Emozioni Sotto Scacco: Il Cervello di Chi Rischia la Psicosi Rivela le Sue Carte
Ciao a tutti! Oggi voglio parlarvi di qualcosa di veramente affascinante che tocca le corde più profonde del nostro essere: le emozioni e come il nostro cervello cerca, a volte faticosamente, di gestirle. In particolare, ci tufferemo in una ricerca recente che getta nuova luce su cosa succede nella testa delle persone considerate ad alto rischio clinico per la psicosi (CHR). Preparatevi, perché quello che hanno scoperto i ricercatori è davvero interessante e apre scenari importanti.
Quando le Emozioni Diventano un Fiume in Piena
Sappiamo tutti che le emozioni negative, come l’ansia o lo stress, fanno parte della vita. Ma per alcune persone, queste emozioni possono diventare particolarmente intense, quasi ingestibili. Studi passati ci hanno già detto che un’elevata reattività emotiva o allo stress gioca un ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento dei disturbi psicotici. Ma c’è di più. Sembra che non sia solo *quanto* intensamente si provano le emozioni, ma anche la capacità (o l’incapacità) di regolarle a fare la differenza.
Immaginate di avere un telecomando per le vostre emozioni. Quando arriva un’ondata di tristezza o rabbia, potete provare a “cambiare canale” o ad abbassare il volume. Ecco, le strategie di regolazione emotiva sono un po’ come quel telecomando. Alcune sono considerate più “adattive”, come la rivalutazione cognitiva (cercare di vedere la situazione da un’altra prospettiva, meno negativa), altre meno, come la soppressione (cercare di non far vedere o sentire l’emozione).
Ricerche precedenti, basate su questionari, avevano già suggerito che le persone a rischio di psicosi (CHR), un po’ come chi ha già una diagnosi di psicosi, tendono a usare meno le strategie buone (tipo la rivalutazione) e di più quelle meno utili (tipo la soppressione). E questo modo di gestire le emozioni è legato a sintomi più gravi e a un peggior funzionamento nella vita quotidiana. Capite bene che diventa cruciale capire meglio queste difficoltà per poter intervenire in modo mirato.
Guardare Dentro il Cervello: L’EEG e il Potenziale Tardivo Positivo (LPP)
I questionari ci danno un’idea, ma hanno i loro limiti. Come facciamo a sapere cosa succede *davvero* nel cervello quando una persona cerca di calmarsi? Qui entra in gioco la neuroscienza, e in particolare l’elettroencefalografia (EEG). L’EEG ci permette di registrare l’attività elettrica del cervello in tempo reale, un po’ come ascoltare la sua “musica”.
Uno specifico “brano” di questa musica che interessa ai ricercatori in questo campo è il Potenziale Tardivo Positivo (LPP). Non spaventatevi per il nome! Pensatelo come un’onda cerebrale che diventa più ampia quando siamo esposti a qualcosa di emotivamente forte, specialmente se negativo, e rimane “alta” per tutta la durata dello stimolo. È un indicatore neurofisiologico oggettivo di quanto il nostro cervello è coinvolto emotivamente e attenzionalmente. La cosa interessante è che, nelle persone sane, quando si cerca attivamente di ridurre un’emozione negativa (usando, ad esempio, la rivalutazione o la distrazione), l’ampiezza dell’LPP diminuisce. È come se il cervello riuscisse ad “abbassare il volume” emotivo. Ma cosa succede nelle persone a rischio di psicosi?
L’Esperimento: Emozioni, Immagini e Strategie a Confronto
I ricercatori hanno messo insieme un gruppo di persone a rischio di psicosi (CHR) e un gruppo di controllo (CN) di persone sane. Hanno fatto sedere tutti davanti a uno schermo e hanno mostrato loro delle immagini, alcune neutre, altre sgradevoli (prese da un database standardizzato, l’IAPS). Mentre guardavano queste immagini, ai partecipanti veniva chiesto di fare cose diverse:
- Guardare passivamente (Watch/View): Semplicemente osservare l’immagine (sgradevole o neutra) e lasciare che le emozioni fluissero liberamente.
- Rivalutare (Reappraise): Guardare l’immagine sgradevole e cercare di reinterpretarla in modo da sentirsi meno male (es. “è solo una foto”, “la situazione si risolverà”).
- Distrarsi (Distract): Guardare l’immagine sgradevole ma pensare attivamente a qualcos’altro di neutro, come un oggetto geometrico complesso o una scena tranquilla.
Durante tutto questo, l’EEG registrava l’attività cerebrale, e in particolare l’LPP. Dopo ogni immagine, i partecipanti dovevano anche indicare su una scala da 1 a 5 quanto si sentivano negativamente.
I Risultati: Una Sorpresa nel Cervello
Allora, cosa è venuto fuori? A livello soggettivo (cioè, quello che le persone dicevano di provare), entrambi i gruppi hanno riportato di sentirsi meno male quando usavano la rivalutazione o la distrazione rispetto a quando guardavano passivamente le immagini sgradevoli. C’era una piccola differenza: il gruppo CHR trovava la rivalutazione un po’ meno efficace rispetto al gruppo di controllo, ma nel complesso, a livello di sensazioni riportate, sembrava che riuscissero a regolare le emozioni.
Ma è qui che arriva il bello, o meglio, la parte che ci fa riflettere. Guardando l’LPP, la misura oggettiva dell’attività cerebrale, la storia cambiava drasticamente.
- Il gruppo di controllo (CN) ha mostrato quello che ci si aspettava: l’LPP era significativamente più basso durante la rivalutazione e la distrazione rispetto alla visione passiva delle immagini negative. Il loro cervello stava effettivamente “abbassando il volume”.
- Il gruppo a rischio di psicosi (CHR), invece, non mostrava alcuna differenza significativa nell’ampiezza dell’LPP tra la visione passiva, la rivalutazione e la distrazione. Era come se, nonostante i loro sforzi (e la sensazione soggettiva di starci riuscendo un po’), il loro cervello non riuscisse a implementare efficacemente queste strategie per calmare la risposta neurale all’emozione negativa.
Questa è quella che i ricercatori chiamano una “anomalia nell’implementazione”. È un po’ come premere il pulsante “volume giù” sul telecomando, ma il volume non scende.
Il Legame con i Sintomi e le Implicazioni Future
Non è finita qui. I ricercatori hanno anche scoperto che, nel gruppo CHR, una maggiore difficoltà nell’implementare la distrazione (cioè, una minore riduzione dell’LPP quando si cercava di distrarsi) era associata a una maggiore gravità dei sintomi positivi attenuati. Questi sono sintomi “simil-psicotici” ma più lievi, come pensieri insoliti o esperienze percettive strane, che caratterizzano lo stato di alto rischio. Questo collegamento è importantissimo, perché lega direttamente l’anomalia neurofisiologica nella regolazione emotiva a manifestazioni cliniche specifiche.
Cosa ci portiamo a casa da tutto questo? Beh, innanzitutto, questi risultati sono molto simili a quelli già trovati in persone con schizofrenia conclamata. Questo suggerisce che le difficoltà nella regolazione delle emozioni, a livello cerebrale, potrebbero essere una caratteristica presente già nelle fasi precoci, prima che la malattia si manifesti pienamente. Potrebbe essere un marcatore di vulnerabilità.
In secondo luogo, questa scoperta apre porte importantissime per gli interventi. Se capiamo che il problema sta proprio nell’implementazione delle strategie a livello neurale, possiamo pensare a terapie mirate. Già esistono approcci psicosociali come la mindfulness o l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) che lavorano sull’accettazione e sulla gestione delle emozioni, e hanno mostrato una certa efficacia. Ma forse, in futuro, potremmo affiancare a queste terapie degli interventi più specifici, magari che puntino a “rieducare” o a potenziare quei circuiti cerebrali (probabilmente nella corteccia prefrontale) che sembrano non funzionare a dovere durante la regolazione emotiva. Si parla di possibili interventi che potrebbero avere rilevanza sia per trattare i sintomi già presenti, sia, cosa ancora più entusiasmante, per prevenire lo sviluppo della psicosi in chi è a rischio.
Certo, come ogni studio, anche questo ha i suoi limiti (ad esempio, l’EEG non ci dice esattamente *quali* aree del cervello sono coinvolte, e lo studio è trasversale, non segue le persone nel tempo per vedere chi sviluppa la psicosi). Ma il messaggio è forte e chiaro: c’è una base neurofisiologica oggettiva per le difficoltà di regolazione emotiva nelle persone a rischio di psicosi, e questo ci offre nuovi bersagli per capire meglio e, speriamo, intervenire più efficacemente. Una finestra affascinante sul complesso dialogo tra mente, cervello ed emozioni.
Fonte: Springer