Asia Centrale: Clima, Soldi e Potere – Chi Vincerà la Partita tra UE e Cina?
Amici, parliamoci chiaro: quando si tratta di politica climatica internazionale, la faccenda è molto più intricata di un semplice “salviamo il pianeta”. Ci sono di mezzo interessi economici colossali, equilibri di potere che si spostano e, soprattutto, persone reali le cui vite vengono toccate, nel bene e nel male. Oggi voglio portarvi con me in un viaggio nel cuore dell’Asia Centrale, precisamente in Kazakistan e Uzbekistan, per capire come due giganti, l’Unione Europea e la Cina, stanno giocando le loro carte climatiche e, soprattutto, chi ne paga le conseguenze o ne raccoglie i frutti.
Il Green Deal Europeo e le Sue Ripercussioni Lontano da Bruxelles
L’Unione Europea, con il suo ambizioso European Green Deal (EGD), punta a diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Nobile, no? Ma come ogni grande piano, ha delle “clausole scritte in piccolo” che toccano anche i suoi partner commerciali. Una di queste è il famoso CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), una sorta di tassa sul carbonio applicata ai prodotti importati da paesi con standard ambientali meno stringenti. L’idea è evitare che le nostre aziende, più virtuose, siano svantaggiate e, al contempo, spingere gli altri paesi a decarbonizzare. Bello in teoria.
Però, mettiamoci nei panni di Kazakistan e Uzbekistan. Le loro economie sono tra le più energivore e ad alta intensità di carbonio al mondo. Il carbone la fa ancora da padrone, e gli investimenti nelle rinnovabili, seppur presenti, non riescono a tenere il passo con quelli nel petrolio e nel gas. Il Kazakistan, in particolare, con le sue esportazioni massicce di materie prime ad alta intensità di carbonio verso l’UE, rischia di prendere una bella batosta dal CBAM. L’Uzbekistan, che esporta anche beni a minor contenuto di carbonio, potrebbe cavarsela un po’ meglio, ma il colpo si sentirà comunque.
Il punto cruciale, quello che spesso sfugge ai grandi strateghi, è l’impatto sulla gente comune. Queste politiche, se non gestite con estrema cura, possono avere effetti regressivi. Immaginate: le aziende locali, per far fronte ai costi del CBAM, potrebbero scaricare l’aumento dei prezzi sui consumatori finali, proprio quelli che già faticano ad arrivare a fine mese. E non dimentichiamo le comunità che vivono grazie all’industria del carbone o di altri settori “sporchi”. Cosa ne sarà di loro? Le proteste del gennaio 2022 in Kazakistan per l’aumento dei prezzi del carburante sono un campanello d’allarme che non possiamo ignorare: le transizioni “verdi” percepite come ingiuste possono scatenare reazioni violente.
L’UE, certo, offre aiuti, tecnologie, know-how. Ma la percezione sul campo, almeno stando a quanto emerge da interviste e analisi, è che questi sforzi siano un po’ troppo “spalmati”, poco focalizzati sulle reali necessità delle fasce più vulnerabili e, diciamocelo, a volte impantanati nella burocrazia. Si parla di trasferire tecnologie pulite, ma si fa fatica a implementare progetti concreti “sul terreno” che aiutino, ad esempio, i minatori di carbone a riqualificarsi o le piccole comunità a far fronte all’aumento delle bollette energetiche.
La Strategia Cinese: Pragmatismo e Legami con le Élite Locali
E qui entra in gioco la Cina. Pechino, da parte sua, sta adottando un approccio che, a prima vista, sembra molto più pragmatico e, per certi versi, più in sintonia con le élite locali dell’Asia Centrale, spesso dipendenti dai combustibili fossili. La Cina non arriva con l’agenda normativa dell’UE, né con le sue condizionalità. Chiede ai leader locali di cosa hanno bisogno e agisce di conseguenza, spesso lavorando attraverso attori e istituzioni locali, adattandosi a norme e pratiche tradizionali.
Certo, anche la Cina investe massicciamente nelle rinnovabili in Asia Centrale. Progetti solari ed eolici spuntano come funghi, spesso realizzati rapidamente ed efficacemente, portando elettricità in aree rurali povere di energia. Pensate all’impianto fotovoltaico di Chulakkurgan in Kazakistan o ai parchi eolici nella regione di Zhambyl. Questi investimenti sono lodati perché aiutano a elettrificare regioni dimenticate, a sviluppare alternative economiche sostenibili per comunità dipendenti dal carbone e a offrire riqualificazione ai lavoratori locali.
Ma, e questo è il “ma” che fa la differenza, la Cina non chiede di abbandonare i combustibili fossili dall’oggi al domani. Anzi, continua a sostenere lo sviluppo del settore degli idrocarburi, stringendo legami orizzontali con le élite locali i cui interessi economici sono ancora saldamente ancorati a carbone, petrolio e gas. Questo approccio “bilanciato” – rinnovabili sì, ma senza demonizzare i fossili – piace molto ai governi dell’Asia Centrale. Si parla di una “transizione energetica giusta” che tenga conto delle realtà locali, che non lasci indietro nessuno e che, soprattutto, non destabilizzi l’esistente assetto di potere.
Prendiamo ad esempio gli investimenti cinesi in un impianto di lavorazione del tungsteno in Kazakistan (1000 posti di lavoro) o nello sviluppo di depositi di rame e argento in Uzbekistan (2000 posti di lavoro). Questi non sono solo minerali, sono trasformazione economica e, soprattutto, occupazione. La Cina sembra aver capito che, per far accettare la transizione verde, bisogna offrire compensazioni tangibili e immediate, soprattutto nelle aree più vulnerabili.
La “Transizione Giusta”: Un Concetto Conteso
Il concetto di “transizione giusta” è al centro del dibattito. Per l’UE, una transizione giusta dovrebbe approfondire il dialogo e la partecipazione con gli stakeholder esterni soggetti a disuguaglianze sociali e impatti distributivi derivanti dall’azione climatica dell’UE. Ma dal punto di vista dell’Asia Centrale, la percezione è diversa. L’approccio europeo, con il CBAM in testa, rischia di essere visto come un modo per scaricare i costi della transizione sui paesi partner, esacerbando le disuguaglianze.
La Cina, invece, sembra cavalcare meglio quest’onda. Offrendo alternative, riqualificazione, investimenti sia nel nuovo che nel vecchio (ma con un occhio a renderlo “più pulito”), si posiziona come un attore più attento alle tensioni sociali che la decarbonizzazione inevitabilmente genera. Questo non significa che la Cina sia un benefattore disinteressato, sia chiaro. Ha i suoi enormi bisogni energetici e le sue ambizioni geopolitiche. Ma la sua strategia sembra, al momento, più efficace nel placare le élite e, contemporaneamente, nel gestire alcuni dei conflitti distributivi più acuti.
È interessante notare come organizzazioni come la Shanghai Cooperation Organization (SCO) e i BRICS stiano diventando arene in cui si contesta l’agenda climatica occidentale. La dichiarazione di Samarcanda della SCO del 2022, ad esempio, invoca un regime “inclusivo e non discriminatorio basato su principi di azione climatica volontaria” e critica misure come il CBAM. Si sta formando un discorso alternativo, spesso sotto la bandiera della cooperazione Sud-Sud, che vede le politiche climatiche occidentali come una forma di “interventismo ingiusto” o addirittura di “colonialismo verde”.
Le Dinamiche Verticali e Orizzontali: Un Intreccio Complesso
Per capire a fondo la situazione, dobbiamo guardare sia alle relazioni “orizzontali” (quelle tra stati, come Kazakistan/Uzbekistan con UE/Cina) sia a quelle “verticali” (quelle all’interno dei singoli paesi, tra governo centrale, autorità locali e comunità). La Cina sembra più abile nel navigare queste acque complesse, soprattutto in contesti autoritari come quelli dell’Asia Centrale. La sua capacità di creare legami interpersonali flessibili ma stabili con i regimi ospitanti e le loro reti clientelari informali si è dimostrata più efficace nel cooperare con i governi locali a vari livelli.
Certo, non è tutto oro quello che luccica. Anche la presenza cinese può generare malcontento o timori (la cosiddetta “sinofobia”), e la partecipazione dei cittadini vulnerabili ai processi decisionali sugli investimenti esteri è ancora estremamente limitata. Tuttavia, le élite locali e cinesi sembrano trovare un terreno comune sul problema della “transizione giusta”, giustificando strategie di opposizione o ritardo nell’azione climatica.
Mentre l’UE è vista come un attore che, nonostante gli aiuti, impone un’agenda e non sempre riesce a tradurla in benefici concreti e diffusi sul territorio, la Cina si presenta come un partner che offre soluzioni rapide, finanzia progetti di elettrificazione in aree remote e aiuta nella riqualificazione dei lavoratori. Pensiamo al paradosso: paesi ricchi di idrocarburi come il Kazakistan hanno ancora villaggi senza acqua corrente o elettricità stabile. La Cina, con i suoi investimenti, sta colmando alcuni di questi vuoti, guadagnando “soft power”.
Cosa Può (e Deve) Fare l’Europa?
Quindi, qual è il mio punto di vista? Non è troppo tardi perché l’UE ricalibri la sua strategia. Invece di promuovere idee e principi “verdi” in modo un po’ astratto, offrendo principalmente trasferimento tecnologico, Bruxelles dovrebbe sviluppare partenariati più significativi con i singoli paesi, mirati al loro sviluppo socio-economico locale. Questo significa progetti concreti “sul campo” per creare industrie ad alta efficienza energetica, generare posti di lavoro e migliorare le competenze dei lavoratori espulsi dal settore fossile.
L’UE ha un’enorme esperienza in integrazione regionale, gestione delle risorse idriche, resilienza climatica. Potrebbe offrire molto più che semplici finanziamenti: potrebbe supportare la capacità degli attori sociali locali di auto-organizzarsi, utilizzare le conoscenze locali e le risorse disponibili. Si tratta di condividere le responsabilità con le comunità locali e aumentare la credibilità dell’UE come attore disposto ad aiutare i gruppi vulnerabili a resistere agli impatti del cambiamento climatico.
Se l’Europa non riuscirà a farlo, la reazione negativa dell’Asia Centrale agli effetti distributivi del Green Deal europeo è destinata a crescere, e con essa le accuse di “protezionismo verde” o, peggio, di “colonialismo climatico”. E attori come la Cina (e la Russia) saranno ben felici di sfruttare questo malcontento per i propri fini, mascherando magari le proprie agende sotto la bandiera di una cooperazione Sud-Sud più “equa”.
La partita è aperta, e la posta in gioco è altissima: non solo il futuro climatico, ma anche l’influenza geopolitica in una regione cruciale e, soprattutto, il benessere di milioni di persone. Staremo a vedere chi saprà giocare le sue carte con maggiore lungimiranza e sensibilità.
Fonte: Springer