Serve qualcosa di più per giustificare le forme *più dannose* di punizione sociale inflitte da privati cittadini.

Una Pista Interessante: La Punizione come Autodifesa?

Allora siamo a un punto morto? Forse no. Una strada che mi sembra promettente, e che alcuni filosofi stanno esplorando, è quella di collegare il diritto di punire socialmente al diritto fondamentale all’autodifesa.

L’idea di base è: tutti abbiamo il diritto di difendere noi stessi e gli altri da minacce ingiuste. Se la violazione di norme importanti (come quelle contro l’odio, la discriminazione, le molestie) rappresenta una minaccia per noi o per la nostra comunità (magari minando la fiducia, la sicurezza, la dignità), allora forse la punizione sociale, in certi casi, potrebbe essere vista come una forma di difesa collettiva necessaria e proporzionata.

Potrebbe essere una difesa dei nostri interessi vitali, o forse anche una sorta di “autodifesa morale”, per proteggere il nostro status e la nostra dignità all’interno della società. Certo, è un’idea che va sviluppata e analizzata con attenzione, per capire se e quando regge, e quali limiti dovrebbe avere. Ma apre uno spiraglio interessante per completare quel pezzo mancante nel puzzle della giustificazione: l’autorità dei singoli individui.

Insomma, la questione è complessa. Non c’è una risposta facile. Da un lato, sentiamo il bisogno di reagire alle ingiustizie e di difendere i valori in cui crediamo. Dall’altro, dobbiamo fare i conti con il potenziale distruttivo della punizione sociale “fai-da-te” e chiederci seriamente se, e a quali condizioni, abbiamo davvero il diritto di infliggerla. È una riflessione cruciale per capire come stare insieme in modo giusto nell’era digitale.

Fonte: Springer

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