Una mappa del mondo astratta con confini luminosi e incerti che si espandono e contraggono attorno a diverse aree, simboleggiando l'incertezza su chi includere nel cerchio della giustizia, fotografia concettuale, vista dall'alto, illuminazione drammatica, high detail.

Giustizia per chi? Il Dilemma che Nessuno Sa Risolvere

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio mentale piuttosto intricato, uno di quelli che ti lascia a grattarti la testa chiedendoti: “Ma allora, qual è la risposta giusta?”. Parliamo di giustizia. Bella parola, vero? Ma quando ci chiediamo a chi si applica questa giustizia, le cose si complicano terribilmente. Chi sono i “noi” che meritano protezione secondo le regole della nostra società, e chi sono gli “altri”, quelli che restano fuori dal recinto?

È una domanda che mi ronza in testa da un po’, perché tocca corde profonde su come ci relazioniamo con il mondo. Dovremmo estendere le nostre regole di giustizia, quelle che usiamo tra di noi, anche a chi non fa parte della nostra “tribù”, del nostro paese, o magari… nemmeno della nostra specie?

Le Grandi Teorie Universali: Belle Idee, Ma Funzionano?

Ci sono fondamentalmente due grandi modi con cui filosofi e pensatori hanno provato a rispondere, cercando principi universali, validi per tutti. Il primo è l’approccio che potremmo chiamare deontologico/contrattualista. Suona complicato, ma l’idea di base è che esistono dei principi morali, dei doveri (deontologia) o degli accordi impliciti (contrattualismo) che dovrebbero guidarci. Pensa a gente come Kant, o più recentemente, a figure ispirate da Rawls che parlano di diritti umani fondamentali, dignità, ecc. Se un principio morale dice che hai un dovere verso gli altri, questo dovere non dovrebbe fermarsi ai confini, giusto? Sembra logico.

Il problema, però, è che questo approccio, per quanto nobile, risulta un po’… carente. Va bene, abbiamo dei principi, ma su cosa si basano esattamente? Spesso, quando vai a scavare, scopri che la scelta di *quali* principi e *fino a dove* estenderli è un po’ arbitraria. Perché dovremmo limitarci agli esseri umani e non, che so, includere anche gli scimpanzé? O perché proprio tutti gli umani e non solo, diciamo, i membri della nostra nazione? Questo approccio fatica a darci un criterio solido e non arbitrario per tracciare la linea di confine.

Il secondo grande approccio è quello utilitarista. Qui l’idea è più “matematica”: dovremmo agire in modo da massimizzare il benessere totale, la felicità complessiva del maggior numero possibile di esseri. È il cosiddetto “Principio Totale”. Se estendere la nostra giustizia agli “esterni” (persone di altri paesi, generazioni future, persino animali capaci di soffrire, come sostiene Peter Singer) aumenta la somma totale di benessere nel mondo, allora dovremmo farlo. Questo approccio ha il vantaggio di darci un criterio apparentemente oggettivo: calcolare l’utilità totale.

Ma anche qui casca l’asino. Questo approccio è considerato non fattibile e, per alcuni, persino ripugnante. Perché? Immaginate di seguire alla lettera il Principio Totale. Dovremmo continuare ad allargare la nostra società (accogliendo più persone, facendo più figli) finché l’utilità *totale* continua a salire, anche se questo significa che l’utilità *media*, cioè il benessere di ciascun individuo, scende drasticamente, magari fino a un livello di vita appena accettabile. È quella che il filosofo Derek Parfit ha chiamato la “Conclusione Ripugnante”: un mondo sovrappopolato dove tutti vivono vite appena degne di essere vissute sarebbe “migliore” di un mondo meno popolato dove tutti stanno benissimo, solo perché la somma totale del benessere è maggiore. Vi convince? A me no. E, realisticamente, chi accetterebbe di peggiorare significativamente la propria vita o quella dei propri figli in nome di un astratto “benessere totale”?

Una bilancia della giustizia sbilanciata, con da un lato principi astratti luminosi (simbolo delle teorie universali) e dall'altro figure umane sfocate ai margini (gli esclusi), fotografia concettuale, prime lens 35mm, profondità di campo, bianco e nero cinematografico.

E Se Pensassimo un Po’ Più a Noi Stessi? Il Principio Medio

Visti i problemi di queste teorie universali, salta fuori un’altra idea, più pragmatica, forse più cinica: il Principio Medio. L’idea è semplice: noi, come membri di un gruppo, siamo disposti ad allargare i confini della nostra giustizia (ad esempio, accogliendo immigrati, investendo in aiuti internazionali, preoccupandoci delle generazioni future) solo se questo non peggiora il benessere medio del nostro gruppo attuale. Anzi, idealmente, dovremmo farlo solo se lo migliora. Si ragiona in termini di utilità attesa individuale: cosa ci guadagno io, in media, come membro di questo gruppo?

Questo approccio ha il pregio di essere fattibile (le persone ragionano spesso così, anche inconsciamente) e non carente (offre un criterio chiaro: l’interesse medio del gruppo). Ma ha un difetto enorme: è irrimediabilmente parrocchiale. Si basa sullo status quo, sul gruppo a cui *già* appartengo, senza chiedersi se quel confine iniziale sia giusto o meno. Non ha nessuna base morale universale. Anzi, può tranquillamente giustificare il più bieco egoismo di gruppo: potremmo decidere di ignorare completamente la sofferenza degli “esterni”, o persino di sfruttarli, se questo aumenta, anche di pochissimo, il nostro benessere medio.

Pensateci: se seguire il Principio Medio significa che una nazione ricca dovrebbe chiudere le porte a rifugiati che scappano da guerre o carestie perché accoglierli potrebbe abbassare leggermente il PIL pro capite, beh, capite che moralmente è una posizione difficile da difendere su un piano universale. Eppure, è un modo di ragionare molto diffuso.

Un gruppo di persone benestanti all'interno di un cerchio luminoso (simbolo del confine della società) che guarda con indifferenza o sospetto verso figure sfocate e bisognose all'esterno, fotografia sociale, zoom lens 50mm, luce calda interna contrastante con l'esterno buio e freddo, high detail.

Quindi, Siamo Bloccati in un Vicolo Cieco? Il Dilemma dell’Ambito della Giustizia

Ed eccoci arrivati al cuore del problema, quello che l’articolo originale chiama il Dilemma dell’Ambito della Giustizia. Sembra che siamo di fronte a una scelta impossibile:

  • Da un lato, abbiamo approcci universali (quello deontologico e quello utilitarista del Principio Totale) che cercano una base morale solida per tutti, ma uno è troppo vago e arbitrario sui confini (carente), l’altro porta a conclusioni impraticabili e forse ripugnanti (non fattibile).
  • Dall’altro lato, abbiamo un approccio pratico (il Principio Medio) che funziona nel senso che è fattibile e coerente dal punto di vista dell’interesse del gruppo, ma è totalmente parrocchiale, egoista, e privo di qualsiasi fondamento morale universale.

Sembra che non ci sia modo di avere tutto: una teoria sull’ambito della giustizia che sia allo stesso tempo universale, coerente (non carente) e fattibile. È come se dovessimo per forza rinunciare a qualcosa.

Ma la Gentilezza, l’Altruismo? Non Contano?

Qualcuno potrebbe dire: “Ma noi non siamo solo egoisti! Proviamo empatia, altruismo, vogliamo aiutare chi sta peggio!”. È vero. L’articolo, però, tiene volutamente separati questi sentimenti (che Hume chiamerebbe “virtù naturali”) dalla giustizia intesa come “virtù artificiale”, cioè come insieme di regole e obblighi basati sull’interesse reciproco o sull’utilità pubblica (come rispettare i contratti o la proprietà privata).

L’altruismo esiste, certo, e può spingerci a fare cose meravigliose per gli altri, anche per gli “esterni”. Ma è basato su sentimenti, che sono volubili e non possono costituire la base solida e affidabile per definire le regole formali e informali della giustizia di una società e, soprattutto, i suoi confini. Possiamo sperare nell’altruismo, ma non possiamo fondarci su di esso per risolvere questo dilemma teorico.

Un bivio complesso e nebbioso con segnali che indicano direzioni opposte: uno verso un ideale luminoso ma lontano ('Universale'), l'altro verso un sentiero più battuto ma chiuso ('Parrocchiale'), fotografia paesaggistica simbolica, wide-angle 24mm, nebbia, luce incerta dell'alba, sharp focus.

Insomma, la questione dell’ambito della giustizia ci lascia con un bel po’ di amaro in bocca. La teoria sembra dirci che non esiste una soluzione perfetta. O scegliamo ideali universali difficili da applicare e giustificare nei loro confini, o scegliamo un pragmatismo che funziona per il nostro gruppo ma che può sfociare nell’egoismo e nello sfruttamento.

Questo non significa che nella pratica non si possano trovare compromessi, magari attraverso istituzioni internazionali, accordi, o semplicemente grazie a quel briciolo di altruismo e senso di umanità condivisa. Ma a livello di principio, il dilemma resta. E forse, riconoscere questa difficoltà è già un primo passo per affrontare la questione con un po’ più di onestà intellettuale.

Voi che ne pensate? Istintivamente, quale approccio vi sembra più sensato, o meno sbagliato?

Fonte: Springer

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