Fotografia macro, obiettivo 90mm, di un blocco di paraffina contenente tessuto suino (FFPE) accanto a una piastra PCR in un laboratorio di diagnostica veterinaria, illuminazione controllata, alta definizione, focus preciso sul campione tissutale, evocando la ricerca scientifica sulla Peste Suina Africana in Uganda.

Virus Fantasma: A Caccia della Peste Suina Africana nei Laboratori Ugandesi

Ciao a tutti! Oggi voglio portarvi con me in un viaggio affascinante, quasi da detective della scienza, nel cuore dell’Uganda. Parleremo di maiali, di una malattia terribile che li colpisce, la Peste Suina Africana (PSA), e di come noi ricercatori stiamo cercando di combatterla usando tecniche all’avanguardia su campioni… beh, diciamo “vintage”.

L’Uganda è un paese dove l’allevamento di suini non è solo un’attività economica, ma per molte famiglie rappresenta una vera e propria ancora di salvezza contro la povertà. Pensate che quasi il 18% delle famiglie ugandesi alleva maiali! Purtroppo, questo settore così vitale è costantemente minacciato da un nemico invisibile e devastante: il virus della Peste Suina Africana.

Un Nemico Invisibile ma Devastante

La PSA è un vero incubo per gli allevatori. È una malattia virale emorragica che può presentarsi in forme diverse: a volte acuta e quasi sempre fatale, altre volte sub-acuta o cronica, più subdola ma comunque dannosa. Il problema grosso è che non esistono vaccini efficaci né cure specifiche. L’unica arma che abbiamo è la diagnosi rapida e accurata, seguita da misure sanitarie rigidissime per evitare che il contagio si diffonda come un incendio.

In Uganda, la PSA è endemica, significa che è sempre presente, con focolai che scoppiano qua e là durante l’anno, spesso senza che si riesca a intervenire seriamente. Molti di questi focolai rimangono “sommersi”, non documentati. E qui sorge un altro problema: la diagnosi. Confermare un caso di PSA richiede laboratori attrezzati, personale esperto e costi non indifferenti, tutte risorse che scarseggiano in molte aree del paese. Spesso, i veterinari e gli allevatori si trovano a dover fare diagnosi basandosi solo sui sintomi clinici o sulle lesioni visibili dopo la morte dell’animale (autopsia), ma la PSA può essere facilmente confusa con altre malattie. Un bel rompicapo, vero?

Aggiungeteci le difficoltà logistiche: conservare correttamente i campioni da analizzare è una sfida enorme, specialmente dove manca corrente elettrica costante. Immaginate un veterinario sul campo che deve inviare un campione al laboratorio centrale… non è affatto semplice.

Viaggio nel Tempo: I Campioni Dimenticati

Ed è qui che entra in gioco la nostra “indagine”. Cosa fare quando le risorse sono limitate e hai bisogno di capire quanto è diffusa e dove si nasconde questa malattia? Abbiamo pensato di guardare al passato! Ci siamo tuffati negli archivi dei laboratori diagnostici veterinari ugandesi (il Central Veterinary Diagnostic Laboratory e il laboratorio di patologia veterinaria della Makerere University) e abbiamo recuperato campioni di tessuto di maiale (linfonodi, milza, fegato, polmoni) raccolti tra il 2013 e il 2018.

Questi campioni provenivano da casi sospetti di malattia, inviati da veterinari e allevatori da tutte e quattro le regioni dell’Uganda. Erano stati conservati in un modo piuttosto comune ma efficace in queste condizioni: fissati in formalina e inclusi in paraffina (tecnicamente si chiamano campioni FFPE – Formalin-Fixed Paraffin-Embedded). Pensateli come piccoli “reperti storici” biologici. La fissazione in formalina, si è rivelata un’ottima alternativa per la conservazione, permettendoci di lavorare su questi tessuti anche a distanza di anni.

Fotografia paesaggistica, grandangolo 15mm, di una zona rurale ugandese con alcuni maiali che pascolano vicino a piccole fattorie, luce del tardo pomeriggio, messa a fuoco nitida, che evoca un senso di vulnerabilità alla Peste Suina Africana.

Gli Strumenti del Mestiere: PCR e IHC alla Prova

Il nostro obiettivo era chiaro: usare questi campioni archiviati per “stanare” il virus della PSA e, soprattutto, confrontare due tecniche diagnostiche potenti per vedere quanto fossero affidabili su questo tipo di materiale “datato”. Le tecniche in questione sono:

  • Immunoistochimica (IHC): Immaginatela come l’uso di “anticorpi-detective” marcati con un colorante. Questi anticorpi sono specifici per le proteine del virus della PSA. Se il virus è presente nel tessuto, gli anticorpi si legano ad esso e, osservando il campione al microscopio, vediamo delle cellule colorate (nel nostro caso, di marrone). L’IHC ci permette non solo di dire “sì, il virus c’è”, ma anche di vedere dove si trova esattamente all’interno del tessuto.
  • Reazione a Catena della Polimerasi (PCR): Questa è la tecnica da “detective del DNA”. La PCR va a cercare direttamente il materiale genetico (il DNA) del virus. È estremamente sensibile, capace di trovare anche piccolissime tracce del genoma virale. Nel nostro caso, abbiamo cercato un pezzetto specifico del gene p72 del virus della PSA, una sorta di “carta d’identità” molecolare.

Abbiamo anche esaminato i tessuti al microscopio dopo una colorazione standard (Ematossilina ed Eosina – HeE) per cercare le lesioni tipiche della PSA (emorragie, necrosi, infiammazione), un metodo chiamato istopatologia. Questo ci è servito come primo indizio, ma sapevamo che da solo non sarebbe bastato.

Cosa Abbiamo Scoperto?

I risultati sono stati illuminanti!

Prima di tutto, l’esame istopatologico ha confermato i sospetti: una buona parte dei campioni di tessuto linfoide (quelli più colpiti dalla PSA, come milza e linfonodi) mostrava lesioni suggestive della malattia. Parliamo del 33,3% dei linfonodi e del 42,8% delle milze esaminate! Emorragie diffuse, cellule distrutte… segni che indicavano una battaglia feroce all’interno dell’organismo.

Ma la vera conferma è arrivata dalle analisi molecolari e immunoistochimiche:

  • La PCR ha trovato il DNA del virus della PSA in circa il 17% di tutti i campioni archiviati esaminati.
  • L’IHC ha rilevato gli antigeni (le proteine) del virus in circa il 15% dei campioni.

La cosa più interessante è stata confrontare i risultati delle due tecniche principali: PCR e IHC. Abbiamo scoperto che c’era un accordo fortissimo (kappa = 0.939) tra loro! In pratica, quasi sempre, se la PCR diceva “positivo”, anche l’IHC confermava, e viceversa. Questo è fantastico, perché significa che anche l’IHC, che può essere implementata in laboratori forse un po’ meno sofisticati della PCR, è molto affidabile per diagnosticare la PSA su questi campioni conservati in formalina.

Al contrario, l’accordo tra la semplice osservazione delle lesioni (istopatologia) e le tecniche specifiche (PCR o IHC) era piuttosto debole. Questo conferma che basarsi solo sulle lesioni può essere fuorviante. Addirittura, abbiamo trovato il virus con la PCR in alcuni campioni (circa il 6.6%) che all’esame istopatologico sembravano “normali” o non avevano lesioni chiaramente riconducibili alla PSA! Questo ci dice che il virus può essere presente anche senza causare danni immediatamente visibili al microscopio, rendendo le tecniche molecolari ancora più cruciali.

La PCR si è confermata la tecnica più sensibile e affidabile, capace di scovare il virus anche dopo anni di archiviazione in formalina. L’IHC, però, si è dimostrata un’ottima seconda scelta, con il vantaggio aggiunto di mostrarci esattamente quali cellule erano infette e dove. Abbiamo visto il virus “colorato” di marrone principalmente all’interno del citoplasma delle cellule infette, soprattutto cellule del sistema immunitario (macrofagi) ma anche altre, confermando quanto già si sapeva sulla replicazione di questo virus.

Fotografia macro, obiettivo 100mm, di una sezione di tessuto suino colorata per immunoistochimica (IHC) su un vetrino da microscopio, illuminazione controllata da laboratorio, alta definizione dei dettagli cellulari con aree marroni che indicano la presenza dell'antigene della Peste Suina Africana.

Lezioni Imparate e Sfide Future

Questa “caccia al virus fantasma” nei campioni d’archivio ci ha insegnato molto:

  • La Peste Suina Africana è, purtroppo, ancora ampiamente diffusa in Uganda e rappresenta una minaccia costante per l’industria suinicola.
  • La PCR rimane il gold standard per la diagnosi, incredibilmente efficace anche su campioni FFPE vecchi.
  • L’IHC è un’alternativa validissima e affidabile, specialmente quando la PCR non è disponibile, e offre informazioni preziose sulla localizzazione del virus.
  • La fissazione in formalina è un metodo pratico ed efficace per conservare i campioni in contesti difficili, permettendo diagnosi accurate anche a distanza di tempo.
  • I tessuti linfoidi (milza e linfonodi) sono fondamentali: sono i siti dove è più probabile trovare il virus e le lesioni più caratteristiche. Devono sempre essere inclusi nei campionamenti!
  • L’istopatologia da sola non basta, serve sempre una conferma con test più specifici.

Il nostro lavoro sottolinea l’importanza di rafforzare le capacità diagnostiche in Uganda e di continuare a sensibilizzare le comunità sulle misure di prevenzione e controllo della PSA. La battaglia è tutt’altro che vinta, ma ogni passo avanti nella comprensione e nella diagnosi di questa malattia ci avvicina a proteggere un settore vitale per tante persone. È stata un’indagine nel passato, ma con lo sguardo dritto al futuro!

Fonte: Springer

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